domenica 19 maggio 2024

Sessanta racconti

Custoditi nelle librerie di tutte le case per cui sono transitato da oltre venticinque anni a questa parte, solido reperto in ottimo stato di conservazione di un’epoca in cui le mie prime incursioni nel fantastico mi avevano suscitato la curiosità di cercare se esistesse qualcosa di simile in lingua italiana, in ossequio a un impulso che mi avrebbe per esempio portato a scoprire, un po’ più avanti, un eccentrico come Landolfi – che di Buzzati è una versione più colta e ancor meno rassicurante -, com’è poi capitato a tanti altri miei libri, anche questi racconti sono in realtà rimasti a lungo lì sullo scaffale, aperti di tanto in tanto, ripresi tassativamente sempre di nuovo dall’inizio, ogni volta con l’impegno di arrivare fino in fondo, ma abbandonati, a seconda dei casi, al quinto, all’ottavo, al nono, senza mai avvicinarmi neanche lontanamente al sessantesimo. La lettura breve, infatti, è traditrice: con la scusa che la puoi riprendere in qualsiasi momento, finisci spesso per accantonarla e dimenticartela, finché arriva un momento in cui, invece, hai bisogno proprio di quello – rapide ricariche di letteratura nei frammenti di tempo che non ti sono sottratti dalle circostanze – e fai della concitazione l’occasione per portare a compimento quel progetto inaugurato molti anni prima, dando temporaneamente scacco al re del mondo.

La prima cosa che mi viene da pensare è che ci vuole certamente del coraggio a mettere in fila, uno dietro l’altro, i racconti di una vita, quando la vita non è ancora conclusa, perché inevitabilmente balzano subito all’occhio quelle ripetizioni di tema, tono e struttura che potevano sfuggire se quegli stessi racconti fossero rimasti dispersi sulle riviste e sui giornali su cui originariamente erano stati pubblicati – e ben lo so io, che mi cruccio se mi rendo conto d’aver usato già ben tre o quattro volte in questi circa duecento post la parola parvenus, trasformando un'innocua civetteria in banale manierismo, o quando devo lottare per trattenere a freno la naturale tendenza a inaugurare ogni mio scritto con una cautelativa litote. In questo modo, anche i pezzi potenzialmente più pregiati del lotto rischiano di svalutarsi un po’, quando ti accorgi che il metallo prezioso di cui sono forgiati, anziché essere concentrato in poche, uniche, gemme, viene diluito in diversi esemplari, senza che le variazioni introdotte eliminino del tutto una certa sensazione di déjà-vu. Racconti pure suggestivi come I sette messaggeri o L’inaugurazione della strada, per dire, si basano su un meccanismo molto simile, e così Qualcosa era successo e Direttissimo – e tutti questi quattro presi insieme, a loro volta, ripropongono in certa misura il tema di un inesorabile e ostinato viaggio verso una meta lontana che sfuggirà sempre o che forse si incontrerà senza rendersene conto o che ci porta a trascurare irrimediabilmente le piccole soste che, sole, potrebbero veramente dare senso alla nostra vita.

In altri casi l’elemento ricorsivo è invece meno invasivo, e assomiglia piuttosto alla firma con cui l’autore certifica che il prodotto è stato fatto proprio dalle sue mani. Spesso tale contrassegno ha una qualità sonora, come lo squillo di un campanello o di un telefono nel cuore della notte, oppure un altro rumore disturbante e sinistro, e tanto più disturbante e sinistro quanto più apparirebbe innocuo in altre condizioni, che sia l’eco lontano della piena montante di un fiume, il bussare di una porta o il tic tac di una goccia che misteriosamente sale i gradini di una scala anziché scivolare giù, perché ciascuno di questi segnali appare come «una specie di minuta palpitazione di occulte presenze annidate negli angoli d’ombra, così neri», intermittenti interferenze da cui la presunta quiete piccolo o grande borghese nella quale per lo più sguazziamo compiaciuti viene disturbata per sempre. Leggere questi racconti ti lascia spesso la sensazione che tutta l’impalcatura sociale e tecnologica a cui abbiamo assicurato le nostre fragili vite possa crollare da un momento all’altro, come se vivessimo, senza curarcene - tanto siamo assuefatti al solito tran tran - su una cordigliera di vulcani silenti ancorché pienamente attivi. E se in alcune short stories degli anni ‘50 che non avrebbero sfigurato su un numero di Urania tale percezione di un pericolo incombente trova la sua rappresentazione concreta nell’incubo atomico (vedi All’idrogeno o Rigoletto – che, con 24 marzo 1958 e Il disco si posò, costituiscono piccoli esempi di possibile fantascienza all’italiana), il più delle volte questo indefinito disagio si solleva dal piano storico a quello cosmico e si manifesta sotto forma di destino inappellabile, giacché, per bene che ti vada, prima o poi arriverà comunque la morte a battere cassa, senza riguardo per il fatto che tu la tua vita l’abbia vissuta decorosamente o l’abbia buttata via male (e in alcuni casi, il che forse è persino peggio, neppure la morte mette del tutto fine all’orrida routine quotidiana, come se in fondo fossimo già morti e, anche qui, non ce ne fossimo ancora resi conto: almeno in questo senso, l’annichilimento generale qua e là evocato risulta decisamente più auspicabile).

