giovedì 9 aprile 2020

Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso

Un credente della domenica live come Salvini probabilmente ignora che questi giorni della Settimana Santa hanno relativamente poco a che fare con la Vergine Maria, ma celebrano in modo solenne quello che è il cuore stesso dell’annuncio cristiano, ossia il mistero della salvezza che si compie attraverso la passione, morte e resurrezione di Gesù (mistero che, sia detto per inciso, si svolge quasi interamente ai margini della città, fuori delle mura, su terra sconsacrata, a contatto coi ladroni, in sepolcri silenziosi, mentre il velo del Tempio si squarcia e i capi politico-religiosi, quelli che dicono “Signore, signore” e parlano “per il bene del popolo”, dimostrano di non capire nulla di ciò che sta accadendo e anzi collaborano attivamente all’esecuzione dei piani del “principe di questo mondo”). Qui ci si gioca tutto: a seconda che ci si fidi o meno di un Dio che promette di scardinare anche i chiavistelli della morte, liberandoci dallo spavento supremo, la nostra vita dovrebbe cambiare drasticamente orientamento e tonalità. Naturale che questo possa diventare un criterio di identificazione, e perciò anche di demarcazione, decisivo, al punto da poterci indurre a pensare che chi resta al di là della linea sia spacciato, perso per sempre – e quanto più è radicata la nostra fede, tanto più potrebbe aumentare la compassione e il sincero sgomento per tutti coloro che, non essendo dei nostri e non avendo potuto o voluto salire sull’arca, sono rimasti travolti dal diluvio della storia. Nasce di qui la dedizione, alle volte anche eroica, con cui si è andati in cerca delle pecorelle smarrite per ricondurle nel recinto sicuro dell’ovile, nonché quella, un po’ meno eroica, con cui le si è spinte a entrarvi, se recalcitranti. Ed in effetti, per riprendere un’espressione di Ivan Karamazov, da quando sono usciti dalle catacombe, i cristiani si sono poco per volta convinti che la loro missione fosse quella di “convertire in Chiesa il mondo intero”, con il rischio però di trasformare la salvezza in una questione di casacche e non di cuore, come enunciato dal motto secondo cui “fuori della Chiesa non c’è salvezza” (capziosamente e silenziosamente permutato, però, nel non equivalente “basta essere nella Chiesa per essere salvi”). 

Ecco, ma non è un po’ paradossale che il riferimento a Gesù – a quel Gesù che non parla di abolizione della Legge di Mosé e che loda la fede di pagani come il centurione e la cananea – finisca per diventare, anche se in buona fede, principio di una nuova dinamica di esclusione? Non potrebbe essere, invece, che la sua stessa natura eccezionale di “uomo-Dio” contenga un invito a ripensare radicalmente il nostro comune concetto di appartenenza - e questo non per puro cedimento alla logica moderna della tolleranza e del cosmopolitismo, ma appunto come sviluppo di un seme che è presente alla fonte stessa della nostra fede e che non abbiamo saputo finora riconoscere chiaramente perché inviluppati ancora, in un certo senso, in categorie identitarie umane, troppo umane? Sono più o meno queste le domande che si pose, ormai più di vent’anni fa, il gesuita belga (ma ordinato in India, dove visse a lungo) Jacques Dupuis in questo vasto saggio, che opportunamente non chiamò “Trattato di teologia delle religioni”, ma per il quale scelse un titolo più umile e significativo, ad indicare come la strada, benchè individuata, fosse – e resti - in gran parte da compiere, un po’ come quando i cartelli stradali agli incroci cominciano a riportare una nuova destinazione, segno che ti ci stai avvicinando, sì, ma che sei ancora distante e non del tutto al sicuro dal rischio di sbagliare direzione. 

A scanso di equivoci, ciò che si propone qui non è delineare i tratti di «un’impresa teologica comune che appiani le differenze alla ricerca di un denominatore comune», una sorta di “super-teologia” sincretistica simile a una pappa informe buona per tutti i palati, e neanche si intendono offrire basi dottrinali per sostenere la tesi della salvezza dei giusti non battezzati (semplicemente perché quest’ultimo punto è già stato esplicitamente riconosciuto a livello magisteriale - e da Pio XII, non da Jovanotti). Il tema su cui Dupuis ragiona è, invece, se sia possibile rintracciare un fondamento teologico, e specificamente cristiano, che giustifichi la «pluralità e [la] diversità delle credenze e la reciproca accettazione degli altri proprio nella loro alterità», ovvero se il pluralismo religioso sia solo un incidente di percorso o, tutt’al più, un reticolo di ruscelletti destinato comunque a confluire nell’alveo cristiano – secondo il principio per cui le altre religioni costituirebbero semplicemente, nella migliore delle ipotesi, solo una “preparazione evangelica” -, oppure se esso sia parte costitutiva e irrinunciabile del modo di rivelarsi di Dio all’umanità e dunque un fenomeno che impegna i cristiani a guardare alle altre religioni non con lo sguardo paternalistico di chi ha solo da insegnare, ma con l’atteggiamento di chi ha anche da apprendere, nell’ottica di un «reciproco arricchimento mediante la conversazione» - perché in fondo il nome dell’Altissimo è più grande di ogni parola umana e nessuna di esse può pensare di «esaurirne la realtà», mentre solo attraverso il loro reciproco interpellarsi si riproduce quello stesso dialogo intratrinitario che fa di Dio un principio di relazione e non, appunto, di esclusione (d’altronde, il Dio uno e trino che si comunica in modo traboccante non può che prolungare la propria vita divina in modo plurale). 

