domenica 4 luglio 2021

Il rumore del mondo

Credo che più o meno ogni monregalese abbia sentito almeno una volta nella vita la storiella secondo cui il generale Bonaparte, non ancora primo console né tantomeno imperatore, entrato trionfalmente in Mondovì dopo la vittoria del Bricchetto, dai giardini del Belvedere avrebbe affermato o scritto di essere “nel più bel paese del mondo”. Conoscendo un po’ il personaggio, non è neppure implausibile che l’abbia detto davvero, come l’avrà detto di mille altri luoghi, e che in quel momento ci credesse perfino, perché come può non essere il paese più bello del mondo quello che si attraversa quando si è giovani e vincenti? Peraltro, almeno su tale considerazione, questo libro ci suggerisce che i due secoli non avrebbero avuto motivo di essere l’un contro l’altro armati. Infatti, pur detestando visceralmente Napoleone e i suoi uomini, «i suoi soldati, i suoi burocrati, i suoi avvocati, notai, ingegneri e medici, l’intera compagine dei suoi seguaci», gente nuova, ubriacata dal pensiero «che si possano cambiare le cose e realizzare imprese mai fatte prima» - e perciò orgogliosamente in campo anche lui al Bricchetto, ma fra le fila dei granatieri di Sardegna, «per difendere la patria contro un popolo di bottegai travestiti da soldati che si vantavano di essere un’armata» e provare a tenere su «l’ultima diga (...) prima che l’inondazione travolgesse ogni cosa» e «quella modernità così volgare e rumorosa» proveniente dalla Francia si scatenasse anche sul torpido Piemonte sabaudo – anche un uomo d’altri tempi come il marchese Casimiro di Vignon avrebbe sottoscritto convintamente il giudizio di apprezzamento per questi luoghi. Tant’è che quando il figlio Prospero gli porta in casa come nuora una ragazza inglese di cui s’era innamorato a Londra e che tornato a Torino già non ama più, nel suggerirle di trasferirsi presso la tenuta di famiglia del Mandrone, sulle colline che da Mondovì scendono verso Vico, per sottrarsi così alla sofferta convivenza col marito, non pensa affatto di farle un torto. «Era convinto che non esistesse un posto al mondo più intensamente suggestivo del Piemonte meridionale, soprattutto in quel fazzoletto di terra stretto tra le Alpi, le Langhe e la pianura. Anne avrebbe avuto giornate frizzanti, mattine ricamate di brina. Sere di stelle pungenti come capocchie di spilli. Odore di freddo, di muschio, di erbacce. Si sarebbe sottratta a interminabili ricevimenti a corte, riverenze e pettegolezzi. Al Mandrone avrebbe avuto il silenzio di una notte scura come non ne esistevano altrove e le luci violette dell’alba, cangianti come gli ellebori; il paradiso era questo e non c’era crudeltà nell’offrirlo a qualcuno». Ciò che rende per me speciali queste considerazioni è che io questo paradiso ce l’ho proprio qui intorno mentre scrivo, poiché coincide esattamente con la campagna dove vivo e in cui mi ritrovavo di nuovo immerso non appena riemergevo dalle pagine che me ne stavano parlando – fenomeno abituale forse per chi abita in paesi già benedetti dalla grande letteratura (senza andare tanto distante, la Langa di Pavese o di Fenoglio), ma per me assolutamente inedito. É qui che ho avuto il privilegio di trascorrere il lockdown dell’anno scorso, ragion per cui capisco benissimo quel che dice il vecchio Casimiro pensando ad Anne: «se davvero di esilio si tratta, è illuminato dalla bellezza».

