sabato 8 febbraio 2025

Alla fine il nulla?

Ammetto che, quando pochi giorni fa, in occasione dell’intronizzazione del secondo Trump, li ho visti schierati tutti lì in fila, a Washington, i protagonisti dell’odierno teatrino degli orrori, ho per un attimo auspicato anch’io per loro quel che il professor Barbero esclamò in una vecchia intervista a proposito di Reagan e della Thatcher, ovvero che possano anche loro bruciare per sempre all’inferno, trattenuto appena dal timore di tradire in questo modo il risentimento dello schiavo sbeffeggiato nella Genealogia della morale a partire da quel passo di Tertulliano che invita il pio cristiano a disertare circhi e teatri terreni, perché neanche lontanamente paragonabili alla straordinaria soddisfazione che sarà offerta ai redenti dallo spettacolo dell’eterno tormento dei crassi epuloni di ogni tempo, sprofondati laggiù nella morta gora dove anche Dante si prende la soddisfazione di ricacciare a pedate quel farabutto borioso di Filippo Argenti. D’altra parte, non avendo a disposizione riscontri fattuali, è giocoforza che l’aldilà ciascuno se lo immagini a suo modo, dando di volta in volta sfogo alle proprie personali aspirazioni o paranoie, che si tratti di un’insopprimibile aspirazione alla giustizia o del bisogno di riannodare prima o poi tutti i fili della sua vita. Se ci si pone in una prospettiva più specificamente teologica, l’escatologia potrebbe apparire invece come una sorta di speculazione al quadrato, ipotesi costruita su un’ipotesi, e tirarsi facilmente addosso la critica di inconsistenza metodologica: come si può infatti pretendere di costruire un discorso razionale su qualcosa di cui, per definizione, non possiamo sapere nulla? Non sarà forse più dignitoso tacere e limitarsi ad attendere, con sobrietà e pudore, che giunga la nostra ora? Paradossalmente, invece, proprio perché qui in un certo senso tutto è lecito – e perché, stringi stringi, che lo ammettiamo o no, la domanda che pensiamo di aver gettato fuori dalla porta ci sorprende continuamente alle spalle rientrando dalla finestra, inevitabile, e con altrettanto inevitabili ricadute pratiche sul concreto orientamento della nostra vita – non si vede perché impedire al teologo di continuare a rischiarare quel che la fede testimonia, per aiutare a capire almeno se valga la pena credere in quel che si dice di credere (e, prima ancora, se lo si sia capito poi per davvero, quel che si dice di credere).

In questo studio, Lohfink fa esattamente questo: rilegge l’esperienza di fede ebraica e cristiana e propone alcune chiavi che, come accade spesso con la buona teologia, aprono delle porte su altre porte che neanche ti immaginavi che ci fossero e - nel far questo - ti spingono a ristrutturare un po’ l’ordine delle idee che avevi in testa, lasciandoti più d’una volta senza fiato (non dico convinto, ma sicuramente stupito, e costretto perciò a rimuginarci su). Perno fondamentale del suo ragionamento, che già potrebbe incuriosire chi si è assuefatto a ben altro tipo di racconto, è l’insistenza sul «radicale aldiquà» che contraddistingue l’esperienza religiosa di Israele (e che forse, aggiungo io, trova una spiazzante conferma nell’ossessione per il possesso della terra dei padri da parte della destra che attualmente governa lo stato ebraico). Il mondo, lungi dall’essere uno scarto di fabbricazione, è - tutt’al contrario - la creazione amata da Dio, «il suo progetto, la sua gioia, che egli non abbandona[va] nonostante il caos provocato dagli esseri umani». Ma se questo mondo «era lo scopo di Dio», ne consegue che «la vita vera è qui, in questo mondo» e che «il posto dell’essere umano è la storia che sta accadendo ora». A differenza di quanto si sono immaginati, in vario modo, egizi e greci, «non c’è niente di naturalmente eterno nell’essere umano che salga verso le stelle», una frazione dell’essenza divina rimasta intrappolata nelle pieghe del corpo ma destinata spontaneamente a liberarsene con la sua morte per accedere alla sua autentica, e disincarnata, regione d’esistenza. «Se c’è immortalità, questa potrà essere donata soltanto da Dio». É talmente profonda questa convinzione che quando qualche ardimentoso profeta, come Ezechiele, comincia a pensare che Dio non possa rassegnarsi a vedere definitivamente perduto nell’abisso scuro dello Sheol quel che è uscito dalle sue stesse mani, non trova altro modo per esprimersi che dipingendo quella straordinaria e un po’ macabra visione di una distesa di cadaveri le cui carni e ossa riprendono letteralmente vita riagglutinandosi le une con le altre. Se la speranza riguarda solo i vivi, e se il piano di Dio è di realizzare le sue promesse in questo mondo che ha tanto amato, e non di prepararcene un altro altrove, etereo e immacolato, allora sarà Lui stesso a trovare il modo di restituire a questa vita chi nel frattempo l’ha perduta. Come ha scritto Bonhoeffer, «solo quando si amano la vita e la terra, al punto tale che sembra che con esse sia tutto perduto e finito, si può credere alla risurrezione dei morti e a un mondo nuovo». Davvero sorprendente: non è il disprezzo del mondo a proiettarci nell’eternità, ma un irrefrenabile, potente, convintissimo e testardo sì alla vita, pronunciato assai prima che venisse a insegnarcelo Zarathustra (tutto ciò che non rispecchia questa intenzione di fondo potrà essersi anche segnato con la croce, ma proviene da altre fonti e ha imbastardito l’originario messaggio biblico). Ne consegue, come corollario, che non si può essere davvero cristiani se non si è, in una certa misura, dei materialisti.

Noi ci siamo quasi riusciti a pervertirne il messaggio, interpretando il “regno di Dio” di cui parla come una semplice allusione all’aldilà, ma in effetti – e coerentemente con la tradizione ebraica testé richiamata – nella sua predicazione Gesù insiste ripetutamente sul fatto che questo regno è già silenziosamente all’opera nel mondo, impegnato a farsi largo fra le maglie della sempiterna zizzania, per preparare il terreno non già alla fuga da questa valle di lacrime, come auspicato dagli escapisti di ogni tempo, che una volta si chiamavano gnostici e ora sono miliardari ansiosi di lasciarsi alle spalle un pianeta ormai irrecuperabile, e i poveracci privi di biglietto, per andare a fondare le loro futuristiche colonie su Marte, bensì la discesa della Gerusalemme celeste sulla nostra povera terra. «La signora di Dio non vuol essere altro che condurre liberamente la creazione a diventare ciò che essa deve essere secondo Dio: un mondo di giustizia e di pace. (…) Il “mondo” della risurrezione non può essere nient’altro che il mondo in cui viviamo ora portato al suo compimento, alla sua integrità e alla sua salvezza». Per questo, «il futuro ultimo della storia non sarà la catastrofe, non sarà neppure il paradiso degli inizi, ma una nuova società che ha attraversato difficoltà, caos e persecuzione». La Pasqua è per il cristiano la prova che è di questo mondo, e solo di questo mondo che importa qualcosa a Dio – e gli importa talmente tanto da promettercene la conservazione, come testimonia la scandalosa concretezza dei racconti di incontro con il Risorto, che porta sul suo corpo trasfigurato i segni tangibili dell’amore donato. Ispirandosi proprio a questa esperienza fondativa della prima comunità cristiana, Lohfink arriva a formulare come «legge fondamentale della risurrezione» che «può risorgere solo ciò che è divenuto nella storia di vita della singola persona. Proprio per questo, la storia di ogni persona, ogni giorno e ogni ora della vita di un essere umano, ha un significato che in modo diretto e profondo riguarda l’eternità». Detto altrimenti, «la risurrezione significa che ogni momento, che un uomo ha vissuto, viene portato dentro la vita eterna con Dio. (…) Niente di ciò che di positivo proviene dalla lunga storia dell’umanità va perduto. L’intera cultura, l’intera scienza del mondo, tutto ciò che gli uomini hanno pensato, desiderato e acquisito, viene messo al sicuro in questa città» che si sta preparando, giorno dopo giorno, attraverso i nostri piccoli gesti d’amore quotidiano. Persino per i miei libri, forse, ci sarà un qualche spazio in paradiso. Insomma, altro che pitocco intontito dalla “ninna nanna del cielo” (come la chiamava suggestivamente Heine): chi crede nella risurrezione cristiana può «investire le proprie energie nella costruzione di una società giusta, perché il mondo della risurrezione è la forma definitiva che Dio donerà proprio a quel mondo per il quale noi lottiamo qui in questa storia». La speranza cristiana consiste proprio nello sperare contro ogni evidenza fisica che quell’amore distribuito e diffuso non si consumi nello spazio di un giorno, ma sia salvato per sempre. E dunque abbandonarsi con fiducia alla morte, quando verrà, perché tutto ciò che di buono c’è stato, ci sarà ancora – che è ben diverso dal ricercare la morte perché non se ne può più di questo mondo (se odiamo questo mondo, dove potremo mai andare, infatti, quando Dio lo restaurerà?).

