martedì 7 febbraio 2012

Mondovi'... formidabili quegli anni (Parte 1)


Tanto per far capire che aria tira qui a Thélème, contravverrò subito alle mie stesse dichiarazioni d’intenti (per cui vedi qui a fianco la stanza l'autore ai lettori), in base alle quali sarebbe lecito attendersi pagine popolate esclusivamente da nani e ballerine rinascimentali, e inaugurerò il blog con due post serissimi, venati anzi di una patina malinconica, dietro cui si potrebbe persino scorgere l’ombra di una nemesi storica. Mi sembra bello infatti cominciare con un omaggio alla mia città, peraltro in pieno anno elettorale, e quindi in un momento in cui si è più propensi a ragionare di passato, presente e futuro. Quella che intendo raccontare è infatti la storia di come Mondovì ebbe per lo spazio di un mattino la sua Università e di come le venne sottratta dopo pochi anni (meno ancora di quelli trascorsi, in tempi più recenti, prima che il Politecnico di Torino chiudesse di fatto la sua sede decentrata, aperta nel 1990).

Mondovì, Cattedrale e Torre del Belvedere

Anche se è meno nota alla memoria collettiva rispetto ad altre più celebri date, il 3 aprile 1559 segna in ogni caso un autentico punto di svolta nella storia italiana. Quel giorno infatti fu ratificato nella cittadina francese di Cateau-Cambrésis, ai confini con le Fiandre, l’accordo di pace che pose fine alle estenuanti guerre tra Asburgo e Valois, stabilendo di fatto il dominio spagnolo sulla Penisola per tutto il secolo successivo. Fra le varie risoluzioni contenute nel trattato, ve n’era anche una che imponeva alla Francia di abbandonare i territori appartenenti a casa Savoia, dopo oltre un ventennio di occupazione, e di restituirli al loro legittimo titolare, Emanuele Filiberto, ritrovatosi duca senza ducato alla morte del padre Carlo III, con il quale era fuggito dal Piemonte al momento dell’invasione delle armate transalpine. Avviato precocemente alla carriera militare, il giovane principe aveva poi scalato le gerarchie dell’esercito imperiale fino a guidarlo alla vittoria nella decisiva battaglia di San Quintino (10 agosto 1557) e scalpitava ora per veder finalmente riconosciuti i propri diritti ereditari. In vista del suo effettivo insediamento, tuttavia, come garanzia di futura neutralità dello Stato sabaudo nello scacchiere italiano, la Francia ottenne comunque al tavolo della pace di poter mantenere il controllo di alcune piazzeforti strategiche in territorio piemontese, tra cui Chieri, Pinerolo e – soprattutto – Torino.

Prima di procedere oltre, occorre ricordare che Torino all’epoca non era ancora la capitale del Ducato (lo sarebbe diventata a breve, come vedremo, subentrando a Chambéry), ma dal 1404 ospitava un suo Studio universitario. Diciamolo subito: periferica rispetto al circuito delle altre prestigiose sedi italiane, l’Università torinese soffrì sin dall’inizio la concorrenza di centri assai più qualificati, talora anche vicinissimi, come Pavia, e non riuscì mai a guadagnare una dimensione che non fosse puramente regionale. Per quanto possa suonare paradossale, fu però proprio questa marginalità a propiziare quello che è ancor oggi uno dei maggiori lustri della sua storia, l'aver cioè licenziato in teologia nientemeno che il grande Erasmo da Rotterdam, in occasione del suo viaggio in Italia del 1506. Contrariamente a quanto siamo abituati a pensare oggi, nell’ordinamento tradizionale delle Università medievali e rinascimentali, il conferimento di un titolo era un atto per certi aspetti distinto dall’attività didattica, e non era raro che studenti formatisi in un certo luogo si recassero poi altrove a laurearsi, talora per valorizzare i propri studi presso un’Università più importante, talora invece per sfuggire alle onerose prebende che i centri maggiori richiedevano al momento dell’addottoramento. Il desiderio del non ancora famoso Erasmo di presentarsi, nonostante i suoi studi formalmente irregolari, con il titolo di theologus ai circoli umanistici italiani presso cui intendeva accreditarsi deve aver trovato una sponda propizia nell’istituzione torinese, che secondo un’ipotesi non peregrina sembra esercitasse all’epoca, proprio per la sua posizione geografica, un certo richiamo sugli studenti d’Oltralpe interessati a conseguire un titolo in Italia relativamente a buon mercato (benchè, a rigore, lo Stato sabaudo fosse all’epoca sostanzialmente uno stato francese, l’Università di Torino era infatti in tutto per tutto conformata secondo il modello organizzativo “bolognese”, diverso da quello “parigino”, proprio delle Università del Nord Europa). Questo episodio non contribuì tuttavia a mutare le sorti dell’Università di Torino, neanche quando Erasmo, di lì a poco (l’Elogio della follia è del 1511), sarebbe diventato il faro di tutta la cultura europea. Anzi, ben presto essa dovette piegarsi alla logica delle armi e fu costretta a chiudere i battenti e sospendere ogni attività didattica per tutti i lunghi anni dell’occupazione francese. Che per Torino, come abbiamo detto, non terminarono, però, con il reinsediamento dei Savoia nel proprio ducato.


