venerdì 13 dicembre 2019

Fiesta

Si ha l’impressione, a volte, che tutti quelli che contavano in un certo momento della storia si siano segretamente dati appuntamento nello stesso luogo, suscitando la malinconia struggente di chi si accontenterebbe di essere l’ultimo degli stronzi incluso nella lista, pur di poter partecipare anche lui al party. Per dire, negli anni Venti, a un certo punto tutti sono passati da Parigi – e tutti desideravano passarci, anche solo per un saluto. Come si poteva seriamente pensare di aver vissuto finché si era rimasti altrove? Quel desiderio tracima l’argine della finzione e contagia anche personaggi letterari, come quel Franz Tunda che, al termine – se così si può dire – della tormentata Fuga senza fine allestita per lui da Joseph Roth, approda, appunto, nella capitale francese, solo per scoprire che, sotto lo sberluccichio delle coppe di champagne, continua a sedimentarsi la feccia dello spleen. «Era il 27 agosto 1926, alle quattro del pomeriggio, i negozi erano affollati, nei magazzini le donne facevano ressa, nelle case di moda le mannequins giravano su se stesse, nelle pasticcerie chiacchieravano gli sfaccendati, nelle fabbriche sibilavano gli ingranaggi, lungo le rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, nel Bois de Boulogne le coppie d’innamorati si baciavano, nei giardini i bambini andavano in giostra. A quell’ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo». 

Gli stessi sentimenti del fittizio Tunda li prova, bene o male, il suo coetaneo in carne ed ossa Ernest Hemingway, che ad uno dei personaggi della sua personale commedia umana sulla lost generation fa dire che sì, qui a Parigi sarai anche al centro di tutto, eppure «non hai mai la sensazione che la tua vita stia passando senza che tu ne approfitti? Ti rendi conto che hai già vissuto quasi metà degli anni che hai da vivere?». «Mi sentivo stanco e depresso», gli fa eco un altro. E un altro ancora (o forse lo stesso, è uguale): «non m’importava cosa fosse il mondo. Volevo soltanto sapere come viverci. Forse, se scoprivi come viverci, imparavi anche che cos’era». Adesso non è per fare il solito trombone, ma è strano imbattersi in queste frasi, analoghe a quelle che si possono ritrovare in un qualunque scalcagnato romanzo generazionale, e immaginare che siano state pronunciate, tra una partita di tennis e un ballo al café chantant, proprio negli stessi mesi in cui si consumavano i destini, per dirne due, di Matteotti e Gobetti, che avevano motivi più seri per lamentarsi e reagirono con ben altra tempra al comune spaesamento post-bellico. La vera protagonista del libro, lady Brett Ashley, capelli a maschietto come Louise Brooks e più tardi la Valentina di Crepax, centro di gravità intorno a cui ruotano come manzi tutti i maschi messi in scena, di sé dice, quando s’innamora per l’ennesima volta di un altro, «sono un caso disperato (…). Io non so fermare le cose», ed è al tempo stesso un’icona di emancipazione e di inconcludenza (non mi stupisce che, dopo l’uscita del libro, i lettori più giovani abbiano cominciato a imitare, nei modi e nel gergo, questi personaggi). Però è proprio la frivolezza degli interpreti, spesso ubriachi e molesti, quando non addormentati a causa dell’alcol, a rendere quest’opera, oltre che un importante documento storico sui mutamenti di costume di quegli anni, anche un testo particolarmente adatto per un’epoca di selfie e shottini quale la nostra (Fiesta!, rigorosamente col punto esclamativo, potrebbe essere benissimo il titolo di un programma televisivo in diretta da Ibiza). 

