mercoledì 1 maggio 2019

Processo a Socrate

Anche noi filosofi abbiamo il nostro evento pasquale, il punto in cui è davvero cominciato tutto – e che, proprio come la Pasqua, non coincide con l'inizio cronologico della storia, ovvero con una delle tante intuizioni, vere o presunte, di Talete. Anche qui c'è di mezzo un processo, di quelli in cui la folla pare giocare un ruolo non proprio irrilevante, e una condanna a morte, sebbene per assunzione di cicuta e non per crocifissione. In entrambi i casi, pare che a morire sia stata la vittima innocente di un qualche complotto politico-religioso. Nell’offrire la sua ricostruzione degli ultimi giorni di Socrate – impresa ardimentosa perché si rischia facilmente l’ovvio, come con tutto ciò che è stato già detto e ridetto mille altre volte – Mauro Bonazzi prova invece a prendere sul serio l’accusa che gli fu mossa, riconoscendo che quello intentatogli fu un processo regolare e non «un processo politico camuffato», né tanto meno una tappa già scritta della storia dello spirito. 

Come molti amici sanno, ho da sempre un rapporto di viscerale ammirazione per Socrate, sin da quando, ragazzino, ho letto l’Apologia e il Gorgia, con quella riflessione sui pasticcieri e le loro torte che inevitabilmente vincerebbero una gara contro i medici e le loro medicine, se a giudicare fosse una giuria di bambini – e che assumeva un significato del tutto particolare mentre l’Italia si ricopriva di manifesti 6 metri per 6 con scritto sopra “meno tasse per tutti”. Quello che amo di Socrate, Bonazzi lo sintetizza in poche battute: la sua ricerca procede «per ipotesi, nella consapevolezza che ogni conclusione raggiunta, per quanto promettente, conserva una validità solo provvisoria (nel senso che può sempre essere rimessa in discussione da un nuovo ragionamento)» ed è una ricerca «sempre capace di sorprendere», in quanto con il dialogo incita, ogni volta e di nuovo, a rimettere in movimento il discorso, perché – aggiungo io, ed è ciò a cui serve per me la filosofia - l’importante non è convincere gli altri della propria opinione (che dunque sfugge, non si sa mai bene quale sia), ma mantenere costantemente aperta un’alternativa, intonare un controcanto, insinuare un dubbio, cosicché nessuno (individuo, popolo o civiltà) resti prigioniero di un proprio ricorsivo e perciò pericoloso monologo. 

Orbene, un personaggio così, dice Bonazzi riprendendo l’interpretazione di Leo Strauss, è «un pensatore libero e indipendente quant’altri mai, sempre pronto a mettere non importa quale tesi in discussione, e non particolarmente interessato a offrire contenuti positivi in sostituzione delle idee sbagliate che ha confutato». Il che, a noi post-romantici, può apparire molto suggestivo, ma impone una domanda, e cioè: «davvero la città ha bisogno di un maestro come Socrate, capace di mettere tutti in discussione, ma privo di idee capaci di riempire il vuoto che ha creato?». Insomma, agli occhi della comunità, Socrate è a buon diritto un eversore perché insegna a sviluppare «una capacità di riflettere criticamente sul sistema di valori (spesso corrotto) su cui si fonda la città», indebolendo però quel senso di appartenenza comune che permette a un popolo di riconoscere dei punti minimi di intesa e di non sfaldarsi. Così oggi quelli che si vantano di “non credere a quello che ti raccontano” e ti esortano ad “aprire gli occhi”, a “documentarti non sui libri ma in rete”, sono appunto quelli che diventano terrapiattisti o che pensano che le camere a gas nei lager non siano mai esistite e che gli effetti del cambiamento climatico siano una montatura giornalistica. Naturalmente non sarebbe stato questo l’esito auspicato da Socrate. Ma, usando il suo metodo contro di lui, potremmo concludere che, a forza di invitare le persone a pensare con la loro testa, poi qualcuno lo fa davvero e non è detto che sia un bene, visto come pensa certa gente. Di qui l’invito a darsi una calmata, per il bene comune. Ma possiamo accettare tutto questo? 

Il processo fu indubbiamente una forzatura nei confronti di Socrate, a cui Socrate rispose però – inaspettatamente – con altrettante forzature. Di fronte all'accusa, quest’uomo che per tutta la vita aveva cercato di far ragionare chiunque gli capitasse a tiro, ascoltando con pazienza e con altrettanta pazienza intrappolandolo in una rete di contraddizioni, non si mostrò più per niente accomodante, cercando quasi lo scontro e portando il livello della sfida su un piano che - non poteva non rendersene conto - era troppo fuori dagli schemi per essere accolto dai suoi concittadini. Bonazzi parla a questo proposito di un «doppio fallimento»: quello di «una città che non ha saputo ascoltare» e quello di «un filosofo che forse non ha trovato le parole giuste per farsi ascoltare». La scelta di Socrate lo ha consegnato alla storia e ci ha lasciato il dubbio che filosofia e democrazia siano perciò incompatibili. Ma deve andare per forza così? É questa la domanda che, al di là della componente prettamente storica, anima queste pagine. Se la città è infantile, possiamo permetterci la bella morte per evitare con spocchia la fatica della negoziazione? Socrate, dopo una vita spesa a fare proprio questo, sembra aver voluto tagliare corto e suggerire che finché non ti ammazzano non sei veramente un provocatore, ma una macchietta, un personaggio del teatrino, come lui stesso era diventato per mano di Aristofane. Ma forse è proprio questo il rischio da correre per evitare vittorie che siano solo postume.

(finito il 15 novembre 2018)

Ho parlato di


Mauro Bonazzi
Processo a Socrate
(Laterza, 2018)

176 pp. | 18 €

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