A vederla così, molte prospettive si ribaltano e cambia anche il modo di intendere il nostro rapporto con i defunti. Mi limito a un esempio. Posto che ormai abbiamo interiorizzato l’idea che il “cielo” non coincide con una regione fisica sovratmosferica - perché lo spazio, come lo intendiamo noi, è appunto una modalità di percezione condizionata dalla nostra natura creaturale – cosa ci trattiene dal trarre analoghe conseguenze anche con il tempo, quando peraltro la stessa fisica contemporanea ci invita a non considerare reale la rappresentazione ingenua che ne abbiamo? In altre parole, e tornando al caso nostro, perché pensare che il tempo continui a scorrere, come per noi, anche per i morti, i quali dovrebbero perciò attendere milioni di anni prima di rivestirsi dei loro corpi e accedere alla gloria? Lohfink insiste ripetutamente sul fatto che la risurrezione non avviene “dopo” la morte (così come non c’è un “prima” rispetto al Big Bang), ma “nella” morte, senza dilazione alcuna. É “nella” morte che incontreremo Dio, e – posti di fronte alla sua santità - «i nostri occhi si apriranno su noi stessi»: «tutto viene manifestato. Tutto viene in luce» e «conosceremo chi siamo. Noi stessi giudicheremo e condanneremo il male che è in noi» e assaporeremo «la gioia piena di stupore per il bene che c’è stato nella propria vita e nella vita degli altri». In un istante che non è più un istante tutti i secoli si riavvolgeranno e faremo i conti non solo con la nostra storia, ma anche con la storia degli effetti che la nostra vita avrà prodotto, ovvero con le conseguenze delle nostre azioni, generative o distruttive. Questo processo costituirà per tutti una forma di purificazione, che comporta una sofferenza analoga a quella che può provare, già qui in terra, chiunque abbia deciso di cambiare vita e si trova per questo a fare i conti con i propri precedenti fallimenti, ma questa sorta di “purgatorio” «è un evento, non un luogo» e «non si compie più nel tempo terreno». «Il sopraggiungere della morte rende definitive tutte le decisioni compiute dalla libertà durante la vita che in quel momento si chiude; la morte non permette né revisioni né conversioni, neppure “nel caso limite”. Solo in questo modo sono riconosciuti l’importanza della storia e il valore dell’esistenza storica. (…). É qui, in questa vita, che si prendono le decisioni». E se c’è qualche persona, «la cui opzione fondamentale fosse rivolta a cercare solo sé stesso, chiudendosi a ogni altra cosa, Dio dovrebbe abbandonarlo a sé, al suo ripiegamento su di sé. Dio non può infatti sopraffarlo né tanto meno violentarlo. Un uomo così, alla fine, davvero non avrebbe nient’altro che sé stesso – e proprio questo sarebbe l’inferno», una «possibilità terribile» che non può e non deve essere sostituita con l’idea di «una riconciliazione universale» che, per quanto sia nell’auspicio di Dio, non è affatto scontata.

Stando così le cose, la vera preghiera di intercessione non è tanto l’offerta burocratica della messa di suffragio, ma l’impegno a cercare di risolvere tutto l’irrisolto che il defunto ha lasciato in vita, ricomponendo per quanto possibile i cocci che lui ha disperso, perché non sarà una pena supplementare, a purificarlo, nell’aldilà, ma – di nuovo – è quel che avviene di qua a determinare il giudizio definitivo sulla sua vita. Ed è anche per questo che testimonio volentieri pubblicamente la ricchezza del contributo di cui vi ho parlato, perché al suo estensore, morto da circa un anno, possa essere accreditato come giustizia nell’eternità già raggiunta.

(finito il 9 giugno 2022)

Ho parlato di


Gerhard Lohfink
Alla fine il nulla? 
Sulla risurrezione e sulla vita eterna
(Queriniana 2020)

trad. di V. Maraldi

288 p. | 34 €

(ed. or.: Am Ende das Nichts? Uber Auferstehung und Ewiges Leben, Freiburg im Breisgau 2017)

domenica 5 gennaio 2025

Chadzi-Murat

Non è Anna Karenina, non è Guerra e Pace, e a dirla tutta non è neppure La sonata a Kreutzer o La morte di Ivan Ilic, ma è proprio il suo carattere defilato nell’immensa produzione tolstojana (eufemismo per mascherare il fatto che non ne avessi mai sentito parlare prima) ad aver reso terribilmente invitante il suggerimento di Paolo Nori, secondo cui questo sarebbe invece un testo perfetto da cui prendere le mosse se ci si volesse accostare per la prima volta alla letteratura russa. Addirittura: e che ci sarà mai di così interessante? Trattandosi di Nori, la cui naiveté rende talvolta difficile capire dove cominci la garbata presa in giro, non manca il sospetto che si possa trattare di un dotto pesce d’aprile, tanto più se si considerano le motivazioni addotte: perché il libro è breve, dice, e, incentrato com’è su un personaggio non russo (il Chadzi-Murat del titolo: dirò subito chi è), ci evita quel complicato sistema di appellativi e patronimici che rende spesso così indigesta le lettura dei russi. Ma la cosa dal suo punto di vista ha perfettamente senso, in quanto questa ridotta sovrastruttura consentirebbe di sperimentare in modo più diretto di altre opere la forza dirompente che in realtà tutta la grande letteratura russa può esercitare su di noi, invitandoci così a proseguire nel percorso con testi più sofisticati. Come spiega meglio lo stesso Nori nella postfazione a questa edizione da lui tradotta, «ecco, io ho l’impressione che Chadzi-Murat ci parli di quella cosa che ci sta succedendo, e che non succede solo nel Caucaso, ma dovunque, quella cosa della quale sentiamo parlare talmente tanto che anche il nome, conflitti razziali, o come si chiama, non ci dice più niente, è frusto, consunto, io, dicevo, ho l’impressione che Chadzi-Murat ci spieghi questa cosa (cioè ce la mostri, ce la faccia vedere) molto meglio di quanto ce la spieghino quotidianamente le opposte fazioni e i rispettivi esegeti, agiografi, critici, interpreti» (fermo restando che, trattandosi appunto di grande letteratura - russa o non -, inesauribile per vocazione, essa riuscirà comunque a spiegare qualcosa che apparterrà in modo significativo alla inimmaginabile contemporaneità del futuro, anche qualora in quel futuro i conflitti razziali dovessero essere tutti risolti).

Il vecchio Tolstoj inizia a scrivere questo romanzo breve durante una pausa nella gestazione di Resurrezione, verso la fine del secolo decimonono e della sua stessa sua vita, lavorandoci poi a lungo con continue revisioni e stesure, anche se l’episodio intorno a cui esso ruota riguarda una vicenda che lo riporta indietro di molti anni, al tempo in cui era un giovane ufficiale impegnato per conto dello zar nelle interminabili guerre caucasiche, là dove Asia ed Europa continuano tuttora ad attorcigliare nervosamente le dita delle rispettive mani l’una intorno all’altra senza riuscire a chiuderle in una vera e propria stretta. Quello è infatti un mondo estremamente complesso, frammentato in un pulviscolo di gruppi etnici parlanti lingue diverse dai nomi esotici (circassi, calmucchi, ceceni – per citarne alcuni, variamente ripartiti, a loro volta, tra ceppi turchi, mongolici e iranici) e attraversato a sua volta da profonde linee di faglia religiose oltre che tribali. Qui l’amico di ieri potrà facilmente essere il nemico di oggi e con altrettanta facilità il nuovo amico di domani, per cui conviene più che mai guardarsi prima alle spalle che di fronte, se si vuole sperare di sopravvivere.

