giovedì 14 ottobre 2021

Novantatré

Sebbene per noi novecenteschi e post-novecenteschi l’anno letterario per eccellenza sia ormai da tempo l’orwelliano Millenovecentottantaquattro, è probabile che se fossimo vissuti un secolo prima avremmo pensato piuttosto al Novantatré di Victor Hugo – numero che, in un’ipotetica smorfia storica, corrisponderebbe alla Rivoluzione assai più dello scontato Ottantanove, poiché è in quell’anno fatale del Settecento che il processo cominciato con la convocazione degli Stati Generali conobbe la sua crisi decisiva. Parigi contro la Vandea, i figli contro i padri, la Francia contro tutti e tutti contro la Francia: data la situazione estrema, spasmi e convulsioni sono più che comprensibili. Come spiega bene uno dei personaggi, «la Rivoluzione ha un nemico, il vecchio mondo, e nei suoi confronti essa è senza pietà, così come il chirurgo ha un nemico, la cancrena, e per essa non ha pietà. (…) Essa mutila, ma salva. (…) Essa pratica una profonda incisione alla civiltà, e ne verrà la salvezza del genere umano. Si soffre? Oh, certo. E quanto tempo durerà? Il tempo che ci vuole per l’operazione. E poi, sarà la vita. La Rivoluzione amputa il mondo. Donde quest’emorragia, il ‘93» e donde, appunto, «l’immensità di quell’istante spaventoso, (...) più grande di tutto il resto del secolo». Una trama lineare scandita attraverso una sequenza ben precisa di atti e una studiata teatralità, nei dialoghi come nelle pose come nelle scene, quasi si trattasse di un history play shakespeariano svolto in forma di romanzo, offre il supporto narrativo per rappresentare il concitato guazzabuglio di quei mesi.

Ci sono libri che vanno letti sottovoce. Questo andrebbe invece declamato, anzi tuonato, con un sottofondo costante non meno epico della cavalcata delle valchirie: anche il groviglio della coscienza, con tutti i suoi tortuosi circuiti e ripensamenti, è rappresentato qui con pennellate nette e potenti. L’occhio corre veloce sulla pagina, ammaliato dalla meravigliosa facondia di Hugo e dalla sua apparentemente inesauribile capacità di evocare immagini folgoranti in cui si condensano tomi e tomi di letteratura storiografica sull’argomento. A titolo d’esempio, fra le tantissime citazioni che sarei tentato di fare, valga l’attacco della descrizione dedicata alla Convenzione: «al cospetto di questa sommità, si resta incantati. Mai nulla di più alto è apparso sull’orizzonte umano. C’è l’Himalaya, e c’è la Convenzione. La quale è forse il punto culminante della storia», in quanto si propose di «cercare il nocciolo di reale che si cela in quello che gli uomini chiamano l’impossibile». Lì dentro, per la verità, c’è un po’ di tutto, tutti i possibili tipi umani immaginabili e anche molti che non ti immagineresti proprio in quel contesto. Di tanti di loro si traccia un ritratto memorabile, con la concisione degna del miglior caricaturista, che in due battute sa fornire una compiuta sintesi storica e morale. Saint-Just? «Abita dentro una cravatta». Sieyès? «Un uomo profondo che era divenuto cavo. (…) Della Rivoluzione era cortigiano, non servitore». Ciò che vale per i singoli vale anche per i gruppi: dei membri della Palude si afferma che «davano il loro appoggio a tutto fino al giorno in cui tutto rovesciavano. Possedevano l’istinto della spinta decisiva da impartire a tutto ciò che traballa». Non c’è alcuna indulgenza, nessun cedimento alla retorica dei padri fondatori tutti buoni e tutti santi: accanto a un eroe c’è un mezzo delinquente, per ogni Parri c’è almeno uno Scilipoti.

Si tratta dunque di «spiriti in balia del vento». Ma – è qui sta il punto - «era un vento prodigioso». Hugo possiede una maestosa visione della storia - qualcosa a cui non crediamo più, ma a cui ci piacerebbe ogni tanto credere ancora – che gli consente di non retrocedere di fronte alle meschinità in cui inevitabilmente la Rivoluzione inciampa: «essere membro della Convenzione voleva dire essere un’onda dell’oceano. (…) Attribuire la Rivoluzione agli uomini, è attribuire la marea alle onde. La Rivoluzione è un’azione dell’ignoto. (…) Il 14 luglio porta la firma di Camille Desmoulins, il 10 agosto di Danton, il 2 settembre di Marat, il 21 settembre di Grégoire, il 21 gennaio di Robespierre; ma Desmoulins, Danton, Marat, Grégoire e Robespierre sono solo firmatari. L’enorme e sinistro redattore di queste grandi pagine ha un nome, Dio, e una maschera, Destino. (…) La Rivoluzione è una forma del fenomeno immanente che ci assedia da ogni lato, e che noi chiamiamo Necessità. Di fronte a questo misterioso intreccio di benefici e di sofferenze, si drizza il “Perché” della storia. Perché sì. Questa, che è la risposta di chi non sa nulla, è anche la risposta di chi sa tutto. Al cospetto di siffatte catastrofi climateriche che devastano e vivificano la civiltà, si esita a giudicare il particolare. Biasimare o lodare gli uomini a causa dei risultati, equivale press’a poco a lodare o a biasimare le cifre a causa del totale. Ciò che deve passare passa, ciò che deve spirare spira. L’eterna serenità non è turbata da simili aquiloni. Al di sopra delle rivoluzioni, la verità e la giustizia dimorano come il cielo stellato al di sopra delle tempeste».