Il problema, semmai, è che da queste parti si rischia sempre di essere qualche metro indietro rispetto al passo spedito della civiltà. Alla partenza per Londra, Prospero di Vignon riceve dal ministro d’Aglié un biglietto di felicitazioni in cui gli si dice senza tanti giri di parole «state partendo per il futuro». Ed effettivamente Londra, negli anni ‘30 del XIX secolo, è in pieno fermento: mentre nella Torino della Restaurazione erano ricomparse parrucche e codini, là tutto corre al ritmo della macchina a vapore, le merci come gli uomini come le idee. Laggiù «tutto luccica, le vetrine, i mantici delle carrozze, il dorso dei cavalli intriso di pioggia. Tutto è splendore. Tutto è moderno». C’è curiosità e simpatia verso l’Italia, ma è una curiosità, come spesso capita, da cartolina: gli inglesi «credono a qualsiasi cosa, perché vogliono sentirsi dire che la Penisola è tutta un chiaroscuro, drammatica e pericolosa ma anche pittoresca e soave». Non per nulla i librai di Barnes Street, insieme alle opere di Alfieri e Foscolo, si fanno spedire «casse di vino, salumi e prosciutti, che rivendevano con un piccolo sovrapprezzo». Benedetta Cibrario, che ha diviso parti significative della sua vita adulta tra Torino e Londra, deve aver percepito in prima persona questo contrasto nella sua perdurante attualità e l’ha sviluppato in un libro avvincente che, a scanso di equivoci, fin dal risvolto di copertina viene definito “romanzo-romanzo”, perché di ottocentesco ha non solo l’ambientazione, ma anche l’impianto, che mescola narrazione in terza persona, scambi epistolari e sezioni di diario, la descrizione puntuale dei sentimenti e degli ambienti, una spiccata attenzione per il retroterra sociale degli eventi, come se l’autrice avesse voluto provare a raccontare l’Italia preunitaria con le parole che avrebbero potuto usare una Jane Austen, un Dickens, uno Stendhal o un Balzac se mai fossero stati italiani (il Grande Romanzo Italiano, si sa, mette invece le questioni a distanza, ambientandole nel Seicento, anche se le due epoche sono legate insieme coi fili di seta prodotti nelle manifatture prealpine). Poi, certo, un conto è descrivere dei processi in corso, offrendone un’interpretazione in presa diretta che diventa anche fonte preziosa per i posteri, un conto è ricostruire centosettant’anni dopo uno scenario a partire da quelle fonti, tuttavia il risultato finale è tutt’altro che disprezzabile, in quanto, al di là dell’indiscutibile valore narrativo, il racconto del matrimonio fallimentare tra un altezzoso aristocratico piemontese e la brillante figlia di un ricco mercante inglese di stoffe offre una rappresentazione abbastanza verosimile di quelle dinamiche che da un po’ di tempo a questa parte sono state sottolineate anche dalla storiografia - e cioè che il Risorgimento italiano, prima ancora che dalle guerre di indipendenza, è stato innescato dal rinnovamento delle tecniche agricole e manifatturiere e che l’opera intrapresa da Cavour nelle sue terre di Leri non è stata meno importante di quella svolta poi come primo ministro del Regno, anzi è strettamente connessa con essa.