Un personaggio come Chadzi (o Hadij) Murat (a seconda delle traslitterazioni) è esattamente il prototipo di homonculus che potrebbe essere forgiato in un siffatto crogiuolo di forze contrastanti dal bravo alchimista di storie. Tolstoj, però, non se lo inventa dal nulla. L’uomo fu effettivamente un condottiero àvaro che abbracciò il chavazat (come allora veniva chiamato il jihad) per contrastare con tutta la passione della sua fede religiosa la penetrazione russa nel Daghestan, sebbene in rapporti non particolarmente limpidi con l’imam Samil, guida suprema della resistenza musulmana nel distretto. Tant’è che, quando quest’ultimo ad un certo punto cerca di eliminarlo, Chadzi-Murat, scampato all’attentato ma ormai isolato, con una mossa spettacolare quanto spericolata si consegna agli odiatissimi russi offrendo loro il suo appoggio contro il vecchio sodale, per vendetta, ma anche per salvare la propria famiglia, rimasta in mano al nemico. Questa faida sarebbe un’ottima occasione per dare un’ulteriore giro di vite all’occupazione di terre così faticose da sottomettere, eppure i russi tergiversano, temendo il bluff - e il racconto descrive sostanzialmente questo periodo sospeso di trattative e contatti sempre molto diffidenti tra gli ufficiali russi e quello che fino a poco tempo prima era uno dei loro più pericolosi nemici, i quali non potendo dialogare fra loro, perché non parlano la stessa lingua, si soppesano in base a gesti, espressioni del volto, portamento, finché Chadzi-Murat decide che ne ha abbastanza e, approfittando delle libertà che gli sono concesse, nonostante sia formalmente un prigioniero politico, architetta una fuga per riprendere in un modo o nell’altro la sua lotta personale. Mal gliene incolse, però, dal momento che, prima di raggiungere i villaggi di montagna in cui sperava che il suo carisma potesse garantirgli ancora degli appoggi, è sorpreso da una guarnigione cosacca, da cui viene brutalmente trucidato. Tutto questo accadde all’incirca tra il 1851 e 1852. Tolstoj afferma che a rievocargli, a distanza di così tanto tempo, questa «antica storia caucasica», e a suscitargli l’intenzione di raccontarla poi tutta, in parte per come l’aveva sentita a sua volta raccontare da altri, ai tempi del servizio mlitare, in parte per come se l’è andata immaginando lui nel corso degli anni, sarebbe stata la visione di un cespuglio di lappole su cui era passata la ruota di un carro e che stava perciò «un po’ di traverso, tuttavia dritto. Come se gli avessero strappato una parte del corpo, rivoltato le interiora, staccato un braccio, cavato gli occhi. Ma lui stava dritto, e non si arrendeva all’uomo che, intorno a lui, aveva distrutto tutti i suoi fratelli. “Che energia!” pensai. “L’uomo l’ha avuta vinta su tutto, ha distrutto milioni di piante, e questo ancora non si arrende”».

Anche solo a riassumerla così, per sommi capi, una vicenda del genere ricorda l’intricato mosaico delle polveriere afghane o siriane, con tutti quei gruppi contrapposti, le cui relazioni reciproche sono così complesse da ricostruire a distanza. Per provare ad affrontare quel che accade in simili scenari occorrerebbe grande lucidità e soprattutto l’umiltà di affidarsi a chi conosce bene, e possibilmente per esperienza diretta, quei territori e quelle culture. È esattamente il contrario di quel che viene descritto in questo libro – ma anche da questo punto di vista la grande letteratura, come ai discepoli di Emmaus, svela il senso delle immagini che vediamo tutti i giorni al telegiornale. L’intenzione di Tolstoj, infatti, più che quella di celebrare una figura comunque ambigua come Chadzi-Murat, mi pare sia di offrire un apologo contro la stupidità della guerra, che corrompe e disperde le risorse anche delle persone potenzialmente migliori perché permette con troppa facilità di assecondare i capricci delle persone indiscutibilmente peggiori. Come quando al cinema o a teatro o all’opera si attende la performance dell’attore solista che compare in una sola scena ma che tiene da solo in piedi l’intero dramma, così qui si assiste, più o meno a metà del racconto, alla vera e propria irruzione sul palco nientemeno che dello zar Nicola I, totalmente avulso dal contesto in cui si era svolta e si sarebbe continuata a svolgere la trama, ma dalla cui sola volontà, per assurdo, quella trama interamente dipende. Tolstoj era del tutto consapevole che queste pagine non avrebbero superato la tagliola della censura – e vorrei ben vedere. Nicola è rappresentato come un vecchio laido e lascivo, convinto della propria assoluta superiorità intellettuale e morale e della sua assoluta centralità nel garantire l’ordine mondiale, proprio come quei leader che proclamano di poter risolvere in 24 ore tutte le crisi globali con un semplice tweet («“Già, cosa sarebbe senza di me non solo la Russia, ma l’Europa”»; e ancora: «“Evidentemente, da noi, in Russia, c’è un unico uomo onesto”»). Il problema, proprio come chi non sa più uscire dalla propria bolla social, è che «la continua, aperta, ripugnante adulazione degli uomini che lo circondavano l’aveva condotto al fatto che non vedeva ormai le proprie contraddizioni, che non conformava più le proprie azionie e le proprie parole alla realtà, alla logica e perfino al semplice buon senso, ma era pienamente convinto che tutte le sue disposizioni, per quanto fossero insensate, ingiuste e in disaccordo tra loro, diventassero sensate, e giuste, e in accordo tra loro solo perché le aveva date lui». Ebbene, quest’uomo che si compiace di condannare a dodicimila vergate uno studente malato di nervi, reo di avere aggredito un professore dopo essere stato bocciato per la seconda volta a un esame – e se ne compiace perché «grazie a Dio, la pena di morte da noi non c’è», ma sa benissimo che quella condanna porterà proprio alla morte, solo dopo tanta crudele sofferenza in più; quest’uomo che si reca in chiesa non per onorare Dio, ma per ricevere da Dio stesso, tramite i suoi servitori, saluti e onori, «perché da lui dipendeva la prosperità e la felicità di tutto il mondo, e benché egli fosse stanco di ciò, non negava tuttavia al mondo il suo contributo»; quest’uomo totalmente ignaro di quanto sta accadendo per davvero laggiù nel Caucaso, la mattina in cui gli arrivano sul tavolo i dispacci sulla questione di Chadzi-Murat «era di pessimo umore e non avrebbe accettato suggerimenti da nessuno per puro spirito di contraddizione», assecondato da quei cortigiani perfettamente consapevoli dell’insensatezza delle sue decisioni, ma per nulla disposti a mettere a repentaglio la faticosissima costruzione della loro carriera e perciò pronti ad avallare sempre e comunque «la crudele, folle e disonesta volontà imperiale».

Ci sarebbe da ridere, se non fosse per quello che ne consegue, discendendo via via l’inesorabile catena di comando. Convintosi che la trattativa aperta da Chadzi-Murat sia un segno dell’imminente crollo della linea di difesa locale, lo zar ordina infatti un altro attacco. Ma nel Caucaso, «in nessuna occasione, avevano luogo quelle battaglie corpo a corpo con le sciabole che si immaginavano e si descrivevano sempre» secondo la «raffigurazione poetica della guerra» che gli stessi soldati russi avevano in mente quando venivano spediti direttamente laggiù dall’accademia militare (pure oggi, del resto, le guerre lì si combattono abbattendo aerei di linea). Un altro attacco, nel Caucaso, significa qualcosa che in italiano abbiamo parole migliori per descrivere: saccheggio, rappresaglia, strage. Nel villaggio devastato «si diffuse un fumo acre, e in questo fumo si muovevano i soldati, trascinando fuori dalle saclie quel che trovavano e, soprattutto, catturando e sparando alle galline che i montanari non avevano fatto in tempo a portare via». Quando gli abitanti rientreranno, per contare i morti e la devastazione, «i pianti delle donne si sentivano in tutte le case e nella piazza dove erano stati portati altri due corpi. I bambini piccoli piangevano insieme alle madri. Si lamentava anche il bestiame affamato, al quale non c’era niente da dare. I bambini grandi non giocavano, ma con occhi impauriti guardavan gli adulti. La fontana era stata imbrattata, evidentemente apposta, tanto che non si poteva prenderne acqua. Era stata imbrattata anche la moschea». Esposti a questa brutale violenza - ordinata da un principe che non sa quello che sta facendo, ed eseguita da soldati che sarebbero bravi ragazzoni russi ma a cui è stato insegnato di obbedire agli ordini, e per i quali quella è l’avventura della loro giovinezza - «il sentimento che provavano tutti i ceceni, dal più piccolo al più grande, era più forte dell’odio. Non era odio, era il non riconoscere questi cani russi come uomini, e un disgusto tale, una ripugnanza e un imbarazzo di fronte alla crudeltà insensata di questi esseri, che il desiderio di sterminarli, così come il desiderio di sterminare i topi, i ragni velenosi o i lupi, era tanto naturale quanto l’istinto di conservazione». Nicola era convinto che dopo questa manifestazione di forza i ceceni avrebbero ceduto; e invece, proprio per via di quella manifestazione di forza, continueranno a combattere e a combattere e a combattere, perché sangue chiama sangue soltanto. Ed è così, finché il protervo di turno non dichiarerà che “con questi terroristi è impossibile discutere” e stabilirà per decreto che l’unica soluzione è lo sterminio. È tutto così maledettamente chiaro che ancora non siamo riusciti a capirlo.