Emanuele Filiberto,
"Testa di Ferro"
É esattamente a questo punto che nella nostra storia entra in scena Mondovì. Per quanto il nomignolo di “Testa di Ferro” affibbiatogli durante le campagne militari non lascerebbe presagire nulla di buono in tal senso, Emanuele Filiberto si dimostrò invece immediatamente molto interessato alle questioni di politica scolastica. Già pochi giorni dopo gli accordi di Cateau-Cambrésis, il duca aveva diramato dalla lontana Bruxelles, dove ancora si trovava, un’ordinanza che concedeva alla città di Nizza il privilegio di poter fondare un proprio collegio di giurisperiti e di rilasciare per suo tramite titoli accademici in legge. Si trattò di un provvedimento d’emergenza, che di fatto non portò a nulla di concreto, ma che segnala la precisa volontà da parte di Emanuele Filiberto di ricostituire quanto prima una classe dirigente adeguatamente preparata, in grado di amministrare il nuovo Stato che si accingeva a governare e, per certi aspetti, a rifondare. Per mettere in piedi un’università era però necessaria un’energica volontà politica e la disponibilità a effettuare investimenti anche ingenti. In quel frangente Mondovì fiutò l’occasione di sfruttare a proprio vantaggio l’impossibilità per lo Studio torinese di riprendere le proprie regolari attività, e si candidò a prenderne il posto. Una simile pretesa, considerati i rapporti di forza del XXI secolo, può apparire velleitaria. Eppure nel ‘500  Mondovì non era certo la più piccola dei capoluoghi di Giuda: sede vescovile dal 1388, essa contava già all’incirca ventimila abitanti contro i 14 mila attestati a Torino da un censimento del 1571. Forse grazie anche alla mediazione del potente cardinale Michele Ghislieri, Grande Inquisitore del Sant’Uffizio, nominato vescovo di Mondovì il 27 marzo 1560, Emanuele Filiberto manifestò perciò una certa disponibilità ad accogliere questa proposta. Non appena fu messo al corrente di tale apertura, nell’ottobre 1560 il Consiglio Comunale diede mandato a quattro emissari (due giuristi e due nobili) di recarsi a Vercelli, sede provvisoria del governo ducale, per definire i termini della concessione. L’ambasciata ebbe successo e l’8 dicembre 1560 Emanuele Filiberto sottoscrisse il diploma con cui concedeva a Mondovì i tradizionali privilegi spettanti alle sedi universitarie, impegnandosi inoltre a chiamarvi professori di grido e a provvedere in prima persona al loro sostentamento, con denari appositamente tratti dall’erario statale.