Ma che ne è allora del Verbo incarnato? Che ne è di Cristo Salvatore del mondo e Re dell’Universo? Non rischiamo, così facendo, di spegnere la lampada che dovrebbe illuminare i nostri passi? In realtà – ci suggerisce Dupuis - se si prende, appunto, sul serio la natura trinitaria di Dio qual è rivelata dal Figlio, così come apparirebbe fuorviante accontentarsi di un “teocentrismo” che appiattisca la diversità delle fedi nella comune inadeguatezza al cospetto di un generico “Onnipotente” di cui nessuno ha mai visto il volto - perché Dio in realtà si mostra come Padre -, allo stesso modo sarebbe errato fissarsi su un “cristocentrismo” incapace di cogliere l’alterità che Gesù mantiene sempre aperta tra sé e quel Padre, da un lato, ma anche tra il suo personale transito storico e il Regno che annuncia, dall’altro. «La coscienza umana di Gesù, pur essendo quella del Figlio, è comunque una coscienza umana, e dunque una coscienza limitata. Non sarebbe potuto essere altrimenti. Nessuna coscienza umana, neppure la coscienza umana del Figlio di Dio, può esaurire il mistero divino». “Incarnazione” vuol dire allora che Dio incontra l’uomo all’interno di una determinata esperienza culturale e religiosa - perché non può andare diversamente, perché l’uomo non è mai “uomo” in generale, ma sempre radicato in un tempo, in una cultura, in una simbolica - e attraverso il linguaggio di quella determinata simbolica culturale e religiosa esprime, nel modo più compiuto che una manifestazione limitata rende possibile, quel processo di salvezza che è però già sempre all’opera nella storia dell’umanità, grazie all’azione dello Spirito, anche in altre culture e in altre religioni (i miracoli di Gesù in terra fenicia non mostrano forse che il Regno è già presente anche lì? Lo sguardo di Cristo non ci invita a immaginare una teologia “di seconda intenzione”, che riconosce e custodisce più che istituire?). 

In questo senso, si può perciò affermare che, «se l’evento-Cristo è il sacramento universale della volontà di Dio di salvare il genere umano, non è necessario per questo che ne sia anche l’unica espressione possibile». Un padre ama tutti i suoi figli allo stesso modo, ma proprio perché li ama tutti allo stesso modo, e sa che ciascuno ha la propria personalità, non fa mai a uno di loro lo stesso regalo che fa all’altro. Anche qui, se si prende sul serio che è Dio a cercare l’uomo e non tanto il contrario – cioè il principio che sta alla base dell’idea stessa di “rivelazione” – allora bisogna pensare che Dio, “svuotando se stesso”, accetti le modalità espressive proprie della contingenza, benché nessuna di esse sia in grado di catturarlo pienamente, perché sono le uniche accessibili all’uomo a cui si rivolge e che solo se esse vengono messe in relazione fra loro possono aiutarci a capire qualcosa di Lui: «la possibilità del pluralismo dottrinale, non soltanto teologico ma anche dogmatico, deve essere riconosciuta; e l’ammissione del carattere (inevitabilmente) relativo della nostra conoscenza di Dio non deve essere interpretata come un “relativismo dottrinale”», ma solo come riconoscimento che una verità cristiana non può che essere “in relazione” con ciò che di vero c’è nelle altre religioni, secondo una reciproca complementarità. Per quanto suoni strano alle nostre orecchie eurocristianocentriche, «nell’intera storia dei rapporti di Dio con l’umanità, si trovano più verità e grazia di quante non siano disponibili semplicemente nella tradizione cristiana», e ciò significa che «un contatto prolungato con le scritture non bibliche può aiutare i cristiani – se praticato all’interno della loro fede – a scoprire in maggior profondità taluni aspetti del mistero divino che essi contemplano svelati loro in Gesù Cristo». 