(finito l'11 maggio 2022)

Ho parlato di


Lev Tolstoj
Chadzi-Murat
(Garzanti 2020)

trad. di P. Nori

188 pp. | 10 €

(ed. or.: Chadzi-Murat, 1912)

martedì 17 dicembre 2024

Il partigiano Johnny

Anche se non basta a placare del tutto l’imbarazzo che m’assale quando mi tocca parlare della guerra partigiana, per timore d’esser grossolano, banale o ridondante, io che un fucile non sarei capace di impugnarlo e la Resistenza l’ho praticata solo nei cortei, mi consola sapere che persino uno che partigiano lo è invece stato sul serio, come Fenoglio, e così convintamente da volere che questo titolo fosse scolpito – insieme a quello di scrittore – sulla propria tomba, si è arrovellato per tutto il resto della sua vita successiva nel tentativo di dare un significato preciso a quella «nuova parola, nuova nell’acquisizione italiana, così tremenda e splendida nell’aria dorata», in modo da sottrarla al duplice sfregio della rimozione e dell’imbalsamazione retorica, tutelandone la meritata gloria senza trascurarne le inevitabili opacità, e per farlo si è imbarcato nella stesura di questo romanzo splendidamente incompiuto, quantomai realistico eppure a tratti incredibilmente visionario, epico e tragico insieme (oserei dire biblico, alla maniera di Melville e di Milton), dinamicissimo come un film d’azione ma anche estremamente riflessivo e pieno di silenziosi campi lunghi, per avanzare nel quale, proprio come se fosse tornato a inerpicarsi ancora una volta su un’aspra riva di Langa, si è dovuto anche inventare una lingua tutta sua, ibridata di quegli anglopiemontesismi e quelle continue invenzioni espressionistiche che trovai disorientanti alla prima lettura ginnasiale ma che lo rendono un passaggio obbligato della nostra letteratura novecentesca, al di là del suo indiscutibile valore documentario (ne cito a caso alcune: l’«occhio radarico nella concreta tenebra»; la vita civile «trabocchettata ad ogni metro»; le scarpe che «tonellaggiano per il fango», il quale a sua volta è «trappolante»; un silenzio «megafonato»; la «misteriosa, femminile platitudine» osservata «con occhi da stupratori», e così via). Per Fenoglio farsi partigiano è stato il suo modo di diventare - anche fisicamente - uomo, da crisalide imberbe e irrisolta quale prima si sentiva. Ma cosa può voler dire questo per me, per noi, per quel dibattito pubblico che dovrebbe essere libero confronto di menti pensanti ma si degrada con sin troppa disinvoltura in caciara non appena approccia questi temi?

Sorpreso come tutti dall’armistizio e gettato nell’angoscia cui espone la scelta (a cui sa dare un nome grazie alle lezioni kierkegaardiane dell’amatissimo professor Chiodi), superato qualche tentennamento iniziale, Johnny parte infine «verso le somme colline» per unirsi a coloro che, da una città di fondovalle come Alba, gli erano da subito apparsi come mitologici «arcangeli». Questa ascensione laica non ha però nulla di ideologico: alla visione di quell’altro suo professore, Cocito, che pure pagherà tragicamente la sua militanza, e per il quale la vita del partigiano «è tutta e solo fatta di casi estremi», oppune da subito un’idea alternativa, sebbene sulle prime ancora nebulosa. Quando prende la sua decisione, in antitesi a tutti quelli che andranno a cercare la bella morte, avverte infatti semplicemente «com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito – nor death itself would have been divestiture – in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto». Chiarissima è in lui la consapevolezza che quelli che è più probabile che salveranno la loro pelle, perché avranno avuto il buon senso di rannicchiarsi come topi nel proprio buco ad aspettare che passi la nuttata, non potranno dire alla fine d’essere veramente sopravvissuti, per il semplice fatto che con quella fuga avranno implicitamente dimostrato che in realtà mai non fur vivi.

Nonostante queste premesse, il primo impatto con le bande partigiane non fu esattamente dei migliori. A Murazzano, Johnny si aggrega infatti a un gruppo di garibaldini, solo perché in quelli si imbatte per primi; potrebbe anche stargli bene («io sono qui per i fascisti, unicamente. Tutto il resto è cosa di dopo»), se non lo disturbasse il fatto che i morti della compagnia – e quindi lui pure, potenzialmente – vengano avvolti nella bandiera rossa e considerati ipso facto come dei morti “comunisti”, qualunque sia la loro reale posizione politica, perché i loro cadaveri possano essere fatti pesare a tranci, sul tavolo delle trattative, quando serviranno per rivendicare quote di potere, al momento della ricostruzione. È anzitutto per un sussulto d’onestà intellettuale e per una questione di «stile» che, alla prima occasione buona, Johnny si sposta perciò altrove, alla ricerca di quelli che gli somigliano di più, variamente noti come azzurri o badogliani o autonomi. A dire il vero, pure lì finisce per sentirsi «un altro uccello in questo stormo» di conservatori, in gran parte di estrazione militare, che «si sarebbero tutti dichiarati per Re Carlo nel 1681 e, due secoli dopo, si sarebbero arruolati sotto le bandiere del Dixieland»; in quel nuovo ambiente, tuttavia, trova «almeno un comune linguaggio esteriore, una comune affinità di rapporti e di sottintesi, un poterci stare insieme non soltanto nella non necessitante battaglia, ma più e principalmente nei lunghi periodi di attesa e di riposo». Sul piano strettamente operativo, non mancano le riserve. «Io in fatto di critica non scherzo», riconosce Johnny, che in un momento di sconforto di fronte all’ennesima manifestazione di pericoloso dilettantismo arriva a definire lui e i suoi compagni «un branco di marmocchi irresponsabili», forse memore delle rimostranze di mamma e papà, ai quali i partigiani ammirati dal figlio erano apparsi come degli incoscienti bambini che si erano messi in testa di giocare alla guerra contro gli imbattibili tedeschi. «I partigiani erano quelli che erano, il fiore e la feccia, come sempre succede in tutte le formazioni volontarie». Ma questo disincanto non gli fa mai perdere di vista il punto nodale: «prendiamo il più disciplinato esercito del mondo: l’inglese od il tedesco, a tua scelta. Infliggigli un 8 settembre e sparpaglialo sulle montagne. Ebbene, essi non si dimostrerebbero migliori di noi. – Possiamo dunque gridare sempre Viva Noi! – Sempre, Pierre, fino alla fine della storia umana. Se penso, se mi figuro d’aver perso quest’occasione, per paura, per comodità o per qualunque altro motivo, mi vengono i brividi freddi».

Insomma si combatte, si rischia, si attende, si uccide e si è uccisi, si assaltano convogli, si tiene duro durante i rastrellamenti, si tendono agguati, ci si perde e ci si ritrova, si realizza il maldestro colpo di mano su Alba e poi si ripiega quando si capisce che quella posizione è indifendibile – e così via, tra alti e bassi, per due lunghissimi anni di guerriglia su e giù per le coste di Langhe. Più volte si lascia intendere che «nell’immensa linea della guerra mondiale», ai partigiani è assegnato appena «qualche metro di sterile terra d’alta collina», un mondo «lillipuziano» fatto di casali, anfratti, borri e sterrati, del tutto irrilevante per le sorti di un conflitto che sarà deciso altrove. Non per nulla, durante l’interminabile, glaciale, inverno del ‘44, quando l’avanzata alleata si è ingolfata sulla linea gotica e la guerra appare come sospesa, molti prendono in parola l’ordine insensato di smobilitare dato dal generale Alexander e ritornano alla chetichella alle proprie abitazioni, sperando di non dare troppo nell’occhio. Johnny, invece, raggiunta una cresta da cui possa vedere casa sua, «pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno». Perché si tratti pure di una misera zolla di terra, finche i piedi di un partigiano vi resteranno ben piantati e quella zolla rimarrà libera, vorrà dire che la notte non avrà ancora prevalso sul mondo. Questa è appunto l’ultima tentazione a cui lo sottopone il suo personale Satana sotto forma di mugnaio carico di tutto il buon senso degli uomini di mondo: «al disgelo gli Alleati si muoveranno e allora daranno il gran colpo, quello buono. E vinceranno senza di voi. Non ti offendere, ma voi partigiani siete di gran lunga la parte meno importante in tutto il gioco, converrai con me. E allora perché crepare in attesa di una vittoria che verrà lo stesso, senza e all’infuori di voi». Ne vale davvero la pena? «Da’ retta a me, Johnny. La tua parte l’hai fatta e la tua coscienza è senz’altro a posto. Dunque smetti tutto e scendi in pianura». La risposta di Johnny non potrebbe essere più netta: «– Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dir sì. – No che non lo è! – gridò il mugnaio. – Lo è, lo è una maniera di dir di sì». E riprendendo da solo la via della collina, sferzato da un vento polare, ribadisce con orgoglio: «io sono il passero che non cascherà mai. Io sono quell’unico passero!».