Ad ogni modo, che fa il nostro Hemingway per fronteggiare la sua pena di vivere? Dopo averti fatto giusto annusare la travolgente fête parigina - con gesto costruito e sprezzante, proprio di chi può permettersi di snobbare quello che tutti bramano, e l’aria di chi ti dice strizzando l’occhio “d’accordo Montmartre, ma adesso ti faccio vedere sul serio una cosa che non hai mai visto” - ti carica in treno insieme alla sua compagnia di giro e ti porta in gita in un posto forse meno cosmopolita, ma in cui ci si può davvero immergere in una fiesta come si deve. Bienvenidos a Pamplona, dunque. Le piazze assolate, i campi di pelota, l’incenso e i silenzi delle chiese: a tratti sembra di leggere una riuscita Lonely planet, però concordo, quest’angolo basco-navarrino di Spagna è realmente un gioiello che merita la visita e che potrebbe riappacificarti con te stesso. Qui ti riempiono di cibo e, manco a dirlo, «devi bere molto vino per mandare giù tutto quanto». E quando arriva San Firmino comincia un vero e proprio delirio organizzato. La fiesta «sarebbe durata, giorno e notte, per una settimana. Sarebbero continuate le danze, sarebbe continuato il bere, non sarebbe cessato il rumore. Le cose che accaddero potevano accadere solo durante una fiesta. Alla fine tutto divenne irreale e sembrava che niente potesse avere conseguenze», come in «un incubo meraviglioso». O come durante una sbornia presa per superare una depressione. Esattamente come accadeva a Parigi. «Tutto questo è molto divertente, ma non è tanto piacevole», ecco (e dopo un po' annoia anche leggermente il leggerne, se posso permettermi la lesa maestà). 

Gli unici che si salvano, forse, sono i toreri, perché «non c’è nessuno che viva la propria vita sino in fondo», come fanno loro, danzando letteralmente con la morte. Pedro Romero, che pure è un ragazzino, con i suoi diciannove anni, «aveva la grandezza» e nelle pagine dedicate alla sua esibizione Hemingway raggiunge picchi altissimi di giornalismo sportivo. «Intanto nell’arena, Romero, totalmente solo, procedeva nella stessa maniera, avvicinandosi sin dove il toro poteva vederlo bene, offrendogli il proprio corpo, offrendoglielo ancora un po’ più da vicino, col toro che lo guardava ottuso, e accostandosi poi tanto da far credere al toro d’aver partita vinta e offrendosi ancora e infine inducendolo a caricare, e a quel punto, un attimo prima che arrivassero le corna, mostrava al toro il panno rosso da seguire con quel piccolo scarto, quasi impercettibile, che aveva tanto offeso il giudizio critico degli esperiti in corride di Biarritz». Inevitabilmente, Brett si innamora anche di lui, ma altrettanto inevitabilmente la cosa non dura – e questa volta non solo per un capriccio di lei: Romero l’avrebbe anche sposata, ma l’avrebbe desiderata più femminile («voleva che mi facessi crescere i capelli. Io coi capelli lunghi. Sarei orribile»). Perché alla fine, in fondo, Romero è pur sempre un giovane spagnolo degli anni Venti, che Parigi probabilmente non sa neanche dove sia, e l’America men che meno: «farebbe una brutta impressione un torero che parla inglese. (…) I toreri non sono così». E in due battute, davvero hemingwayane, è come prefigurata tutta la disputa tra sovranisti e internazionalisti in cui ci arrabattiamo ancora oggi. 

Ps: ho detto “giornalismo sportivo” riguardo alla corrida. Passatemelo. Hemingway parla anche di tennis, di boxe, persino di pesca - lo padroneggia bene quello stile. Ma ahimé non capisce nulla di ciclismo. Quando il protagonista si ritrova a San Sebastian in contemporanea con l’arrivo di una tappa del Giro dei Paesi Baschi, tratta corridori e suiveurs come dei prezzolati giocherelloni. Lascia parlare per più di una pagina un direttore sportivo che decanta il Tour de France come «il più grande avvenimento sportivo del mondo», gli dà corda e appuntamento al mattino dopo, per vedere la partenza della corsa, sicuro come il sole che vengo, ma poi se la dorme fino a tardi. L’altro insisteva nel dire che, grazie al ciclismo e al calcio, la Francia stava diventando un paese sempre «più sportif», e si ha l’impressione che a Hemingway questa concezione – diciamo così - commerciale dello sport non andasse a genio. Si può anche concordare, ma se c’è uno sport che conserva l’epica della tauromachia, senza il sangue versato, quello è il ciclismo. E tra Bottecchia e Pedro Romero tutta la vita Bottecchia.

(finito il 24 giugno 2019)

Ho parlato di


Ernest Hemingway
Fiesta
in Romanzi. Vol. 1
(Mondadori, 1992) 
pp. 3-253

trad. di E. Capriolo

(ed. or.: The Sun Also Rise, 1926)

Nessun commento:

Posta un commento