In questa prospettiva, il dialogo interreligioso non è più dunque visto solo come una forma di buona educazione tra vicini di casa, un “buongiorno, buonasera” tra chi inevitabilmente si incrocia sui pianerottoli del mondo, ma «tende piuttosto ad una più profonda conversione di ciascuno a Dio. Lo stesso Dio parla nel cuore di entrambi gli interlocutori; lo stesso Spirito agisce in tutti. É questo stesso Dio che chiama e sfida gli interlocutori l’uno attraverso l’altro, per mezzo della loro testimonianza reciproca. Essi divengono pertanto – se così si può dire – l’uno per l’altro e reciprocamente un segno che conduce a Dio. Il fine proprio del dialogo interreligioso è, in ultima analisi, la comune conversione dei cristiani e dei membri delle altre tradizioni religiose allo stesso Dio – il Dio di Gesù Cristo – che li chiama gli uni insieme agli altri sfidando gli uni per mezzo degli altri. Questa chiamata reciproca, segno della chiamata di Dio, è sicuramente evangelizzazione reciproca. Essa costruisce fra i membri delle varie tradizioni religiose la comunione universale che segna l’avvento del Regno di Dio». Concretamente, questo significa per la chiesa convertirsi dalla tentazione di annunciare se stessa (il che vuol dire: le proprie categorie concettuali, i propri simboli, le proprie eredità culturali) per rispondere a quello che è il suo vero mandato: «la chiesa deve esibire a tutti la presenza, all’interno del mondo, del Regno che Dio ha inaugurato in Gesù Cristo; essa deve essere al servizio della sua crescita ed annunciarlo. Ciò presuppone che essa sia interamente “decentrata” da se stessa, per essere totalmente centrata su Gesù Cristo e sul Regno di Dio. Ma la chiesa non ha alcun monopolio del Regno di Dio». Di quel Regno essa è pegno, figura, testimone – quel che volete -, ma non è, essa stessa, il Regno (affermarlo sarebbe idolatrico). 

Pur prendendo le mosse da una questione apparentemente settoriale, dunque, il sentiero tracciato da Dupuis ti conduce, passo dopo passo, ad un punto panoramico sui cui si apre un orizzonte di quelli che tolgono letteralmente il fiato. E se è vero che questo approccio ci viene proposto come un «nuovo metodo per fare teologia in una situazione di pluralismo religioso», esso però non viene estratto magicamente dal cilindo con un gioco di prestigio intellettuale. Applicando il pluralismo anche in senso diacronico, Dupuis infatti interroga incessantemente la tradizione, dalla Scrittura fino alla teologia postconciliare, mostrandocene non già il volto arcigno di guardiana dell’ortodossia con cui spesso è raffigurata, ma presentandocela per quello che davvero è: un affascinante impegno comune finalizzato ad una chiarificazione del mistero divino che, se non è, né può essere, “progressiva” – nel senso di una mera sostituzione del “vecchio” col “nuovo” – è però costitutivamente corale, e solo surretiziamente può essere ipostatizzata come feticcio immodificabile e perennemente uguale a se stesso. Anche qui lo Spirito soffia spesso dove meno te l’aspetti e semina tracce che sembrano tanto più profetiche quanto meno appaiono frutto di un’elaborazione compiuta e circostanziata, come accade a certe intuizioni contenute nell’enciclica Redemptoris missio di un papa non certo sovversivo come Giovanni Paolo II. Esse avviavano, sia pur molto timidamente, l’ermeneutica dell’incontro interreligioso di Assisi del 1986 che Wojtyla, uomo di gesti più che di parole, volle celebrare prima di fornirne un puntuale inquadramento dottrinale (e per questo “per poco non mi scomunicarono”, avrebbe detto successivamente). Quando Dupuis provò, appunto, a fornire un simile inquadramento, il Sant’Uffizio presieduto da Ratzinger arricciò il naso e inoltrò un’ammonizione ufficiale in cui si elencavano tutti gli errori presenti nel testo. Pazienza, era toccato anche a Tommaso d’Aquino. Ma lo Spirito continua a soffiare. Il 4 febbraio 2019, ad Abu Dhabi, papa Francesco e il grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb hanno sottoscritto un documento sulla fratellanza universale in cui si legge, tra l’altro, che «il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi». Dupuis, che nel frattempo è già entrato nel Regno, avrebbe approvato.

(finito il 26 agosto 2019)

Ho parlato di


Jacques Dupuis
Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso
(Queriniana, 1997)

trad. di G. Volpe

592 pp. | 40 €

(ed. or.: Towards a Christian Theology of Religous Pluralism, 1997)


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