Da tempo quegli stessi che stanno surretiziamente cercando di presentare l’adesione alla Repubblica Sociale come il vero atto parsifaliano di resistenza ai poteri forti della tecnica e della modernità, stanno provando a far passare anche il messaggio che i partigiani fossero tutti comunisti. Qualcuno invece era partigiano semplicemente perché non ne poteva più della meschinità, dell’ignoranza, delle chiassate e delle prepotenze fasciste – e soprattutto del tentativo di presentarle come l’autentico risveglio dello Spirito. Al cuore dell’antifascismo «integrale, assoluto, indubitabile» di Johnny-Fenoglio non c’è il progetto di trasformare il paese in una repubblica sovietica, ma una «armata, potente rivendicazione del gusto e della misura contro il tragico carnevale fascista», che dopo la roboante messinscena dell’Impero aveva assunto il volto truce e assai più veritiero dei capetti di Salò e che oggi è tristemente ricomparso nel ghigno di qualche sottosegretario a cui non par vero di poter dare una parvenza di orizzonte simbolico condiviso al suo solitario vittimismo. Che brutta sorpresa avrebbero però costoro se, potendo comparire di fronte ai loro beneamati idoli della X Mas, fattisi avanti belli contenti sventolando il tricolore e intonando l’inno di Mameli, venissero crivellati di colpi senza pietà, perché proprio quelli erano in realtà i segni di riconoscimento degli odiati nemici - che loro consideravano banditi, ma che, prima ancora che partigiani, amavano invece pensare a se stessi come patrioti, come i veri patrioti. Quanto abbiano le idee poco chiare gli attuali gerarchi lo dimostra del resto il modo in cui periodicamente si scorticano le mani per applaudire i plutocrati difensori dello Stato minimo che abitualmente invitano alle loro festicciole. Il carnevale è, insomma, ripreso in grande stile: se questi mi fanno un po’ meno schifo degli originali è solo perché, finora, hanno avuto la fortuna di fare meno danni.

(finito il 1 maggio 2022)

Ho parlato di


Beppe Fenoglio
Il partigiano Johnny
(Mondolibri 2003 su lic. Einaudi 1994)

530 pp. || ?? €

(ed. or.: 1968)


sabato 2 novembre 2024

Sulla guerra

Di guerra si può parlare in altrettanti modi quanti sono quelli attraverso cui la si può fare (anzi, il solo parlarne è spesso già esso stesso un modo subdolo per praticarla), ma pur provando ammirazione per la lucidità di quanti si ostinano a seguire con rigore il filo del ragionamento anche di fronte a massacri che parrebbero sconfessare del tutto l’autoproclamato carattere logico della nostra specie, ne provo ancor di più per chi nella guerra ci si è ritrovato immerso in prima persona, senza necessariamente averla cercata, e dalla guerra è stato costretto a rivedere giorno per giorno le proprie posizioni, impegnandosi in un corpo a corpo contro se stesso, pagato in termini di compromessi sofferti e oscillazioni, prima ancora che contro un nemico esterno ben riconoscibile nella sua divisa. A tale gruppo appartiene anche Simone Weil, le cui riflessione disperse sul tema, spesso rimaste allo stato progettuale - testimonianza di una ricerca inquieta e mai appagata -, sono state raccolte in questo intenso volume che, sebbene privo di sistematicità, tutto fa fuorché eludere i problemi e accontentarsi di soluzioni semplicistiche. É per questo che mi è sembrato opportuno rivolgermi anzitutto a lei per risciacquare i miei pensieri all’inizio di questo desolante e cruento ultimo biennio.

Va subito detto che Simone Weil è una pensatrice che non fa sconti e che non trovi mai dove t’aspetteresti che fosse. All’inizio degli anni ‘30, quando, da giovane militante di sinistra, te la immagineresti pronta a innalzare le barricate pur di fermare la marea montante del nazifascismo in Europa, invita invece alla cautela: avendo capito precocemente che cos’era diventata l’Unione Sovietica, e come lo era diventata, memore di quanto già era accaduto ai tempi di Robespierre, dichiara infatti esplicitamente che proprio chi desidera mantenere aperta la possibilità di una autentica rivoluzione deve resistere alla tentazione di intraprendere una qualsivoglia guerra, persino quando l’avversario è indifendibile e criminale. «La guerra rivoluzionaria», infatti, «è la tomba della rivoluzione». Qualunque sia l’aspetto sotto cui si presenta – fascismo, democrazia o dittatura del proletariato – il mostruoso Leviatano dello Stato moderno, con i suoi giganteschi apparati burocratici e polizieschi, non vede infatti l’ora che scoppi un nuovo conflitto per schiacciare con ancor maggior forza i suoi cittadini, sottraendo loro ogni spazio di libertà in nome dell’unico obiettivo considerato accettabile: la vittoria. In questo senso, la guerra non è dunque l’anomalia che turba la quiete sociale, ma l’occasione che smaschera il vero volto di ogni sistema di potere, «l’ingranaggio essenziale del meccanismo dell’oppressione»: «il più grande paradosso della vita moderna è il fatto che non solo nella vita civile si calpesta la dignità personale di coloro che un giorno verranno mandati a morire per la dignità nazionale, ma che proprio quando la loro vita è così sacrificata per difendere l’onore comune, vengono esposti a umiliazioni assai più dure che in precedenza». Non c’è via di scampo: quand’anche tu combattessi in nome della libertà e dell’emancipazione, dei più alti valori che l’uomo possa concepire, nel momento in cui ti proponi di difenderli manu militari, quegli stessi valori saranno proprio la prima cosa che andrà immediatamente perduta.

Eppure, nonostante queste premesse, quando poi in Spagna una guerra scoppia davvero, ritroviamo Weil arruolata fra i volontari delle brigate internazionali, perché – come dice con una frase stupenda che non mi stancherò mai di citare – «non mi piace la guerra; ma, nella guerra, ciò che mi ha sempre fatto più orrore è la condizione di chi si trova nella retrovia». Tentennare, non si può; pensare che non ci riguardi, che sia un problema d’altri, era un’ingenuità allora come lo è ancora, se non di più, oggi. Del resto, se c’è mai stata una guerra giusta e onorevole, dove i buoni e i cattivi sono chiaramente distinguibili, quella sembra proprio essere la guerra di Spagna. «Non si dirà che qualcosa al mondo ci sia più caro della vita del popolo spagnolo. Se noi invece li abbandoniamo, se li lasciamo massacrare, e poi facciamo lo stesso la guerra per un altro motivo, che cosa potrà giustificarci ai nostri propri occhi?». Con che coraggio, infatti, potremmo mai dichiarare “giusta” una qualsiasi altra guerra, se rinunciamo a combattere questa? Perchè mai dovremo morire per Danzica, se abbiamo rinunciato a morire per Madrid? Bastano però poche settimane di partecipazione diretta al conflitto per disilluderla: quella che si consuma oltre i Pirenei non è la sospirata ribellione di operai e contadini contro i loro storici oppressori, ma uno scontro per interposta persona tra Russia, Germania e Italia pieno di episodi ignominiosi su entrambi i fronti – perché poi la guerra è la guerra, e anche gli uomini più ammirevoli finiscono per farsi trascinare dalla violenza e non sanno più tremare di sacro rispetto di fronte alla morte di un altro uomo, se combatte sotto la bandiera sbagliata. Ma così anche l’antifascismo perde completamente di senso, una volta ridotto alla formula «piuttosto che il fascismo tutto, anche un fascismo travestito da comunismo».

Lo scoglio su cui si frantuma ogni idealità è che nessuno, nell’Europa del tempo, può dire di avere la coscienza pulita (e le cose non sono troppo diverse un secolo dopo). Il nazismo stesso non è che la versione, deformata quanto si vuole ma comunque ben riconoscibile a chi ha occhi per vedere, di un delirio di onnipotenza assecondato da tutti gli Stati moderni e pienamente dispiegatosi nelle dominazioni imperialistiche («la Germania è per tutti noi, gente del XX secolo, uno specchio. Ciò che noi scorgiamo là dentro di così odioso, sono i nostri stessi lineamenti, solo accentuati», anche perché una civiltà che ha sempre glorificato le grandi imprese di Roma, soprassedendo sui costi umani che esse hanno comportato, non può che approdare a un esito di questo tipo, salvo esserne terrorizzata quando ci si scopre all’improvviso dalla parte delle vittime). Lo scriveva già Kant: la libertà o è per tutti o non è vera libertà – e dopo le porcherie compiute anche solo nel 1914 e nel 1919, pretendere di rappresentare il diritto e la civiltà, la giustizia e la legge morale appare nient’altro che una «sgradevole ipocrisia» buona giusto per alimentare la grancassa propagandistica. Cos’hanno fatto la Francia e l’Inghilterra per i popoli del mondo per meritarsi che essi si battano fino alla morte affinché non vengano divorate dalle armate tedesche? Si sarebbe forse potuto cogliere una lezione dalla Grande Guerra e intraprendere volontariamente una strada di ridimensionamento, ma ormai è troppo tardi. Ora non si può far altro che prendere tempo, prolungare in modo indefinito la condizione di instabilità, navigare a vista rinunciando a qualsiasi principio in nome della «politica del giorno per giorno», aspettando che il regime nazista imploda da sé per l’impossibilità di mantenere in stato di perenne tensione un intero popolo oltre un certo limite di anni, piuttosto che dare a un «giocatore nato» come Hitler proprio quella guerra che è lui stesso il primo a volere per poter «mantenere alla temperatura del ferro incandescente» l’eccitazione dei suoi concittadini e continuare così a cavalcare l’onda lunga del suo successo. É un percorso rischiosissimo, ma lo è ancor di più aprire le ostilità e spalancare la porta alla possibilità che quel po’ di buoni frutti che la cultura occidentale ha comunque saputo coltivare nel corso della sua storia vengano totalmente divelti dalle croci uncinate.

