venerdì 12 luglio 2019

26 gennaio 1994

Man mano che si accumulano gli anni aumentano le probabilità di ritrovarsi invischiato in un indistricabile paradosso che potrei definire di contrazione temporale. Mettiamola così: quand’ero ragazzino, negli anni ‘90, tutto ciò che risaliva anche solo a dieci-vent’anni prima mi appariva irrimediabilmente vecchio, come se provenisse dal paleolitico. Tutto: gli oggetti, la musica, il taglio di capelli, i colori delle foto. Se torno invece ora con la mente a venti-venticinque anni fa, per quanto sia perfettamente consapevole che non esistessero ancora internet, gli smartphone, l’euro, mi sembra appena l’altro ieri. Credo che a turno capiti a tutti, ragion per cui su questa percezione soggettiva non si può costruire nessuna seria proposta storiografica – anche se resta il dubbio che esistano periodi di continuità più persistenti di altri, e che per esempio fra il 1974 e il 1999 sia passato in realtà più tempo effettivo che tra il 1994 e il 2019 (vorrà pur dir qualcosa se Vespa raccoglie ininterrottamente plastici porta a porta dal ‘96). 

Questo libro, in parte, suffraga tale tesi. Primo volume di una nuova e interessante collana Laterza dedicata ai “giorni che hanno fatto l’Italia”, il testo di Gibelli ruota intorno allo spartiacque che segna il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, significativamente individuato non tanto nel giorno delle elezioni politiche (che si tennero il 27-28 marzo ‘94), bensì in quello in cui venne distribuita ai telegiornali la videocassetta col celebre messaggio di “discesa in campo” di Berlusconi che diede il via alla campagna elettorale. Di questo evento, perciò, si ricostruisce in dettaglio la cornice e se ne restituisce l’effetto epifanico, con cura quasi cronachistica e ampio spazio alle fonti d’epoca (il lettore troverà gustose, col senno di poi, molte di quelle opinioni raccolte in tempo reale). L’idea soggiacente è che, con quel colpo di teatro, imponendo a tutti di seguire nuove regole, le “sue” regole, Berlusconi avesse già vinto prima ancora della ratifica elettorale. Da allora in poi, infatti, si è continuato e si continua a giocare quello stesso gioco, con i dovuti upgrade tecnologici, senza che se ne siano mai discussi seriamente i presupposti – compresi quelli che, per Gibelli, inquinavano fin dall’inizio la proposta berlusconiana, rivelando la totale pretestuosità del suo sbandierato carattere liberale: uno su tutti, l’oligopolio televisivo (che avrebbe fatto rabbrividire Tocqueville). Riuscendo abilmente a presentare un illecito come una questione di libertà, e facendo così di una sua questione personale a difesa dei propri interessi privati una battaglia di rilievo pubblico contro il “vecchio” mondo ingessato ben rappresentato dalla tv di Stato, Berlusconi sdoganò in fondo il principio secondo cui il diritto può essere deciso a colpi di televoto (da cui origina il recente adagio “allora si candidi” rivolto ai magistrati che applicano una legge contro le aspettative del manovratore di turno). Per questo, «l’epoca aperta nel 1994 non si è ancora conclusa. Anzi quella pagina ha inaugurato una linea di tendenza divenuta mondiale, culminando nel successo di Donald Trump negli Stati Uniti. (…) Per quanto superato, al punto da aver perso la sua primitiva consistenza fisica attraverso un autentico processo di mummificazione preventiva, il Cavaliere di Arcore appare tuttavia più come un capostipite che come una meteora. Più come un precursore che come un episodio eccezionale». 

