venerdì 9 febbraio 2018

Un breve viaggio e altre storie

Fu Umberto Eco a definire Paolo Rossi, in occasione della sua morte, «“il” grande studioso della memoria». Con buone ragioni, perché “questo” Paolo Rossi sarà ancora letto per i suoi pionieristici studi sulla mnemotecnica quando si offuscherà il ricordo del Pablito di Spagna ‘82 e di lui si occuperanno solo più quei calciofili eruditi che oggi ti saprebbero spiegare chi era, per dire, Angelo Schiavio. Ma anche perché di memoria Rossi è tornato a occuparsi, a più riprese e da altre angolature, ancora in età avanzata (se ne andò quasi novantenne, nel 2012), in una serie di appassionati contributi che, parzialmente raccolti in questo volume, si configurano quasi come una sorta di suo testamento intellettuale.

La lucida consapevolezza che la memoria umana è uno strumento «meraviglioso ma fallace» indusse coraggiosamente Primo Levi a non volersi presentare solo come un reduce quando ragionava su come si fosse arrivati ai lager. Oggi che siamo nuovamente intossicati da falsi miti storici a cui rischiamo un po' tutti di abboccare è quantomai urgente un'opera di chirurgica disinfestazione operata anzitutto attraverso il bisturi dell'indagine storica: «la storia e la memoria collettiva – scrive infatti Rossi – possono essere pensate come i due corni di un’antinomia: dove i progressi della storiografia fanno continuamente arretrare il passato immaginario che è stato costruito dalla memoria collettiva». Un esempio? Il mito del “lungo viaggio” (come lo definì Ruggero Zangrandi), secondo cui una generazione intera di intellettuali, dopo anni di militanza semiclandestina, nicodemismo, fronda sofferta e mascherata opposizione, sarebbe infine approdata all'agognata liberazione per cui tanto avrebbe lavorato in segreto durante il Regime fascista (talmente in segreto che nessuno, e men che meno il Regime stesso, mai se ne accorse). Nient’altro che una razionalizzazione a posteriori, in tutt’altro contesto, di quello che fu, nell’ipotesi migliore, un sostanziale conformismo. «Quel viaggio assomigliò, nella stragrande maggioranza dei casi, al precipitoso scendere da un treno, che confusamente si percepiva avviato al disastro, per salire in fretta su un altro, il quale sembrava offrire speranze, unire uomini di buona volontà». Così, se si confrontano gli scritti che insospettabili filosofi diedero alle stampe negli anni ’30 con quelli licenziati intorno al ’68 si possono constatare curiose continuità di pensiero, sia pure adornate con una diversa retorica. Ci si convinse in buona fede di essere sempre stati antifascisti, ma si era solo cambiato il colore della giacchetta.

Quelli della mia categoria ci cascano spesso, e non di rado si occupano del passato solo per trovare conferme ai propri convincimenti, tanto da far dire a Rossi che «la bellezza del lavoro dello storico consiste principalmente nell’arte di ingarbugliare le favole raccontate dai filosofi». Qui vien fuori in modo magistrale lo stile di chi, abituato a misurarsi con le sfumature dei testi, scopre che il passato assomiglia, spesso e volentieri, a «un’animata discussione nella quale più persone parlano contemporaneamente cambiando spesso interlocutore», assai distante dai mono-loghi entro cui si vorrebbero racchiudere intere “epoche”, come piace fare agli sciamani che discettano di “età” e di “destini”. «Ai “grandi racconti” dei filosofi c’è una sola tesi da contrapporre: quella della varietà che è irriducibile all’unità, quella del totale non-senso della riduzione a unità di tutto ciò che accade. Bisogna in primo luogo riaffermare che non è affatto vero (e tantomeno ovvio) che ogni età sia caratterizzata da un paradigma dominante. (...) Il dialogo critico fra teorie, tradizioni, metafisiche, ideologie, immagini del sapere, metodi di ricerca è stato sempre ed è tuttora - al contrario - continuo, insistente, reale (…) Non è proprio questa varietà, questa fitta conversazione a caratterizzare (nell’esperienza di ciascuno di noi) ciò che è accaduto negli anni trascorsi, sta ora accadendo e presumibilmente accadrà nei prossimi decenni?». 

Tale incessante conversazione costituisce, in particolare, per Rossi, il contrassegno della civiltà europea in quanto luogo in cui il pluralismo è stato riconosciuto e accolto come un valore irrinunciabile. E in nome del quale, senza per questo negare gli orrori che siamo stati capaci di produrre in giro per il mondo, si deve evitare di soccombere alla logica binaria amico/nemico operante a vario titolo in tante teorie anti-eurocentriche (perché, insomma, Carl Schmitt sarà stato anche un bravo pensatore, ma era pur sempre un nazista e dire, semplicemente e unilateralmente, “noi cattivi, voi buoni” è solo il rovescio della medaglia del razzismo). «La nostra civiltà non è né un’unità indifferenziata né una totalità omogenea: in essa si sono svolti e si svolgono alienazioni e lotte per la libertà, cedimenti morali e combattimenti per la verità, conformismi e ribellioni, mistificazioni e analisi lucide. In essa hanno trovato posto sia il colonialismo sia il relativismo culturale, sia il razzismo e i pogrom e la Shoah sia la tesi dell’equivalenza delle culture e del relativismo culturale. Dentro le società che l’Occidente ha costruito sono nati gli ideali della tolleranza e della limitazione alla violenza; si è anche affacciata - forse per la prima volta nella storia del mondo - l’idea che fosse possibile guardarsi dal di fuori, far finta di essere Persiani in visita a Parigi, l’idea che fosse addirittura possibile che gli altri fossero migliori di noi».