«Questo pensiero non deve togliere nulla all’energia della lotta; al contrario» - ma questa lotta va bene indirizzata e – soprattutto – deve servirsi di strumenti adeguati. «Non è sufficiente, per lottare bene, difendere un’assenza di tirannia»; né ci si può accontentare di un ritorno allo status quo ante, o, peggio ancora, della sottomissione a un nuovo dominatore che ricorre abilmente alla retorica della democrazia per instaurare semplicemente il proprio potere sul mondo («se saremo liberati soltanto dal denaro e dalle fabbriche degli Stati Uniti, ricadremo, in una maniera o nell’altra, in un’altra servitù, uguale a quella che subiamo»). La rivelazione che la guerra cominciata con l’invasione tedesca della Polonia si manifesta a Simone Weil è che tale guerra avrà davvero un senso se e solo se verrà vissuta come un’occasione di rigenerazione e di «guarigione». Qui la riflessione politica si tinge quasi di profezia. «Hitler gioca per il male; la sua materia è la massa, la pasta. Noi giochiamo per il bene, la nostra materia è il lievito. I procedimenti devono differire di conseguenza». Detto altrimenti, non ci si può opporre al malvagio usando le sue stesse armi, attraverso un’azione uguale e contraria, solo più forte, perché in quel caso il malvagio avrebbe già vinto, imponendoci la sua stessa logica. Quel che i moderni stentano a capire è che si dà un’altra strada oltre alla resa. Si tratta, cioè, di porre al centro della vita di un popolo come di una singola persona quell’infinitamente piccolo per cui la tradizione cristiana ha impiegato le immagini del granello di senape, della perla nel campo, del lievito nella pasta o del sale nel cibo e che per Simone Weil altro non è che Dio stesso, ovvero la microscopica particella capace di incunearsi fra gli ingranaggi messi in moto dalle leggi brute della materia e farli esplodere, con la forza di un vero miracolo («ma la vita umana è fatta di miracoli»). Questa lotta è diversa dalla guerra (come diversa sarà la rivolta dalla rivoluzione per Camus, che fu tra i primi a riconoscere la grandezza della Weil). E lo è, anzitutto, perché aborrisce le astrazioni e i termini assoluti, parole vuote che servono solo a surriscaldare gli animi e a impedire di trovare soluzioni che invece sarebbero alla portata se si accetta di porsi sul piano della mediazione, nella consapevolezza che dittatura e democrazia non si danno mai allo stato puro, ma coesistono sempre in quantità diverse entro ogni regime, e che scopo della politica è appunto quello di servirsi degli spazi di libertà concessi per attaccare, di volta in volta, i grumi di oppressione ancora esistenti. Si renderebbe un servizio all’umanità, scrive Weil, se si restituisse alle menti «il buon uso di locuzioni del tipo nella misura in cui, per quanto, a condizione che, in rapporto a». Solo così, resistendo alle sirene dell’imminente apocalisse che generano un perdurante stato d’ansia e d’eccezione, si possono mettere nel mirino vittorie possibili e dare una chance al futuro. E con sorpresa finisci per scoprire che il vero radicale, in fondo, è sempre stato il riformista.

(finito il 21 aprile 2022)

Ho parlato di


Simone Weil
Sulla guerra. Scritti 1933-1943
(Rcs 2022)

trad. di D. Zazzi

collana "Filosofi del Novecento" #8

(ed. or.: testi tratti da Écrits des Londres e Écrits historiques et politiques, 1957 e 1960)

domenica 6 ottobre 2024

A margine dei meridiani

Dopotutto, con le migliaia di pagine che ha scritto, era davvero solo questione di tempo prima che mi reimbattessi di nuovo in Simenon – ma se la prima volta, tantissimi anni fa, fu per assecondare una mia curiosità personale evidentemente non rimasta troppo soddisfatta, se poi ne è seguito un così prolungato distacco, devo invece il possesso di questo libro alla porzione di mappa che, violando la tradizionale monocromia pastello delle copertine Adelphi e sposandosi con un meraviglioso titolo, ha prontamente evocato in mia moglie, quando l’ha scelto per regalarmelo, le ossessioni cartografiche a cui ormai l’ho abituata. A scanso di equivoci, va detto che qui Simenon non indossa il suo abito più noto di giallista, bensì quello di giornalista, inviato nientemeno che agli antipodi per spedire da laggiù quelle che egli stesso definisce come delle «semplici cartoline (…) senza pretese» - e sono in effetti brevi reportages, cronachette, ritratti di indigeni e altri singolari viaggiatori raccolti con la stessa curiosità con cui Darwin, un secolo prima, aveva raccolto più o meno da quelle stesse parti ossa d’armadillo e fringuelli – con cui fissare nella memoria spunti che avrebbero potuto eventualmente stimolare in seguito l’ispirazione letteraria e nel frattempo divertire i lettori dei giornali francesi, proiettandoli nel giro di poche battute in quei vastissimi spazi oceanici e polinesiani già percorsi dagli avventurieri di Stevenson e di Conrad, dove la vita scorre a tutt’altra velocità e nessuno sembra seriamente interessarsi ai prodromi sempre più minacciosi di una guerra incombente e che pure sarebbe poi stata definita “mondiale” (sono tutti testi risalenti agli anni ‘30).

Non si tratta però di puro escapismo, giacché una qualche morale, al fondo, la si trova. «Per me, vedete, il giro del mondo non è un viaggio nello spazio. Lo spazio, i fiori di loto, i banani, i coccodrilli, le latitudini e le longitudini, tutto questo non conta! Andando in giro in questo modo, si fa invece, senza volerlo, un terribile, spossante, deprimente viaggio nel tempo. In Sudamerica ho visto bestiacce terrificanti come l’Apocalisse, che vi riportano ai tempi del diluvio universale. (…) Ma non importa! Vengo al punto! Ho visto degli uomini! Tutti gli uomini da Adamo fino ai giorni nostri. E vi assicuro che è questa la cosa triste! È questa la cosa che butta giù! Forse adesso capite perché non leggo mai i telegrammi in cui si parla del signor Flandin o del signor Hitler. Gli uomini che ho visto erano uomini veri, uomini sanguigni, che combattono, che crepano senza ragione e che… (…) Noi invece ce ne andiamo a spasso per il mondo con i nostri bei completi, i cachi, i coltellini, i giornali e la radio. (…) Facciamo finta di crederci i più forti, i più furbi. (…) Ci occupiamo di politica, ma l’avrete letto, l’altro giorno, che la spagnola ha causato non so quanti morti più della guerra». Ci sono, insomma, molte più cose anche solo in terra di quante ne possa sognare la nostra fantasia euroumanisticocentrica. E se ne può avere la controprova anche senza andare necessariamente così lontano, sebbene in terre forse ancor più difficili da raggiungere, come attesta il primo pezzo di questa antologia, resoconto di un viaggio in Lapponia durante l’inverno del ‘33: qui, nell’«immensa notte del Nord» si prova una «solitudine fredda. È un mondo estraneo al nostro, un mondo preistorico», dove – chioso io – si può essere travolti dalla sensazione che, nonostante la sua maggiore ospitalità, anche il resto del mondo non sia stato fatto apposta per noi.

Chi sembra aver capito tutto sono proprio gli abitanti di Tahiti, i quali vivono come se non fossero mai usciti dall’Eden: o fanno l’amore, scrive Simenon, o non fanno niente. La loro «occupazione principale è starsene seduti sulla soglia di casa, a gambe larghe, e guardare la gente che passa. (…) Se ne infischiano di tutto e probabilmente anche di voi». Era almeno dai tempi di Gauguin che questa ostentata inerzia, unita alla loro disinvoltura sessuale, continuava a sedurre e però anche a inquietare terribilmente gli occidentali approdati su quelle coste, che nei nativi finivano per vedere se stessi come attraverso uno specchio e per enigmi. E non furono così pochi quelli che, attratti da tali sirene primordiali, decisero sul serio di gettarsi dal treno in corsa della civiltà moderna per immergersi in quella che immaginavano sarebbe potuta essere una sorta di utopia naturistica e libertaria all’altro capo del mondo. Nel più romanzesco contributo della raccolta, Simenon prova ad esempio a ricostruire la misteriosa e tragica vicenda di una squinternata colonia stabilitasi sull’isola di Floreana, alle Galapagos, e composta da improbabili personaggi che sembrano usciti da un libro di Vonnegut, tra cui una sedicente baronessa coi suoi due amanti e un chirurgo tedesco sostenitore di teorie mediche alternative a quelle di scuola. La storia finì malissimo, con morti, gente sparita nel nulla e quel tanto di torbido in grado di generare una certa risonanza sulla stampa europea dell’epoca. Simenon osserva che «da romanziere, la storia delle Galapagos, non l’avrei inventata, per paura di far sorridere i miei lettori»; poi, però, per quanto metta le mani avanti sostenendo di non voler fare «il Maigret della situazione», abbozza, forse per esigenze di contratto, una sua possibile versione dei fatti, quella che gli sembra più plausibile e che avrebbe potuto tranquillamente costituire la spina dorsale di un possibile racconto.

