giovedì 4 gennaio 2018

1917. L'anno della rivoluzione

Abbiamo appeso il nuovo calendario appena tre giorni fa e ho sentito ricordare già almeno un paio di volte che questo sarà l’anno del centenario della vittoria nella Grande Guerra. E allora permettetemi di fare ancora un passetto indietro, perché prima del 1918 c’è pur sempre stato il 1917, di cui questo volume è una sorta di memoriale annalistico, quasi un Libro dei Fatti steso però non da un anodino redattore, ma da un professore che usa come inchiostro il vetriolo e sin dalle prime pagine chiama quella guerra per quello che è stata: «un osceno macello», «una fabbrica di follia», «una guerra in cui il potere, in ogni nazione, manifesta il totale disprezzo della vita dei soldati», «un’eterna attesa di morte, uno stillicidio di cadaveri, in una zona di confine, in cui si muore senza vedere il nemico», e l’alternativa è solo quella tra «morire maciullati dalle bombe del nemico o morire freddati dalle scariche di fucile dei commilitoni», a causa delle ferocissime e del tutto miopi politiche disciplinari ordinate da Alti Comandi irritati perché la loro ostinata partita di Risiko non andava secondo i loro piani. «Pensare quanto hanno tribulato i miei genitori per allevarmi fino a vent’anni e qui con una indifferenza ti mandano al macello», scrive al fratello un fante di Bassano e capisci che una guerra così non può averla davvero vinta nessuno, non scherziamo. Noi come generazione siamo giustamente rimasti shockati dall’enormità dei lager e delle camere a gas, ma non per questo dovremmo mai accettare che allora le trincee e l’iprite, Verdun e l’Ortigara siano cose normali. Per me Cadorna e Goering pari sono e non per nulla i fenomeni della Prima Guerra Mondiale li ritroviamo poi tutti a recitare nuovamente la loro meschina parte, qualche anno più tardi: i Pétain, gli Hindenburg, i Badoglio («un caso incredibile di sopravvalutazione di un personaggio tra i meno gloriosi e i più ambigui del Novecento italiano»). E ti chiedi davvero, quando evocano proprio il centenario del ’18, a quale “composizione della memoria” possano mai pensare i monarchici coinvolti nella traslazione a Vicoforte della salma di Vittorio Emanuele III, che quella guerra ha voluto, ha praticamente imposto al Paese con un colpo di mano, insieme a Sonnino e Salandra, e ha pure formalmente diretto (il re, da Statuto, «comanda tutte le forze di terra e di mare» e «dichiara la guerra»). Ma di cosa state parlando?

Ciò detto, il 1917 merita attenzione, per d’Orsi, perché è l’anno in cui la corda si spezza, «un anno che, lungi dal porre fine al conflitto, si rivelerà il più duro e tragico, ma avvierà processi nuovi, in seno al conflitto stesso e intorno ad esso». Nel momento in cui il potere mostra il suo volto più disumano, semplicemente, non ce la si fa più. Prima che anno di rivoluzione, il 1917 è infatti anno di stanchezza: è questa «la linea rossa» che tiene insieme i fili sparsi di capitoli ordinati cronologicamente e talora, per questo, anche un po’ ripetitivi. Solo che la stanchezza può indirizzarsi spontaneamente su binari diversi. Può tradursi in timidi episodi di diserzione, spesso repressi brutalmente, o in ondate di scioperi, come nelle giornate d’agosto di Torino, quando «le donne, gli uomini, i ragazzi cui viene negato il pane non possono non notare che le pasticcerie offrono biscotti e dolci costosi e prelibati, riservati alle bocche e agli stomaci dei “signori”» (sì, perché la guerra, e quella guerra in particolare, è terribilmente classista: e chi con essa fa lucrosi affari, e per questo la vorrebbe a oltranza, passa per patriota mentre chi non ne può più e, stremato, chiede la pace viene ulteriormente spremuto sul lavoro o magari fucilato come disfattista). Anche Caporetto è figlia di quella stanchezza, esito catastrofico, a sua volta, «di una stolta, e in sostanza criminale, conduzione della guerra da parte di Cadorna e dei suoi collaboratori e subordinati».

Questo amalgama disordinato di esasperazioni serpeggiava in tutta Europa: se trovò il suo precipitato più esplosivo in Russia fu grazie alla presenza di un agente catalizzatore che lo seppe guidare con demiurgica e spregiudicata lucidità. Su questo, d’Orsi non ha dubbi: «la Rivoluzione bolscevica è soprattutto la Rivoluzione di Lenin», al cospetto del quale tutti gli altri personaggi che troviamo sul proscenio appaiono dei comprimari (con buona pace dei pennivendoli italiani che ne parlavano, all’epoca, come di un “omiciattolo” – ma è proprio perchè in Italia «manca un Lenin» che i moti torinesi non diventarono realmente rivoluzionari: i socialisti italiani vengono osteggiati perché neutralisti, ma in realtà se gettano il sasso, poi nascondono la mano e oltre qualche proclama di massima non si spingono mai). Il merito di Lenin fu di aver privilegiato «i fattori soggettivi, la volontà dell’individuo, sui fattori strutturali, che nella lunga stagione del positivismo imperante erano interpretati meccanicisticamente, finendo addirittura, talora, per cancellare l’iniziativa umana, riducendo l’azione politica a una certificazione dello sviluppo delle forze produttive fino alla loro entrata in rotta di collisione con i modi di produzione, secondo la lezione marxiana interpretata in modo pedissequo».

E qui non so, forse mi sbaglierò, ma quale che sia il giudizio storico su Lenin, pare di percepire in questa lettura una nota di speranza rispetto alla possibilità che anche là dove certi processi socio-economici sembrano irrevocabili e incontrollabili, l’azione umana – e dunque la politica – abbia comunque ancora sempre margini di manovra per riaprire degli orizzonti, spezzare delle tendenze, dare un colpo d’ala, scompaginare le carte, smuovere l’inamovibile. E che dunque, persino nell’epicentro di una crisi, sia lecito pensare, ragionare e progettare scenari alternativi, perché le crepe, di tanto in tanto, si aprono e in quel momento lì non hai più tempo e diventa essenziale agire. Anche perché se no ci arrivano prima i fascisti, quelli che tutto deve cambiare perché rimanga tutto com’è. E insomma, buon anno elettorale a tutti.

(finito il 12 settembre 2017)

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Angelo d'Orsi
1917. L'anno della rivoluzione
(Laterza, 2016)

278 pp. | 18 €

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