lunedì 10 agosto 2020

L'invenzione della natura

Qualcuno li ha contati. Prendono il nome da Alexander von Humboldt una corrente marina, svariati parchi e montagne in America Latina, alcuni fiumi in Brasile, Tasmania e Nevada, un geyser in Ecuador, una baia in Colombia, un capo e un ghiacciaio in Groenlandia, catene montuose in Cina, Sudafrica, Nuova Zelanda e Antartide, quattro contee e tredici città degli Stati Uniti, quasi trecento piante e oltre cento animali (tra cui il giglio di Humboldt, il pinguino di Humboldt e il calamaro di Humboldt), diversi minerali, senza contare, al di fuori della nostra atmosfera, un mare lunare e un asteroide – il che, tutto sommato, probabilmente ammonta a più di quanto possa vantare qualsiasi altro scienziato della storia. Sono i segni più evidenti della straordinaria popolarità raggiunta in vita da un uomo che fu definito, ai suoi tempi, come il «più famoso al mondo dopo Napoleone» e persino «il più grande di tutti gli uomini dal Diluvio Universale», ma della quale probabilmente in pochi, oggi, saprebbero spiegare il perché (noi filosofi men che meno: nei nostri manuali Alexander compare semplicemente come il fratello minore e un po’ eccentrico di Wilhelm). Per provare a capire le ragioni di questa fama abbiamo la fortuna di avere a disposizione due godibilissimi strumenti: un romanzo che non mi stancherò mai di consigliare e questo saggio che presenta però anch’esso un incedere parzialmente romanzesco (sin dal sottotitolo, ricalcato su classici modelli ottocenteschi), in quanto romanzesca è la vita del suo protagonista, animato da una perenne inquietudine venata di romantica malinconia e al tempo stesso da una «sfrenata energia» che lo porta ad architettare continuamente nuovi progetti, magari tre o quattro contemporaneamente, «spingendo ai limiti il proprio organismo», e che si manifesta persino nella rapidità travolgente con cui parla, “alla velocità di un cavallo da corsa” – come riferisce un amico (va da sé, non poteva che starmi simpatico). 

Humboldt costruisce una parte consistente del suo mito con l’avventuroso viaggio compiuto in Sud America tra il 1799 e il 1803 - quattro anni appena zeppi tuttavia di avvenimenti capaci di riempire un’esistenza intera, come spedizioni in canoa nel cuore dell’Amazzonia o tentativi di ascesa su alcune delle vette più alte del mondo, tra un terremoto e un’eruzione vulcanica - e più ancora con il racconto che saprà farne negli anni successivi, una volta stabilitosi nella Parigi napoleonica, non tanto per amore dell’imperatore, ma per mai sopite simpatie rivoluzionarie (era anche amico personale di Thomas Jefferson e Simon Bolivar, che ne furono ispirati), e soprattutto per poter stare a contatto con la più avanzata comunità scientifica del tempo, «mozzo di un filatoio che perennemente girava e creava connessioni» tra studiosi di ogni settore, nonostante lo scandalo suscitato da questa scelta nei suoi compatrioti, ancora shockati dal disastro di Jena (il problema, diceva, è che in una Germania ancora divisa in stati diversi «ognuno viveva a grande distanza dall’altro» e «lo scambio delle idee era soffocato»). Ma anche quando sarà costretto a rientrare a Berlino, con la Restaurazione, Humboldt continuerà a occupare il centro della scena, contribuendo in modo fondamentale allo sviluppo di una cultura scientifica nel suo paese, sia attraverso cicli di conferenze pubbliche che incanteranno le folle per la ricchezza di documentazione e per «il modo in cui metteva in collegamento discipline e fatti apparentemente disparati» (gli appunti delle lezioni, che l’autrice ha avuto modo di visionare, pare siano una meraviglia), sia con l’organizzazione di seminari più specialistici, strutturati non come teatrini autocelebrativi della casta baronale universitaria (come spesso risultano essere ancora oggi i convegni e le sedicenti giornate di studio), bensì come momenti in cui «gli scienziati invece di parlare a, parlassero fra di loro (…). Humboldt incoraggiava gli studiosi a riunirsi in piccoli gruppi e in maniera interdisciplinare. (…) Immaginava una fratellanza interdisciplinare fra gli scienziati, che avrebbero scambiato e condiviso la conoscenza. “Senza una diversità di opinioni, la scoperta della verità è impossibile”, ricordò loro nel discorso di apertura». Cercò invano di strappare alla Compagnia delle Indie un passaporto per raggiungere l’Himalaya, ma in compenso partecipò a una spedizione per conto dello zar, che lo portò fino a uno sperduto posto di blocco, al confine tra l’impero russo e quello cinese, da qualche parte nella remota Mongolia (e sulla via del ritorno festeggiò il suo sessantesimo compleanno brindando con il nonno di Lenin). Inoltre scrisse tanto, vendendo come il pane (un’edizione completa delle sue opere è presente anche nella biblioteca del capitano Nemo sul Nautilus). Curiosamente, è lui stesso a non possedere tutti i suoi libri, in quanto finiscono per costare troppo anche per le sue tasche, che si svuotano proprio perché non bada a spese nel realizzarli, con una cura meticolosa e un uso avanzatissimo delle illustrazioni e di quelle che oggi chiameremmo infografiche. L’idea più fantasmagorica che gli sia mai passata per la testa è forse quella di voler scrivere «un libro che mettesse insieme ogni cosa che sta in cielo e sulla terra, dalle lontane nebulose alla geografia dei muschi, dal paesaggismo alla migrazione delle razze umane e alla poesia» - e perbacco se ce la fa: lo intitola Cosmos e ne escono cinque volumi, l’ultimo dei quali consegnato all’editore nell’aprile del 1859, pochi giorni prima del collasso che lo porta alla morte, proprio negli stessi giorni in cui a Londra appariva la prima edizione de L’origine delle specie, che gli deve molto (Darwin aveva in valigia anche un libro di Humboldt quando salpò per il suo viaggio intorno al mondo). 