Nella maggior parte dei casi abbiamo però a che fare con brevi aneddoti o al massimo bozzetti, la materia ancora grezza nella quale lo scrittore di razza sa però fiutare i vissuti cui saprà eventualmente dare maggior respiro quando se ne presenterà l’occasione. Lungo queste rotte remote si muovono infatti uomini e donne così pittoreschi da essere già quasi dei prototipi di personaggi (anche se la cosa più sorprendente, a lungo andare, è che tutte queste diventano facce note, profili riconoscibili), che si tratti di trafficanti di quart’ordine, «miliardari blasé» con i loro yacht di lusso, pacchianissimi turisti yankee o – fenomeno, dati i tempi, relativamente nuovo – intere troupe cinematografiche impegnate, non si sa con quanta consapevolezza, a rappresentare l’esotico nel modo in cui ci si è convinti che l’esotico debba essere rappresentato secondo i parametri stabiliti a Hollywood, ovvero falsificando e travisando sistematicamente la realtà: «sono pressoché dei crimini, dei crimini contro la verità e persino contro la bellezza!», sbotta Simenon, che soggiorna a Tahiti quando è ancora fresco il ricordo della complicata produzione del Tabù di Friedrich Wilhelm Murnau. E non per nulla è proprio il caldo languore di Tahiti a costituire, pare, la sola eccezione alla regola che egli ha infine tratto dal suo girovagare: «viaggiare significa sempre rimanere scottati; si distruggono le proprie illusioni. Senza esagerare, forse potremmo dire che si viaggia per compilare l’elenco dei paesi in cui non si avrà più voglia di mettere piede».

Anch’io in effetti conservo nel cuore un luogo che sembra uscito proprio da uno di questi diari e dove per un verso tornerei domani mattina, ma che d’altra parte non so se vorrei veramente rivedere, per non intaccare l’immagine magica che di esso mi si è sedimentata nella memoria: intendo dire Aguas Calientes, intricatissima cittadina sorta per ragioni turistiche alle pendici di Machu Picchu, in mezzo alla giungla, dove si arriva solo in treno o in battello, aggirandomi tra i cui mercatini, per l’unica volta forse nella mia vita, ho veramente avuto la netta impressione di essere finito dentro una storia di spie. E anche se Simenon confessa di non amare molto quel genere di intrecci, non si prova forse un inevitabile moto di empatia quando, a proposito di Panama e di altri analoghi «crocevia del mondo», constatando che «non conservano a lungo la loro innocenza», sembra rimpiangere l’epoca in cui luoghi come quelli erano solo lo scenario di epici racconti d’evasione (o almeno tali sembravano) e non lo sfondo delle cronache dei reporter di guerra?

(finito il 13 aprile 2022)

Ho parlato di


Georges Simenon
A margine dei meridiani
(Adelphi 2021)

trad. di G. Girimonti Greco e F. Scala

223 pp. | 16 €

mercoledì 4 settembre 2024

Hitler

Ancora un libro su Hitler? E perché, con tutti quelli che ci sono, leggere oggi proprio questo, che non contiene nuovi documenti e non è neppure il testo di riferimento consigliato dalla comunità scientifica, ma semplicemente il frutto di un confronto fra due storici – o, come dicono loro, di «un’evasione» rispetto alle rispettive traiettorie di ricerca più che una ricostruzione biografica minuto per minuto della vita del Fuhrer? Se l’ho cominciato con la speranza, rivelatasi poi fondata, di trovarvi una sintesi convincente ancorché non semplicistica da impiegare a fini didattici, ciò che più mi ha dato da riflettere, scorrendolo, è stato tuttavia il suo carattere dichiaratamente problematico, quasi fosse un guanto di autosfida lanciato a se stessi da due studiosi che, non credendo più al principio «secondo cui le grandi figure, comprese le più cupe, fanno la storia incarnando le proprie idee nella realtà», dovrebbero perciò retrocedere l’indagine biografica su Hitler a tema «minore» rispetto all’esame delle «forze che si sprigionano dalla vertiginosa mutazione di quei sistemi economici, sociali e cognitivi che costituiscono l’Europa» tra Otto e Novecento e di cui Hitler sarebbe stato solo «un catalizzatore» o «un condensato», ma che ciò nonostante non possono fare a meno di considerare quel tema un ostacolo «insidioso e complesso», proprio perché pone invece in modo drammatico la questione dell’incidenza delle azioni di un singolo individuo sui meccanismi che mettono in movimento la storia.

Proviamo allora a ripercorrere gli anni di apprendistato di questo montanaro non particolarmente brillante, ma convinto assai presto dalla madre a interpretare la sua solitudine come sinonimo di genialità incompresa; seguiamolo mentre si perde letteralmente nella febbrile Vienna tardoasburgica, crocevia di tutte le principali avanguardie filosofiche e artistiche d’inizio secolo, di cui egli non capisce sostanzialmente nulla, perché non sarà mai altro che un mediocre pittore di bozzetti; immaginiamolo mentre stordisce i suoi compagni di dormitorio con sproloqui zeppi di luoghi comuni razzisti estrapolati da una pubblicistica di grana grossa equiparabile agli odierni editoriali dei giornali di Angelucci. «Cosa fa nelle sue giornate? Nulla o quasi». Quest’«uomo dei progetti irrealizzati» sarebbe probabilmente stato fagocitato dalla modernità incalzante e reso inoffensivo prima di poter nuocere veramente a qualcuno se nel frattempo non fosse scoppiata la Grande Guerra, che costituì «la matrice e l’orizzonte di riferimento insuperabile» per lui come per gran parte dei suoi coetanei mandati a morire nelle trincee. È infatti proprio l’esperienza della trincea, dove tutto si riduce basicamente a una questione di vita o di morte, a determinare il suo «approccio straordinariamente angosciato verso il mondo» e a convincerlo che solo una comunità compatta e coesa intorno al suo capo come un manipolo di soldati sta riunito intorno al suo ufficiale avrebbe avuto qualche chance di reggere l’urto della cospirazione globale ordita per annientare la Germania in quanto tale da quel camaleontico nemico, l’Ebreo, capace di presentarsi ora con le fattezze del rivoluzionario bolscevico, ora con quelle opposte del magnate capitalista, e le cui macchinazioni sottobanco sono l’unica possibile spiegazione razionale (per lo meno secondo i criteri razionali distorti tipici della mente complottista) all’inopinata sconfitta dell’altrimenti invincibile esercito tedesco. Nulla di tutto questo è veramente originale negli anni di Weimar, giacché il vittimismo è da sempre un collante potente fra gli sconfitti e già durante la guerra i soldati tedeschi si erano abituati a considerare la loro come «una battaglia difensiva, che protegge il territorio e la popolazione del loro paese, persino quando combattono a Verdun o nella Somme, ovvero essendo penetrati ben dentro il territorio francese» (per una beffa della storia, è il medesimo ragionamento che oggi spinge i falchi di Israele a giustificare il carnaio di Gaza). Lo stesso famosissimo putsch della birreria di Monaco, per come fu dilettantisticamente condotto, lascia pensare che, qualunque fosse l’idea che avevano di se stessi, i primi nazisti fossero solo degli sprovveduti non troppo diversi dagli sciamani che quattro anni fa hanno preso d’assalto Capitol Hill.