Non stupisce, poste queste premesse, che i principali protagonisti del racconto, più che uomini, appaiano come l’equivalente spirituale di forze naturali, figure che danno vita a concetti, idealtipi cesellati con una maestria raramente eguagliata da altro romanziere: non ha senso contestare il vento perché spira, ma se ne possono provare a studiare le leggi che ne regolano i flussi e riflussi. Qualche accenno appena, anche qui. La parte della reazione è interpretata dal signore di Lantenac, inviato in Vandea per dare una testa alla rivolta: un uomo che «crede in Dio, crede nella tradizione, crede nella famiglia, crede nei propri avi, crede nell’esempio di suo padre, nella lealtà, nel dovere verso il suo sovrano, nel rispetto delle vecchie leggi, nella virtù, nella giustizia» - e che proprio per questo pensa che «i libri creano i crimini» e che sarebbe stato meglio impiccare subito i Voltaire e i Rousseau, prima che le loro idee conducessero a questo immane pasticcio. La «vecchia Francia» - pensa – quello «sì che era bello e nobilmente ordinato; e voi l’avete distrutto. (…) Ah, non volete più avere i nobili? Bene, non ne avrete più. Fateci una croce sopra. Non avrete più paladini, non avrete più eroi». L’Europa dei castelli e delle cattedrali è definitivamente tramontata, gli dei sono fuggiti, il mondo è piombato in un eterno e sbiadito crepuscolo da cui non si riprenderà mai più.

Di fronte a lui si staglia Cimourdain, il sacerdote divenuto profeta della Rivoluzione. A lui, in particolare, Hugo dedica un ritratto portentoso, in cui l’illuminismo estremo tracima nel romanticismo più sinistro e inquieto. Leggere per credere: «Cimourdian era una coscienza pura ma tenebrosa. Portava in sé l’assoluto. (…) Prete, per orgoglio, caso o grandezza d’animo, aveva rispettato i voti; non era però riuscito a conservare la fede. La scienza gliel’aveva demolita (…). Non potendo smettere di esser prete, aveva faticato per rifarsi uomo, ma uomo austero; vietatagli la famiglia, aveva adottato la patria; rifiutatagli una moglie, aveva sposato l’umanità. (…) Visto che amare gli era interdetto, si era dato a odiare. Odiava le menzogne, la monarchia, la teocrazia, la sua tonaca da prete; odiava il presente, e invocava a gran voce il futuro; lo presentiva, lo intravadeva in anticipo, lo intuiva spaventoso e magnifico; capiva che, perché la trista miseria umana venisse eliminata, era necessario qualcosa di simile a un vendicatore il quale fosse un liberatore. Adorava da lungi la catastrofe. (…) Cimourdain apparteneva al novero di coloro che hanno una voce dentro di sé e che l’ascoltano. (…) Aveva la cieca certezza della freccia che vede unicamente il bersaglio e a esso si dirige. Nelle rivoluzioni, nulla di più temibile della linea retta. Cimourdain tirava sempre, fatalmente, diritto. (…) Era un impeccabile che si riteneva infallibile. Nessuno l’aveva mai visto piangere. Virtù inaccessibile e glaciale. Era lo spaventoso uomo giusto. (…) Cimourdain era sublime; ma sublime nell’isolamento, nella scoscesità, nel lividore inospitale; sublime in un paesaggio di precipizi. Le alte montagne hanno codesta sinistra verginità».