Per l’autrice di questa biografia sarebbe stato proprio tale straripante successo a decretarne, paradossalmente, l’oblio postumo (da cui l’idea, appunto, di presentarlo, un po’ pomposamente, come “l’eroe perduto della scienza”). «Diversamente da Cristoforo Colombo o Isaac Newton, Humboldt non scoprì un continente né nuove leggi della fisica. Non era famoso per un fatto o una scoperta specifica, ma per la sua visione del mondo. La sua concezione della natura è penetrata come per osmosi nelle nostre coscienze. É come se le sue idee avessero assunto una tale visibilità da rendere invisibile l’uomo che vi stava dietro». Per la verità, se questo è accaduto, non è stato un processo immediato: nonostante la gloria acquisita, già ai suoi tempi Humboldt appare per molti aspetti uno sconfitto. Sospeso tra l’epoca del flogisto quella del telegrafo, «fu uno degli ultimi intellettuali eclettici e morì in un’epoca in cui le discipline scientifiche si andavano consolidando in campi strettamente delimitati e più specialistici», al culmine della brusca accelerazione avviata dalla civiltà occidentale. Il suo approccio metodologico trasversale, che oggi ci appare così moderno, è in realtà una diretta conseguenza di una concezione della natura in cui risuona l’eco di Goethe e di Schelling, qualcosa che ai positivisti suoi contemporanei sarebbe apparso rivoltante metafisica: la natura, infatti, è per lui «una rete vitale e una forza globale, (…) una rete nella quale tutto era connesso, (…) un “tutto vivente”, in cui gli organismi erano uniti insieme in un “intricato tessuto reticolare”. (…) Un’unica vita era stata riversata su pietre, piante, animali e sul genere umano». Ma se il mondo naturale è «un unico insieme animato da forze interattive, (…) allora bisognava esaminare differenze e somiglianze senza mai perdere di vista l’insieme. In luogo di numeri astratti e matematica, lo strumento principe per conoscere la natura diventò per Humboldt il confronto». Fatti e immaginazione non devono dunque stare separati: Humboldt si presenta perciò come «il nesso connettivo tra l’Opticks di Newton (…) e poeti come John Keats», tra il piano cartesiano e il viandante sul mar di nebbia. Il suo intento è di vedere la natura «sia con la testa che con il cuore»: così, se per un verso raccoglie campioni di tutto ciò che vede e misura ossessivamente tutto quello che può misurare («una delle sue guide notò che le tasche del suo soprabito erano come quelle di un ragazzino – piene di piante, sassi e ritagli di carta. Niente era troppo piccolo o insignificante per non meritare di essere studiato, perché ogni cosa ha il suo posto nel grande arazzo della natura»), ciò che gli interessa non è tanto «scoprire nuovi eventi isolati, quanto (…) connetterli». “Connettivismo” sarà poi il nome che lo scrittore di fantascienza A. E. Van Vogt darà alla disciplina praticata dal protagonista del suo romanzo Crociera nell’infinito. Lui in realtà aveva Darwin come modello (il titolo inglese dell’opera è infatti Voyage of the Space Beagle), ma nel metodo di Darwin coglie esattamente ciò che lo unisce a Humboldt – e qui chiudiamo il cerchio – ossia «la rara capacità di concentrarsi sul più piccolo dettaglio – da una chiazza di lichene a un minuscolo coleottero – e poi di indietreggiare e distaccarsi per analizzare modelli globali e comparati». 