Il che esclude di approdare a esiti identitaristi (poiché l’identità è articolata), ma anche di annacquare tutto in un generico e superficiale volemose bene. Al contrario, Rossi denuncia con fermezza il pacifismo che si fa connivente con il terrorismo come un tempo lo fu con lo stalinismo e rilancia ostinatamente il sogno kantiano di una progressiva riduzione della violenza, sostenendo però che per arrivarci può essere necessario passare anche attraverso le forche caudine della “guerra giusta”, «quella che vede contrapposti a guerrieri uomini i quali non credono che la guerra rappresenti un valore, detestano la violenza, non credono che la violenza sia da impiegare neppure per dar vita a un paradiso sulla Terra e che, tuttavia, sono costretti a combattere». La Resistenza, in fondo, è stata proprio questo. Siamo dalle parti di Bobbio, del Bobbio più problematico che ragiona sulla liceità della prima guerra del Golfo, ma forse – più ancora – dalle parti di chi rifiuta l’apocalisse anticipata e la convinzione che il tempo storico sià già il tempo della mietitura e della discriminazione decisiva di Bene e Male (“guerra giusta” non significa affatto “qui buoni, là canaglie”, come la intendono i Bush e i Trump, ma cercare di rispondere a questa semplice domanda: un eventuale mio intervento può ridurre significativamente la violenza attualmente in corso? – che non è poi nient’altro che l’opposto dell’omertà). «Viviamo in un mondo nel quale molti credono che esprimere indignazione sia sinonimo di senso critico e di intelligenza (...). Essendoci lasciati alle spalle un secolo pieno di conquiste e anche di indicibili orrori e violenze, dopo una montagna di errori compiuti, stanno ora davanti a noi, come ideali mete da raggiungere, il senso della caducità delle cose umane, la pazienza e l’indulgenza, la prudenza, la scepsi, il rifiuto della tentazione del tutto o niente». Infatti, «solo i se e i ma aprono le porte al mondo della ragione, coincidono con esso. Quello slogan [senza se e senza ma], come minimo, nega l’utilità delle posizioni avversative o dei disaccordi, esprime un atteggiamento non facile da accettare e pericoloso da diffondere: significa che, con quelli che non la pensano come noi, non si vuole discutere, che è del tutto inutile farlo, che neppure si vuole tentare di farlo». La tentazione di affermare, col ditino puntato, “sono animali, sono fascisti, sono decerebrati” attesta una forma di sudditanza ai loro stessi schemi di pensiero (chiamiamolo così): se vogliamo essere davvero diversi, bisogna avere il coraggio di smarcarsene (anche se costa, se hai di fronte Salvini: ma è questa assuefazione all’ipersemplificazione che li nutre e li rafforza).

«Lo scrivere storie» tuttavia «ha indubbiamente a che fare non solo con la curiosità, ma anche con la pietà», con l’umanissimo desiderio di sottrarre qualcosa di meritevole all’annientamento del tempo e con l’amore sincero per i luoghi dei nostri padri su cui è fiorita la nostra esistenza – e che va tutelato dall’appropriazione indecente di chi si avvolge nel tricolore per giustificare atti di terrorismo e di pura violenza. Di tutti i ricordi di giovinezza che, invecchiando, si rende conto di rievocare con sempre maggior frequenza, Rossi ne sceglie uno in particolare: quando, renitente alla leva di Salò, nell’Umbria ancora occupata del ’44, si rivolse a una famiglia di amici degli amici per essere accolto e nascosto, e venne da questi preso in casa senza condizioni e sulla fiducia. «Non avendo combattuto, sugli anni della guerra - a differenza di molti miei coetanei e amici - non ho nulla di straordinario o di eroico da raccontare. Di eroico c’è stata, ai miei occhi, la facilità con la quale, come moltissimi altri, ricevetti aiuto da persone sconosciute». Ricordiamoci (appunto) che, se vogliamo, possiamo anche essere degni eredi di queste persone e non solo di quelli che andavano rastrellando paesi in camicia nera. E – soprattutto – che se davvero ci interessa qualcosa come la patria, quest'ultima esiste ancora solo grazie ai primi e non certo ai secondi.

(finito il 28 dicembre 2017)

Ho parlato di



Paolo Rossi
Un breve viaggio e altre storie
Le guerre, gli uomini, la memoria
(Raffaello Cortina, 2012)

190 pp. | 13 €

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