lunedì 15 novembre 2021

Gli indifferenti

Anche se non saprei ricostruire con precisione il contesto in cui venne pronunciata, ricordo molto chiaramente l’affermazione di una professoressa del ginnasio secondo cui Moravia andava probabilmente ritenuto il più grande scrittore italiano del Novecento. Eravamo più o meno alla metà degli anni Novanta, e lui era morto da un lustro appena o giù di lì: chi aveva ancora avuto la possibilità di avvertirne il fascino esercitato da vivo poteva forse condividere facilmente questa impressione; per chi, come me, è invece arrivato dopo, una considerazione del genere era e resta tutt’altro che ovvia. So bene che, in vita, Moravia venne effettivamente celebrato come una sorta di papa laico della letteratura italiana e che fu ripetutamente candidato al Nobel (almeno sedici volte fino al 1971, ultimo anno per cui sono già disponibili le nomination); mi pare però che, una volta uscito di scena, sia stato rapidamente accantonato, come accade spesso con certi personaggi ingombranti, tipo quei commensali che tengono animata la conversazione, ma finché restano a tavola parlano sempre loro e, quando se ne vanno, si tira un grosso sospiro di sollievo perché ci si può godere finalmente un po’ di silenzio. Senza peraltro escludere che a tenerlo fuori dai percorsi di lettura scolastici attraverso cui di solito procede la canonizzazione letteraria sia stata anche la scabrosità di molti suoi temi, sono comunque abbastanza sicuro che se l’avessi percepito davvero come un indispensabile, non avrei atteso il trentennale dalla scomparsa per mettere alla prova il giudizio di quell’insegnante.

A un primo assaggio, il minimo che posso dire è che la sua opera d’esordio, per quanto un po’ acerba, mi pare meriti il posto solitamente riconosciutole fra i grandi classici primonovecenteschi. Scritto da un Moravia poco più che ventenne, Gli indifferenti uscì nel 1929, l’anno dei Patti Lateranensi e del consolidarsi del consenso al fascismo. Di tutto questo, però, non c’è qui la minima traccia: ci viene detto, sì, che siamo a Roma, ma per quel che vale potremmo tranquillamente essere su Marte. Probabilmente non era intenzione di Moravia scrivere un romanzo “politico” in senso stretto – e neanche avrebbe potuto farlo - ma politico questo testo lo diventa inevitabilmente, poiché quando tu scegli di ignorare volutamente quel che è palese, l’attenzione di tutti finisce per concentrarsi proprio su ciò che non viene detto (quasi si trattasse di un monumentale rimosso, come ne La disparition di Perec). Gli interni polverosi e tetri, saturi d’aria viziata, entro cui si dipana quasi per intero il racconto, rappresentano infatti l’habitat naturale di quella borghesia meschinamente ripiegata sulle proprie vogliuzze, e dunque del tutto insensibile a quanto non rientra nella sfera del proprio particulare, che di ogni regime costituisce sempre il più solido perno – soprattutto dei regimi “democratici”, come preconizzato da Tocqueville (il dispotismo democratico, diceva, «ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi»). Non so se Moravia conoscesse la celebre invettiva gramsciana contro gli indifferenti e «il loro piagnisteo da eterni innocenti», ma ne avrebbe condiviso il tono. «L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita», scriveva Gramsci. Questo romanzo è appunto un possibile svolgimento narrativo di tale tesi.

Allo scopo si apparecchia il seguente quadretto: Maria Grazia, una vedova non più giovanissima e piuttosto ottusa, tutta occhi e niente cervello, è circuita da un amante, Leo, che ha messo gli occhi sulla sua proprietà e già che c’è pure sulla figlia di lei, Carla, una ventiquattrenne a cui qualunque cosa andrebbe bene pur di non ritrovarsi impaludata nella stessa vita opaca della madre. Ne nasce perciò una sorta di ménage à trois, sottilmente incestuoso, di cui ovviamente la madre non s’avvede, convinta com’è che a insidiare il suo uomo sia invece la vicina di casa, mentre quest’ultima ha invece gettato idealmente i ganci della sua guepière da vissuta matrona sul figlio di Maria Grazia, Michele, prototipo dello svogliato bamboccione. Tutto, qui, è però troppo «opprimente e miserabile e gretto» perché questa commedia degli equivoci - che spesso assomiglia all’estenuante preliminare di un film porno – possa sciogliersi in una vera e propria farsa o elevarsi ad autentica tragedia. Sembra quasi che Moravia si chieda cosa mai si possa ricavare da personaggi tanto squallidi, sistematicamente incapaci di portare a termine anche solo uno dei progetti, magari efferati, che architettano nella propria testa (come mostra in modo lampante la scena madre del libro). Rimuginando sulla vacuità della sua vita, Michele s’immagina con involontaria ironia «come doveva essere bello il mondo (…) quando un marito tradito poteva gridare a sua moglie: “Moglie scellerata; paga con la vita il fio delle tue colpe” e, quel ch’è più forte, pensar tali parole, e poi avventarsi, ammazzare mogli, amanti, parenti e tutti quanti, e restare senza punizione e senza rimorso: quando al pensiero seguiva l’azione: “ti odio” e zac! Un colpo di pugnale: ecco il nemico o l’amico steso a terra in una pozza di sangue; quando non si pensava tanto, e il primo impulso era sempre quello buono; quando la vita non era come ora ridicola, ma tragica, e si moriva veramente, e si uccideva, e si odiava, e si amava sul serio, e si versavano vere lacrime per vere sciagure, e tutti gli uomini erano fatti di carne ed ossa e attaccati alla realtà come alberi alla terra». Persino l’immaginario è colonizzato dalla brutta retorica: in questo suo lamentarsi per non essere all’altezza degli eroi di un tempo, Michele appare infatti «goffo ed esagerato come un cattivo attore di provincia». Puro trash ante-litteram.

