lunedì 13 settembre 2021

L'ordine degli Assassini

Prima, molto prima di Assassin’s Creed noi piccoli nerd degli anni ‘90 ci divertivamo a giocare con i librogame, ed è proprio consumando alla morte uno di questi – uno dei più belli – che mi ritrovai per la prima volta di fronte alla veneranda e terribile figura del Vecchio della Montagna. Erano proprio altri tempi. Senza internet a portata di tocco, raccogliere anche solo un minimo di informazioni significative su ciò che suscitava la tua curiosità di ragazzino risultava molto più complicato di quanto non lo sia oggi e perciò ogni conoscenza acquisita era il prodotto di una piccola impresa di cui andare orgogliosi. La storia che più o meno ricostruii, amalgamando le fonti su cui ero riuscito a mettere le mani (dalle enciclopedie in biblioteca a Martin Mystère), raccontava di una sorta di signore della guerra che, all’epoca delle crociate, si era arroccato in un’inespugnabile fortezza da qualche parte sui monti alle spalle dei regni cristiani, il cui aspetto esteriore, arcigno quanto la Cittadella del Serpente di Skeletor, serviva a nascondere il meraviglioso giardino che il suo padrone vi aveva ricreato dentro, un parco in cui scorrevano ruscelli di latte e miele e dove splendide vergini erano a disposizione dei giovani che periodicamente il Vecchio vi introduceva, dopo averli fatti rapire e narcotizzare, in modo da indurli a credere di avere raggiunto davvero il paradiso promesso da Maometto; di qui, poi, alla bisogna, con l’aiuto del medesimo narcotico li faceva riportare nel mondo esterno, per assegnare loro missioni spericolate – il più delle volte omicidi mirati – alle quali i meschini, assuefatti al godimento, si prestavano con lo slancio della disperazione, perché convinti che quello fosse l’unico modo per ritornare quanto prima nel luogo incantato da cui erano stati strappati. E poiché la sostanza impiegata per ottunderne i sensi non era altro che l’hashish, a questi spietati sicari venne appunto dato il nome di “assassini”.

Storia bellissima e suggestiva, che colpì profondamente l’immaginario dei medievali, come testimonia la rapida diffusione del termine stesso “assassino” nelle lingue volgari (lo impiega anche Dante nel canto dei simoniaci, per dire). Peccato solo che non vi sia quasi nulla di vero. Questa leggenda, raccolta dagli europei di passaggio in Terra Santa o lungo la Via della Seta, come Marco Polo, è una rielaborazione romanzesca delle dicerie che circolavano in una parte dell’Islam a proposito di un suo ramo collaterale, di cui questo libro ricostruisce metodicamente la storia, con piglio accademico e solide basi filologiche. In questo modo, il raccontino da cui sono partito finisce confinato in una manciata di paginette, citato quasi vergognosamente col disappunto di chi sa di non poterlo non menzionare, piccola isola di cialtroneria in un oceano di sconfinata erudizione. Confesso che, non aspettandomi una tesi di dottorato (poiché il libro di cui parlo di fatto lo è), ho patito un po’ il decollo di questa nuova avventura, ma poi, presa quota, mi sono lasciato guidare volentieri nell’esplorazione di un mondo di cui non sapevo niente di preciso.

I fatti, in breve. A noi per i quali l’Islam appare come un tutt’uno e i musulmani sono tutti quanti solo “marocchini” fa sempre un po’ effetto prendere coscienza che invece al suo interno c’è stata e c’è una varietà di posizioni paragonabile a quella esistente nel cristianesimo, con tutte le sue confessioni, ordini e congregazioni (e per questo restiamo sorpresi che quelli che noi percepiamo come generici “cattivi”, come gli ayatollah iraniani e i mullah talebani, o i talebani e l’Isis, per molti aspetti non si sentano affatto “dalla stessa parte”). Eppure, sin da quando gli arabi si lanciarono alla conquista del Medio Oriente, il mondo islamico già «straripava della più multiforme vitalità». La frattura più vistosa e duratura, risalente alle generazioni immediatamente successive al Profeta, è ovviamente quella tra sunniti e sciiti. Per un certo periodo, con la conquista da parte dei Fatimidi di uno snodo strategico come l’Egitto, la bilancia sembrò pendere dalla parte dello sciismo, ma la sua posizione di primato venne rovesciata, poco dopo il Mille, dall’espansione dei turchi, i quali, dopo essersi convertiti alla Sunna, misero in piedi un immenso sultanato che andava dallo Xinjang all’Anatolia. É a questo punto che un guerriero al tempo stesso un po’ mistico e un po’ filosofo, Hasan-i Sabbah (divenuto poi il Vecchio della leggenda) si pose a capo dell’opposizione sciita nei territori virtualmente controllati dai turchi e cominciò una lotta senza quartiere contro i nuovi padroni, il cui primo successo strategico fu l’occupazione di una serie di castelli montani a sud del Caspio, compresa la celebre rocca di Alamut, che divenne di lì in poi il rifugio principale di questi ribelli, noti alle cronache (per ragioni che non sto qui a riprendere) con il nome di ismailiti o naziriti. Simili a delle Montségur iraniche, queste città nascoste di lingua persiana si rivelarono a lungo pressoché inespugnabili e da lì, almeno all’inizio, gli ismailiti coltivarono il sogno di guidare la riscossa sciita, ricorrendo anche a metodi che oggi definiremmo terroristici, in quanto la teatralità dell’attentato era ricercata almeno quanto l’effettiva eliminazione del bersaglio (tant’è che spesso e volentieri l'attacco si concludeva con la morte dello stesso attentatore). Il delitto, nelle intenzioni, serviva infatti a scuotere le coscienze degli spettatori più ancora che a versare il sangue di un nemico.