Lantenac e Cimourdain odiano e si odiano allo stesso modo: «ciascuno dei due era, per la parte avversa, il mostro. (…) Diciamolo pure: i due, il marchese e il prete, almeno fino a un certo punto erano la stessa persona. La bronzea maschera della guerra civile ha due profili, uno rivolto al passato, l’altro all’avvenire, ma entrambi altrettanto tragici. Lantenac era il primo di tali profili, Cimourdain il secondo; solo che l’amaro ghigno di Lantenac era ammantato d’ombra e notte, mentre sulla fronte fatale di Cimourdain traspariva un lucore aurorale». Fra questi due opposti non sembra esserci possibilità di mediazione, nessuna forma di sintesi, nient’altro se non la reciproca distruzione (sebbene entrambi contengano dentro di sé risvolti insospettati e profondi). Per la verità, ci sarebbe anche un terzo personaggio, Gauvain, a un tempo nipote di Lantenac e allievo di Cimourdain, nobile di nascita ma rivoluzionario per scelta, il cui carattere clemente lo rende tuttavia sospetto ai capi repubblicani che l’hanno inviato in Vandea per reprimere i disordini. Un dialogo vibrante di tensione drammatica pone di fronte, verso la fine del romanzo, quelle che si potrebbero considerare come le due anime della Rivoluzione stessa. Cimourdain sogna la «Repubblica dell’assoluto», Gauvain «la Repubblica dell’ideale»; la prima «dosa, misura e regolamenta l’uomo» come un teorema, la seconda «lo solleva nell’azzurro del cielo» come un’aquila; l’uno vorrebbe che l’uomo fosse stato fatto da Euclide, l’altro da Omero; il primo vede solo la giustizia, il secondo aspira più in alto; questi vuole il servizio militare obbligatorio, quello la pace che rende superfluo ogni reclutamento. «Voi – afferma Gauvain - volete la caserma obbligatoria, io voglio la scuola. Voi sognate l’uomo soldato, io sogno l’uomo cittadino. Voi lo volete terribile, io lo voglio pensoso. Voi fondate una Repubblica di gladii, io (…) fonderei una Repubblica di spiriti». Se ha da esserci la tempesta, conclude, che tempesta sia, non arretreremo; però non bisogna mai perdere la bussola e avere ben chiaro il porto verso cui navighiamo, se no tutto questo sarà solo un carnaio fine a se stesso.

Quasi un secolo dopo la presa della Bastiglia e una cinquantina d’anni prima dell’assalto al palazzo d’Inverno, in una Francia ancora traumatizzata dall’esperienza della Comune (di cui è caduto proprio quest’anno il centocinquantesimo anniversario), Hugo poneva una domanda che sarebbe stata rilanciata di continuo dalle generazioni successive, e cioè se la Rivoluzione sia da considerarsi «la giustificazione del Terrore» o se al contrario il Terrore sia «la calunnia della Rivoluzione». Gauvain e Cimourdain rappresentano rispettivamente il volto utopistico e quello oppressivo del Novantatré: eliminandosi a vicenda, appaiono davvero la prefigurazione dei generosi idealisti e dei luciferini burocrati novecenteschi che finiranno per sconfessarsi reciprocamente, lasciando così sopravvivere e prosperare i Lantenac che entrambi vorrebbero combattere. Effettivamente, «è così che va e viene Parigi, l’immenso pendolo della civiltà che volta a volta tocca l’uno e l’altro polo, le Termopili e Gomorra. Dopo il Novantatré, la Rivoluzione conobbe una singolare eclissi, il secolo parve scordarsi di terminare quello che aveva iniziato, si ebbe l’intermezzo di non so che orgia la quale avanzò sul proscenio, fece passare in secondo piano la terribile Apocalisse, velò la visione smisurata e, finito lo spavento, si buttò via dalle risate; la tragedia affogò nella parodia, e all’orizzonte un polverone carnevalesco offuscò Medusa».

Eppure, sotto il deposito di cenere e paillettes continua ad ardere la stessa brace, come un conflitto rimosso e rimasto irrisolto. Anche i più recenti responsi elettorali sembrano darcene conferma, riproponendo ataviche linee di faglia mai del tutto ricomposte, il ritorno dei rosari branditi come scimitarre, ma anche la difesa isterica di uno spazio vitale esteso quanto il cortile di casa, l’immunizzazione dalla storia attraverso i muri anziché i vaccini. Hugo offre una chiave di lettura non scontata quando distingue tra due diverse appartenenze che spesso vengono confuse: «paese, patria: due parole che riassumono tutta quanta la guerra di Vandea; contesa del principio locale contro il principio universale; paesani contro patrioti». E se per un attimo ha quasi una vaga premonizione pasoliniana nel constatare, con una punta di malinconia, che «anche i selvaggi hanno vizi, ed è da questo lato che poi li prende la civiltà», trasformandoli in mostri, la sua conclusione è comunque che «gli orizzonti circoscritti generano le idee parziali: ciò che a volte condanna i grandi cuori a essere piccole menti».

(finito il 15 settembre 2020)

Ho parlato di


Victor Hugo
Novantatré
(Mondadori 2019)

trad. di F. Saba Sardi

381 pp. | 10,50 €

(ed. or.: Quatrevingt-treize, 1872)

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