In anticipo sui tempi mi pare anche l’intuizione di concedere a questa controfigura sfibrata di Raskolnikov una beffarda, parziale, illuminazione attraverso l’epifania di un pupazzo pubblicitario esposto nella vetrina di un barbiere, al termine dell’unica lunga sequenza in esterna dell’opera. Osservandolo nell’atto simulato di radersi, Michele constata che «non ci poteva esser alcun nesso tra la banale azione che compiva e la lieta soddisfazione della sua faccia rosea, ma appunto in tale assurdità stava tutta l’efficacia della réclame; quella sproporzionata felicità non voleva additare l’imbecillità dell’uomo, sibbene la bontà del rasoio; non voleva mostrare tutto il vantaggio di possedere una modesta intelligenza ma quello di radersi con una buona lama. (…) “Fai come me… e diventerai come me”, mettendo la propria persona stupida, goffa, volgare, come un esempio, come uno scopo da raggiungere». In «questo mondo deforme, falso da allegare i denti, amaramente grottesco», tutti assumono pose pensando in questo modo di essere vivi, non essendo in realtò altro che fantocci all’opera in una gigantesca «commedia mancata». Alla fine, infatti, non succede quasi nulla, non c’è una vera evoluzione, uno sviluppo decisivo, un turning point: per quanto possa apparire ingiusta «questa assenza del miracolo», «questa meticolosa realtà» è tutto quello che è e continuerà ad essere quello che è. Dopo un po’ vien quasi la nausea a stare dietro a questi sfaccendati inconcludenti, ma credo che l’intenzione fosse proprio quella.

L’unico che in questa melma ci sguazza a proprio agio è Leo: «ed io invece signori miei tengo ad affermare che tutto mi va bene, anzi benissimo e che sono contentissimo e soddisfattissimo e che se dovessi rinascere non vorrei rinascere che come sono e col mio nome: Leo Merumeci». Anche lui in realtà è un fantoccio, una sorta di Falstaff minore, ma non se ne cura, e quest’altra forma di indifferenza risulta se non altro meno stucchevole rispetto alle velleità degli altri personaggi. Ai due fratelli che commiserano queruli la propria condizione, senza aver la forza di cambiarla, vorrebbe dire «ma fatemi il santissimo piacere (…) lasciate quelle facce compunte, quei discorsi gravi… dite pane al pane, e vino al vino… siate quel che siete e nulla più». Il nostro Leo «affari nel vero senso della parola non ne aveva, non lavorava, tutta la sua attività si limitava all’amministrazione dei suoi beni, consistenti in alcune case, e in qualche cauta speculazione in Borsa; però le sue ricchezze aumentavano regolarmente ogni anno, egli non spendeva che tre quarti della rendita e dedicava il resto alla compra di nuovi appartamenti». Così vive e prolifera il bastardo che sta sempre al sole, il cui contributo alla vita sociale è meno di zero, ma al quale non mancano mai medagliette da esibire: si spenga anche la luna e cadano le stelle, come un qualunque Trivellone interpretato da De Sica, la sua massima priorità sarà sempre e solo quella di trovare una verginella da deflorare nel suo appartamento pieno di buone cose di pessimo gusto. Se il meno peggio è lui, siamo ben presi.

(finito il 9 novembre 2020)

Ho parlato di


Alberto Moravia
Gli indifferenti
(Club degli Editori 1984)

340 pp. 

(ed. or.: 1929)

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