Il “rumore del mondo” è appunto quello che a un certo punto comincia ad arrivare perfino qui, alla periferia dell’impero, nella sonnacchiosa provincia granda. É sempre il marchese Casimiro a percepirlo nitidamente: «aveva visto avvicendarsi al potere re, consoli, prefetti, imperatori, altri re; cravatte alte, basse, zimarre, parrucche, spadini; non era così sordo da non sentire ovunque un brusio sotterraneo, un intreccio di voci nuove, mai avvertite prima; e non era così cieco da non vedere gli sguardi del mondo che puntavano verso orizzonti ignoti. Qualcuno continuava a voltarsi indietro, nella speranza che il passato potesse fare da scudo contro le incognite del futuro; qualcun altro confidava nel domani; c’era chi tesseva e chi disfaceva la tela, chi tirava i fili e chi li svolgeva. Contro questo rumore del mondo non aveva difese adeguate; temeva che tutta la complessa architettura del secolo – quella in cui si sentiva protetto e al sicuro – gli sarebbe crollata addosso, come aveva visto crollare la sua quercia scavati dai tarli: un involucro vuoto che al primo colpo di accetta si era schiantato a terra con un boato». Eppure quest’uomo già incamminato verso la vecchiaia, che deplora la velocità garantita dai più recenti piroscafi perché «uno dei vantaggi della distanza è che ciò che è troppo dissimile da noi possa restare lontano a sufficienza», e che ha passato la vita a litigare con la moglie ginevrina perché lei considerava sepolcrale quell’atmosfera torinese che per lui era invece, fin nella topografia «regolare, logica, mai scalena» della città, la quintessenza dell’ordine e della «società gerarchica, ordinata e ubbidiente, che aveva conosciuto da bambino», quest’uomo che si vestirà a lutto il giorno in cui Carlo Alberto concederà lo Statuto, ecco, persino lui finisce per essere coinvolto da tutto questo sommovimento e cede almeno in parte alle sirene dell’epoca presente, arrivando a considerare il figlio, totalmente sordo a questi richiami, come «un pollone nato da una vecchia radice, all’apparenza pieno di gioventù e vigore, ma in realtà un getto sterile, di quelli che i giardinieri recidono al piede». Di ben altra tempra è Enrico Verra, un audace imprenditore monregalese «convinto che in tutte le cose può nascondersi un “oltre”» e che mettendo insieme competenza tecnica, visione del mondo e intraprendenza si possa letteralmente fare tutto: «non è appassionante? Non è il futuro, questo?». Verra ha in mente di costruire «la prima grande fabbrica del Piemonte meridionale», «un edificio solido e multipiano. Grandi navate, come in una cattedrale», «una cattedrale di seta», ma per farlo ha bisogno di capitali e di entrature, che Casimiro, lungamente corteggiato, infine gli concede, attratto dall’idea di lasciarsi per un attimo trascinare anche lui dal «vento del secolo». Non si tratta solo di soldi, nota infatti Verra - «il punto è che non possiamo restare indietro. Non sentite l’energia che c’è nell’aria?».

L’Ottocento è «un secolo ridondante, enfatico; meravigliosamente ingenuo», ma è anche «il secolo che vede il mondo diventare contemporaneo», con un salto mortale durato lo spazio di una sola generazione – e per questo, accanto alle sue magnifiche promesse, esso squaderna anche le contraddizioni che caratterizzano ancora il nostro tempo, come ricchi che diventano sempre più ricchi mentre i poveri diventano sempre più poveri e invenzioni nate per liberare gli uomini che si trasformano in strumenti di rinnovata schiavitù. Significativamente, il romanzo si conclude nel 1848, e cioè appena all’inizio del percorso che avrebbe cercato di dare un’adeguata cornice istituzionale a tutte queste trasformazioni, per lo meno in Italia. Questo finale aperto mi pare un modo indiretto per alludere al fatto che ora il problema si pone in un certo senso di nuovo, benché su scala più ampia. Non vorrei forzare troppo le cose, ma mi sembra che il messaggio tendenzialmente ottimistico proposto da questo libro sia in fondo il seguente: niente paura, anche i sovranisti apparentemente più incalliti, nel momento stesso in cui usano i social network o progettano – per dire – improbabili coalizioni a livello europeo, stanno involontariamente contribuendo al superamento dell’ordine che vorrebbero difendere, perché ne stanno già accettando di fatto le regole, anche se dicono il contrario. Chissà se Londra detta ancora la linea del futuro e se un’italiana d’Inghilterra come la Cibrario, pur parlando del passato, ne abbia davvero fiutato qualche anticipazione.

(finito il 20 luglio 2020)

Ho parlato di


Benedetta Cibrario
Il rumore del mondo
(Mondadori, 2018)

756 pp. | 22 €

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