Buzzati ironizza ampiamente sullo spauracchio della rivoluzione, sbeffeggiando sia il peloso perbenismo di chi, avvolto in una pelliccia di visone, appare terrorizzato per la fine imminente dei propri privilegi, sia l’inconcludenza di una palingenesi continuamente annunciata ma mai davvero compiuta (tipicamente ciò avviene in Paura alla Scala e La notizia), senza mostrare molta fiducia nella realizzabilità di un effettivo riscatto in chiave sociale – e tuttavia lascia anche intendere che, in un certo senso, di una rivoluzione ci vorrebbe davvero bisogno, prima che la massificazione ottunda completamente i pensieri e chiuda ogni spiraglio alla capacità di immaginare scenari alternativi, abbandonandoci alla «costernante uniformità di vite che dovevano essere romanzo, azzardo, avventure, sogno» (con guizzo da vero narratore sperimentale, ne La parola proibita, coinvolge il lettore in una specie di test per rendergli evidente la capacità autocensoria del nostro cervello, che si accomoda sin troppo facilmente a non individuare neanche la parola mancante in un testo, senza neppure bisogno di divieti formali). Da questo punto di vista, la frontiera, il confine, e il deserto che tendenzialmente comincia appena un po’ più in là sono sì «l’incarnazione dell’ignoto che ci aspetta all’angolo», l’abisso da cui possono irrompere da un momento all’altro le orde assassine dei tartari, ma anche il territorio perennemente aperto dalle mille potenzialità, l’informe ancora da scoprire, la terra promessa a cui guardare per evadere da una vita sempre più ingabbiata in percorsi urbani ed umani obbligati (Il problema dei posteggi è forse il racconto in cui tutto questo appare più chiaro e senza filtri). Come rimugina tra sé e sé il protagonista de Il borghese stregato, colpito da una maledizione mortale durante una pacifica settimana di villeggiatura che lo uccide ma lo ha messo per un momento in contatto con questo altrove, «eroe, non già verme, non confuso con gli altri, più in alto adesso (…) ti ho vinto miserabile mondo, non mi hai saputo tenere». Meglio l’apocalisse, insomma, dell’appiattimento generale. Davvero c’è ben poco da sperare quando la paura dell’incubo spegne sul nascere il gusto di sognare.

Cronista sportivo (e di ciclismo in particolare), interessato ai fumetti come alla fantascienza, Buzzati ha tutti i requisiti per meritarsi la mia totale simpatia, anche se devo ammettere che quando gioca a carte un po’ troppo scoperte e assume una posa eccessivamente oracolare finisce per apparirmi artefatto e finanche stucchevole, con esiti che talvolta ricordano le storielle raccontate dal parroco ai bambini alla novena di Natale. Preferisco di gran lunga quando si ricorda d’essere anzitutto giornalista e ricorre ai ferri del mestiere (compreso l’uso di specificare chiaramente, sin dalle prime righe, nome, cognome, età di molti dei suoi personaggi) per elaborare, come fa ne La corazzata Tod, una sorta di fittizio reportage sul destino di una potentissima nave da guerra nazista che avrebbe dovuto essere l’arma definitiva di Hitler ma non poté più essere usata perché nel frattempo era finita la guerra o, meglio ancora, per inventare storie nerissime – che mi piacerebbe fossero state stimolate da un dispaccio giunto in redazione dalle sedi locali e condensato in un trafiletto – ambientandole in una di quelle tetre valli alpine o prealpine di cui l’Italia è ricca e che non sfigurano affatto rispetto alla brughiera inglese come luogo adeguato per inscenarci un racconto gotico. Qui, infatti, «in certi giorni di settembre, sotto alle nuvole temporalesche, non è poi detto che certe cose non possano avvenire», e al riparo di «cime tozze, a panettone, che parevano desolate e torve», i draghi forse esistono sul serio, protetti dallo «smisurato silenzio delle montagne», memorie petrose di tempi spaventosamente remoti, o i tuoi comunissimi vicini di casa possono veramente essere tenuti in ostaggio da scarafaggi giganti nelle loro ville sul lago. In questa provincia italiana, diceva Carlo Fruttero, l’atterraggio di un disco volante non risulterebbe credibile come in Texas, ma gli orrori nascosti non mancano. E poiché io in provincia ci vivo, quando la vedo rappresentata in questi termini, qualche brivido lungo la schiena effettivamente mi scorre.

(finito il 25 febbraio 2022)

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Dino Buzzati
Sessanta racconti
(Mondadori 1994)

560 pp. | 14.000 lire

(ed. or.: 1958)