Questa visione d’insieme ha significative ricadute euristiche, ma non solo. Contemplando la giungla equatoriale, Humboldt ha modo di osservare «un mondo che pulsava di vita, (…) un mondo in cui “l’uomo non è niente”. (…) Quando le scimmie cominciavano a strillare, il clamore svegliava gli uccelli e così tutto il mondo animale. La vita si agitava in ogni cespuglio (…). Tutto quel trambusto (…) era il risultato di “qualche lotta nel profondo della foresta pluviale”. (…) L’assenza dell’uomo (…) consentiva agli animali di prosperare e moltiplicarsi, ma si trattava di uno sviluppo al quale “essi stessi ponevano limiti” – con la loro reciproca pressione. Era una rete vitale incessantemente percorsa da lotte sanguinose, un’idea ben diversa dalla concezione prevalente della natura come macchina ben oliata in cui ogni animale e ogni pianta hanno un posto assegnato da un’entità divina». Tuttavia, pur riconoscendo con un’intuizione predarwiniana che la natura selvaggia non è il paradiso terrestre, quando offre il proprio personale contributo alla vecchia questione del Nuovo Mondo, Humboldt afferma risolutamente che l’antropizzazione non è necessariamente un miglioramento. Al contrario, la visita alle piantagioni sudamericane gli permette di constatare in prima persona come l’abbattimento delle foreste e la canalizzazione delle acque abbia rapidamente diminuito la capacità di ritenzione idrica del terreno, rendendolo in poco tempo sempre più sterile e aumentando il carattere distruttivo delle inondazioni. La sua concezione organica di un mondo naturale in cui tutto si tiene lo porta facilmente a concludere che «se c’è un filo tirato, tutta la tela si può disfare»: l’ecologia, termine che verrà poi coniato per indicare il peculiare campo di ricerca praticato da Humboldt, è una diretta conseguenza di una concezione della natura come «un insieme unico fatto di interrelazioni complesse» (in questo senso, questo libro è anche un testo “militante”, che prova a tracciare una genealogia nobile al movimento ecologista). Se per secoli la cultura europea aveva impiegato l’immagine della bonifica dell’incolto come emblema dell’azione civilizzatrice dell’uomo, versione secolare dell’atto creativo di Dio, Humboldt è invece fra i primi ad affermare che la bellezza non coincide con l’utilità e che questo intervento, se diventa intensivo, può avere effetti anche catastrofici. La scienza, non meno della storia, deve essere “globale”, poiché quando perde questa visione diventa pura tecnica al servizio del potere, fatalmente autodistruttiva. Ma c’è un’altra lezione che Humboldt impara dallo studio delle piantagioni. Sfruttare il terreno come una miniera, non cioè in funzione dell’autoconsumo locale ma per alimentare i mercati europei, aveva come conseguenza quella di rendere poverissimi e incapaci di mantenersi paesi potenzialmente ricchissimi di risorse, imponendo un regime socio-economico di infame schiavismo (e su questo punto, non mancarono le discussioni con i suoi amici statunitensi). Anche qui, «Humboldt fu il primo a mettere in relazione colonialismo e devastazione dell’ambiente. I suoi pensieri tornavano sempre alla natura come rete vitale complessa, ma anche al posto dell’uomo al suo interno. (…) Discuteva di natura, questioni ecologiche, potere imperiale e politica mettendo tutto in relazione. Criticava l’iniqua distribuzione della terra, le monocolture, la violenza contro i gruppi tribali e le condizioni di lavoro degli indigeni». Analogamente, oggi, cambiamenti climatici, squilibri demografici e migrazioni di massa dovrebbero fare parte di un unico discorso. Ma sarebbe vano sperare di sentirlo in uno dei tanti talk-show spacciati per informazione, in cui si perpetuano le pantomime di quell’eccellenza nazionale che è la commedia dell’arte. Ci conviene invece cambiare canale e sintonizzarci (con Propaganda Live in ferie) sull’unica trasmissione veramente “politica” attualmente in programmazione: SuperQuark.

(finito il 21 ottobre 2019)


Ho parlato di


Andrea Wulf
L'invenzione della natura
Le avventure di Alexander von Humboldt, 
l'eroe perduto della scienza
(Luiss University Press, 2017)

trad. di L. Berti

518 pp. | 22 €

(ed. or.: The Invention of Nature. The Adventures of Alexander von Humboldt, the Lost Hero of Science, 2015)


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