Tommaso Vallauri, autore di una Storia dell’Università piemontese (1845-47), dà una descrizione quasi commovente della solerzia manifestata in questa circostanza dai monregalesi, che seppero davvero far fronte comune per il bene della città:
«la sollecitudine dimostrata in questa occasione dal comune di Mondovì, e la rara liberalità, con cui si profferse di sopperire in parte alle spese richieste pel mantenimento dei lettori, palesa chiaramente l’indole di quei cittadini, i quali, come sono per lo più di svegliato ingegno e disposti al coltivamento di qualunque liberale disciplina, così hanno della natura una singolare alacrità, che li rende assai faticanti e adatti al maneggio di gravissimi affari, e fa loro abbracciare volenterosamente tutto ciò che si rappresenta all’animo siccome utile e onesto» (pp. 153-4).
In tal senso, l’episodio forse più significativo fu la decisione assunta il 14 febbraio del 1561 di attingere una quota di mille scudi dalle casse comunali da destinare al pagamento degli insegnanti, per sopperire alle lacune del finanziamento ducale. Ma Mondovì aveva dato per tempo prova inequivocabile di nutrire grande fiducia in questo progetto. Ancor prima che la concessione fosse ufficializzata, il Comune aveva già provveduto infatti a reclutare personale e a organizzare un embrionale ciclo di lezioni in diritto e medicina, benchè le nomine dei cattedratici, di competenza del duca, fossero poi snocciolate pian piano durante tutto il corso del 1561, segno che – nonostante le ottime intenzioni – per quel primo anno la didattica procedette inevitabilmente a singhiozzo, come del resto è normale aspettarsi da un’attività appena inaugurata. Come sede delle lezioni furono scelti il palazzo vescovile e l’attiguo ospedale maggiore; l’aula vescovile, in particolare, fu destinata alla proclamazione delle lauree. Mondovì fu anche molto generosa nel rifornire di professori autoctoni la sua università, anche se questo può per certi aspetti essere considerato un suo punto debole, perchè sembra denotare un certo provincialismo; ciò non toglie, tuttavia, che, allo stesso tempo, per creare interesse intorno alla neonata istituzione furono anche assoldati per iniziativa del duca alcuni personaggi interessanti della cultura italiana ed europea della metà del ‘500 (ma sui professori che passarono da Mondovì mi piacerebbe tornare in un altro post).

Frontespizio della Storia d'Italia
di Guicciardini, pubblicata
da Torrentino nel 1561
Sicuramente nell’impresa ci credeva molto, in questo primo momento, lo stesso Emanuele Filiberto. Oltre a imporre per decreto che tutti i giovani piemontesi interessati a proseguire i loro studi si iscrivessero a questa Università, egli fece chiamare appositamente da Firenze lo stampatore fiammingo Lorenzo Torrentino, perchè aprisse una tipografia a Mondovì così da garantire il supporto editoriale necessario per le attività scolastiche: a tale scopo fu costituita nel giugno del 1562 un’apposita società, in cui lo Stato entrava per un terzo del capitale. Questa decisione è particolarmente indicativa. Le credenziali di Torrentino, infatti, non erano in quel momento particolarmente affidabili, dal momento che la sua precedente esperienza come stampatore di stato per conto del granduca di Toscana Cosimo de’ Medici si era conclusa in modo fallimentare. Tuttavia restava uno dei maggiori tipografi attivi in Italia, e poteva vantare al proprio attivo edizioni di Guicciardini, Paolo Giovio e Vasari. L'intenzione di Emanuele Filiberto era evidentemente quella di rafforzare quanto più possibile il centro di studi che aveva creato, ma poiché si trattava pur sempre di una piccola realtà, bisognava anche essere disposti a concedere una seconda chance a figure di caratura internazionale il cui successo si era magari momentaneamente offuscato. Tutto sembrava dunque cospirare per il meglio. Avviato il primo regolare anno accademico nell’autunno 1561, Mondovì (dove esattamente negli stessi anni veniva anche inaugurato anche un Collegio Gesuitico) sembrava insomma nelle condizioni di potersi ritagliare uno spazio significativo nel novero delle istituzioni scolastiche superiori italiane, quale ateneo di riferimento del rinnovato Stato piemontese (l’equivalente, insomma, di ciò che Padova era per Venezia o Pisa per Firenze). Ma la storia aveva in serbo per lei un brutto tiro.

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