L’intuizione fondamentale di Berlusconi è stata quella di sfruttare la grammatica della pubblicità per proporre, prima ancora che un programma vero e proprio, una storia, la propria, che era però anche una visione del mondo e una promessa di felicità possibile per tutti, «la stessa che si può provare quando si entra in un supermercato o megastore: è la felicità derivante dalla certezza di trovare tutto quanto possa soddisfare i nostri bisogni di comodità, di bellezza e di status, che sono tutti i nostri bisogni». In questo modo la politica si fece marketing e impose che fosse abbattuta ogni distanza tra venditore e acquirente, per coinvolgere quest’ultimo in una narrazione che gli desse l’impressione di riguardarlo davvero. Si abbandonò «il paradigma della superiorità della politica sulla gente comune per quello del rispecchiamento», suscitando così «l’illusione di essere direttamente attori stando a casa propria, quando non si è che spettatori». É a te e di te che parlo – dice B.: elettore sbandato e distratto, che hai dato fiducia per decenni a questi logori partiti arricchitisi alle tue spalle mentre tu tiravi a campare, arrangiandoti, mortificato dal fisco e messo ai margini da una retorica civile ferma ai tempi del fascismo e dell’antifascismo e secondo cui il tuo umano desiderio di far soldi è nientemeno che immorale, tu che ti sei sempre fatto i fatti tuoi e ti sei rimboccato le maniche per te e la tua famiglia, mentre quegli altri parlavano e parlavano considerandoti un cittadino di serie b – proprio tu sei come me, e la guerra che stanno minacciando di fare a me, perché con la mia intraprendenza ce l’ho fatta, aggirando lacci e lacciuoli, è una guerra che riguarda anche te. Ecco qua un saggio di quella che è «l’arte dell’autentico politico populista»: «tentare di prendere il potere col consenso e sulla spinta di coloro che ne diffidano e se ne sentono estranei e vittime». Nella fattispecie, offrendo loro «una nuova promessa di rigenerazione» che blandisce «i gusti dell’uomo comune: avere belle automobili, vedere le donne nude in televisione, pagare meno tasse, fare i propri comodi senza troppi scrupoli». 

Il precipitato operativo di queste premesse era e continua ad essere l’abbattimento delle tasse, nel quadro di una concezione quasi religiosa del neoliberismo come promessa di analoghe opportunità per tutti («nessuna regola al mercato, nessun limite al desiderio»: più soldi in tasca per spenderli nei miei negozi), in cui, contrariamente a quanto impone l’articolo 3 della nostra Costituzione, e con una spiccata venatura paternalistica (perché Berlusconi, comunque, non è la Thatcher e ha una zia suora), «la solidarietà non è il principio di un’azione collettiva per ridurre le disuguaglianze, ma è il rimedio finale agli esiti della competizione senza quartiere». La sinistra, ahimé, abboccò all’amo e finì per trasformarsi, di volta in volta, nel partito delle tasse, dei moralisti, dei professoroni, dei buonisti, del rigore, della noia, della serietà, della conservazione, dell’assistenzialismo, dello statalismo, incapace per lo più di raccogliere la sfida dell’immaginario senza scimmiottare l’originale. 

«La forza del berlusconismo sta tutta qui, nel presentarsi come fattore di rigenerazione, come il nuovo rispetto al vecchio, come il garante di una liberazione agognata da antichi vincoli e mali sui quali, a partire dalla crisi del 1992, si è catalizzata l’insofferenza di ampi strati di opinione pubblica». Dove il capolavoro è stato appunto quello di riuscire a farsi passare per uomo nuovo, quand’era totalmente compromesso e colluso con quella Prima Repubblica che contribuì a seppellire. Berlusconi «viene anch’egli da quel vecchio mondo dei cui favori ha largamente beneficiato», non diversamente da molti altri «sedicenti liberisti che si affannano a chiedere allo Stato soldi e protezione». É una lezione di cui hanno fatto tesoro i presunti profeti del cambiamento che, da comunisti padani, inneggiavano alla secessione invocando il dio Po e che, per inciso, nel 1994 erano già consiglieri comunali di Milano.

(finito il 3 marzo 2019)

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Antonio Gibelli
26 gennaio 1994
(Laterza, 2018)

263 pp. | 18 €

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