Per circa un secolo e mezzo, dal 1090 al 1256, gli ismailiti costituirono così uno stato nello stato all’interno del’impero turco, percepito, a seconda dei momenti, come un’effettiva spina nel fianco o come una realtà talmente isolata da poterla tranquillamente ignorare. Si trattava però di uno scisma ideologicamente molto connotato. Al suo sorgere, Hasan aveva elaborato una sorta di dialettica della ragione che ne metteva in discussione la capacità di guidare autonomamente l’essere umano. Una teoria simile venne formulata, quasi contemporaneamente, in campo sunnita, da al-Gazzali, ma se quest’ultimo ne traeva la conclusione che l’unica autorità in grado di orientare l’uomo fosse l’esperienza della comunità condensata nella legge (la Sunna, appunto), il primo riteneva che tale funzione potesse essere svolta unicamente dall’imam, che per elezione divina era da considerarsi superiore persino alla legge. In questo modo tale figura veniva ad assumere tratti ben più che profetici, non troppo dissimili da quelli che il Cristo ha per i cristiani (“chi ha visto me ha visto il Padre” è un’affermazione che Hasan le avrebbe senza problemi riferito). Ed è appunto l’idea che la loro guida spirituale potesse annullare le norme identitarie del buon musulmano, unita alle azioni efferate che, a torto o a ragione, venivano loro attribuite, a suscitare nel mondo sunnita uno specialissimo orrore per quegli eretici. Se per Hasan e i suoi seguaci i sunniti avevano sostituito le loro tradizioni all’illuminazione diretta di Dio, per questi ultimi gli ismailiti erano solo dei folli e incontrollabili idealisti capaci letteralmente di qualunque cosa: «il brivido dell’hashish e del pugnale consentiva a un mondo sobrio e irreprensibile di gettare uno sguardo atterrito su possibilità altrimenti inimmaginabili. Qualsiasi nefandezza esulasse dalla portata dell’uomo comune, ma, nella sua perversità, lo attraesse, poteva essere creduta vera dei terribili Nizariti», i quali divennero perciò i protagonisti prediletti di una quantità di trame complottiste, considerati responsabili ultimi e misteriosi di tutto ciò di cui non si riuscivano a trovare altre spiegazioni. All’apice del contrasto, uno dei successori di Hasan si spinse a proclamare la Qiyama, ossia l’avvenuta “resurrezione”: da quel momento bisognava considerare la fine del mondo come già compiuta e la legge abrogata, poiché «in Paradiso non vi saranno leggi» e tutti vedranno Dio faccia a faccia. Grandiosa visione teologica, ma anche segno di ripiegamento e rinuncia a qualsiasi slancio missionario, in quanto affermava che i giochi erano conclusi e il giudizio già espresso.

Forse senza l’arrivo dei mongoli questa sorta di arca degli eletti avrebbe continuato ad autogovernarsi a lungo sui monti dell’Iran, insensibile alle sirene del mondo, o forse quello stato di tensione spirituale non sarebbe durato comunque molto più a lungo (segni di cedimento in tal senso sono attestati già nell’ultima fase di indipendenza), ma ad ogni modo l’invasione di Hulagu Khan, nipote di Gengis, mise fine all’esperimento e oggi quel che resta di quella tradizione ha i connotati di un miliardario come l’Aga Khan, che ha ben poco a che spartire con l’ascetico fervore del suo predecessore Hasan. Sia come sia, in questa storia c’è comunque una morale. Da tutta questa complessa elaborazione dottrinale di cui non ho dato che un minimo assaggio, gli europei ci ricavarono, sia pure un buona fede, una favoletta da Mille e una notte. Il problema è che questo continua a essere lo stesso approccio approssimativo con cui ancora oggi ci muoviamo da quelle parti.

(finito il 9 settembre 2020)

Ho parlato di


Marshall G. S. Hodgson
L'ordine degli Assassini
La lotta dei primi Ismailiti Nizariti 
contro il mondo islamico
(Adelphi, 2019)

trad di S. D'Onofrio

522 pp. | 32 €

(ed. or.: The Order of Assassins, 1955)

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