Eppure è questa «la loro grande fortuna», che «non vengono presi sul serio». Alla fine del 1932, quando, nonostante la travolgente avanzata elettorale, «il bilancio politico nazista è assolutamente disastroso» e perfino i leader, Hitler e Goebbels, «sono convinti di aver perso il treno della storia», sarà solo la cieca certezza nutrita dalle élites conservatrici, immemori di quanto era già accaduto con Napoleone III, di poter manipolare l’imbecille di turno a spianare a quest’ultimo la via del cancellierato. Non sembra esserci nessun disegno a lungo termine, nessuna meditata strategia nella resistibile ascesa del nazismo. Sin da quando, agli inizi della sua avventura politica, Hitler aveva minacciato di dimettersi dalla guida di un partito ancora microscopico – al punto che, se nessuno glielo avesse impedito, «sarebbe tornato alla sua marginalità» -, nella sua condotta si manifesta semplicemente «il cristallizzarsi del comportamento oltranzista, intransigente, radicale, che non fa concessioni, di un uomo che fa a braccio di ferro fino a rompersi la mano pur di non cedere», non già per titanica coerenza, ma con la stessa ottusa protervia di un bambino capriccioso (e ne conosciamo tutti a iosa di colleghi o amici che alla fine ottengono sempre quello che vogliono semplicemente perché non hai voglia di litigare con loro). Sarà più la coda di paglia di Francia e Inghilterra che non la sua lungimiranza a consentirgli di dominare le relazioni internazionali, finché una nuova guerra, dopo che la prima l’aveva tenuto a battesimo, ne farà emergere la condizione di totale alienazione. Allora, «quest’uomo che non ha mai saputo dialogare, che si è sempre chiuso in monologhi arzigogolati e torrenziali, che sa soltanto innervosirsi o esaltarsi da solo nella sua torre d’avorio, che non ha mai avuto uno scambio con gli altri, si isola sempre più dalla realtà e non accetta che essa contraddica le sue predizioni», fino alla decisione estrema di anticipare il Ragnarok per sé e per tutta la Germania, «convinto che se il Terzo Reich non poteva vincere la guerra, se il Reich millenario era irraggiungibile, almeno una morte millenaria era alla portata del suo gesto suicida: un mito della memoria che sorgesse dal ricordo di questo gesto eroico, di questa epopea razziale, di una guerra di civiltà contro il giudaismo e il bolscevismo».

E tale Hitler è per l’appunto rimasto nell’immaginario neonazista e persino in quello dei suoi avversari, personificazione a seconda dei casi di una volontà superiore o di suprema crudeltà, caso apparentemente unico e irraggiungibile, quando sarebbe invece bastato un nulla per scalzarlo via dal corso degli eventi – perché poi nella storia accade sempre così, che ciò che a posteriori appare sempre un destino inevitabile sia in realtà appeso spesso al tenuissimo filo delle circostanze. Probabilmente l’energia accumulata nel sottosuolo sociale di inizio Novecento avrebbe comunque prodotto, presto o tardi, un terremoto devastante quanto la seconda guerra mondiale, ma Hitler, di per sé, è solo una variabile tra le tante. «Contro la prefabbricazione del mito – ambizione estrema di Hitler e di Goebbels – il lavoro dello storico può aiutare a vincere un’ultima volta il nazismo. Da una parte ristabilendo la verità contro i negazionismi di ogni risma che imperversano ancor oggi tentando di negare o di minimizzare i crimini nazisti. Dall’altra smontando meticolosamente il mito nazista e mostrando fino a che punto quest’uomo non fosse onnipotente, né fosse il genio che ha preteso di essere. () É forse anche questa una delle missioni degli storici: decostruire con pazienza i miti». Non esistono insomma geni del male, ma questo è assai poco rassicurante e richiede estrema circospezione, perché vuol dire che anche il più squinternato sostenitore dell’idea che il mondo stia andando al contrario, a determinate condizioni, potrebbe essere in grado di provocare l’apocalisse.

(finito il 10 aprile 2022)

Ho parlato di


Johann Chapoutot | Christian Ingrao
Hitler
(Laterza 2021)

trad. di L. Falaschi

152 pp. | 16 €

(ed. or.: Hitler, 2018)

martedì 20 agosto 2024

Il Maestro e Margherita

Da una quantità di indizi raccolti qua e là nel corso degli anni sono giunto da tempo alla conclusione che esiste una cerchia di menti eccellenti per le quali Il Maestro e Margherita non è semplicemente il grande classico che bene o male tutti accettano che sia, ma dovrebbe senz’altro occupare un posto da titolare nel quintetto base della letteratura almeno novecentesca, se non universale, cosa che è invece meno scontata e le cui motivazioni, condivisibili o meno poi nel merito, potrebbero del tutto sfuggire a una lettura che si lasci abbindolare dai trucchi di cui il testo è disseminato e si mostri per questo incapace di riconoscere, prima ancora che di sciogliere, gli autentici enigmi di cui esso è portatore e che effettivamente, tantissimi anni fa, quando provai per la prima volta ad abbordarlo, mi mandarono totalmente fuori di testa già all’altezza del secondo capitolo. Da quel giorno più non vi lessi avante, finché non tornò a farsi irresistibile l’ambizione di riuscire anch’io ad intrufolarmi fra gli iniziati ammessi alla contemplazione di quel mistero, e quando in un raptus di follia collettiva sembrava che sugli autori russi dovesse cadere l’ostracismo occidentale mi ci sono nuovamente tuffato dentro con tutta l’apertura mentale di cui sono capace.

Confermo che anomalo, questo romanzo, lo è eccome, e spiazzante, intanto perché i due sedicenti protagonisti compaiono molto avanti nell’opera, quando quasi ti sei dimenticato che è di loro in fin dei conti che si dovrebbe parlare, e poi perché l’opera stessa, lasciando pure da parte tutte le folli invenzioni di cui trasuda, è come l’aggregato di due libri diversi costruiti l’uno dentro l’altro, accomunati dalla loro ultima riga, e rifacimento, a loro volta, di un altro libro ancora, vale a dire il Faust di Goethe. Qui Mefistofele assume le fattezze dell’eccentrico professor Woland, esperto in negromanzia, «un individuo alto due metri e passa, ma con le spalle strette, d’incredibile magrezza e dalla fisionomia, vi prego di notarlo, beffarda», il quale si materializza dal nulla nel bel mezzo di una serata primaverile presso gli stagni Patriarsie di Mosca e sin dal suo primo incontro con due malcapitati letterati comincia a seminare scompiglio e confusione, talora con conseguenze drammatiche, talora solo comiche, in quella che dovrebbe essere l’ordinatissima società sovietica di fine anni ‘20. Insediatosi nell’appartamento di una delle sue vittime con tutta la sua improbabile corte dei miracoli – tra cui giganteggia il meraviglioso Behemoth, un gattone antropomorfo che gioca a scacchi, indossa un cravattino e sorseggia amabilmente dal bicchiere, eretto sulle due zampe posteriori, generando sempre un senso di indefinito disorientamento in chi lo incontra – più che tentare apertamente il prossimo, Woland saggia di volta in volta con fare sornione le qualità morali di chi gli capita a tiro, in modo che vengano spontaneamente a galla le piccinerie immancabili in quel sottobosco assuefatto alla delazione e all’intrigo che prospera sotto la coltre apparentemente onnipervasiva della burocrazia staliniana. Del resto, in una società che dovrebbe essere totalmente pianificata, il disordine è la prima forma di eversione – e quanta non ne portano Woland e i suoi coribanti, che l’uno lasciano in mutande, l’altro trasportano all’istante a Jalta, a un altro consegnano dei soldi in valuta straniera che poi spariscono proprio sul più bello, e a un altro ancora – stupenda trasfigurazione poetica – gli fanno invece svanire il corpo mentre il vestito continua imperterrito a firmare, timbrare, protocollare tutta la documentazione che passa per il suo ufficetto, senza che gli si possa dir nulla, perché timbri, firme e protocolli stanno appunto dove devono stare, nonostante le modalità eccentriche con cui vengono prodotti («se non ci sono i documenti, non c’è nemmeno la persona», si dice a un certo punto, ma vale anche il contrario, per quanto assurdo possa sembrare). La si può quasi sentire la risata liberatoria, ma sofferta, con cui Bulgakov seppellisce da par suo tutto l’insopportabile campionario umano da cui si sentiva quotidianamente schiacciato, e in particolare la sua espressione peggiore, gli intellettuali di partito che avevano ottenuto, in cambio della loro accondiscendenza al regime, le comodità di una sovvenzione statale e soprattutto quel diritto a essere pubblicati a lui negato invece per tutta la vita proprio per questo suo libro così integralisticamente poco convenzionale e pieno di allucinate fantasmagorie.

Sua controfigura narrativa (e qui si può cominciare anche a intravedere il complicato gioco di rispecchiamenti allestito dall’autore) è colui che viene chiamato il Maestro: anche lui ha scritto un libro scomodo, anche lui è stato messo al bando dall’intellighentija zdanovista, anche lui in un primo momento ha bruciato le copie del suo scritto, dopo essere stato stroncato da censori che per screditarlo hanno fatto ricorso ad argomenti a cui in fondo non credono e che risultano tanto più spietati quanto più monta in loro la rabbia di dover prendere posizione contro chi fa quello che loro non hanno più la forza di fare. Travolto dalla disperazione, il Maestro si è autosegregato in una clinica psichiatrica, da cui potrebbe anche uscire, se lo volesse, ma per andar dove – si chiede -, se tutt’intorno regna questa viltà che costituisce il «più terribile» dei vizi e che è rimasta incisa come uno stigma sulla memoria del protagonista del suo romanzo, fulcro di tutte le sue ossessioni, il procuratore della Giudea Ponzio Pilato? Anche a lui serve un atto di coraggio per credere nel potere performativo della sua opera, e a infonderglielo è l’amore genuino della bella Margherita, che per riaverlo non esita a mettere a repentaglio la propria stessa vita. Lui vorrebbe evitarle la pericolosa marginalità a cui si sente irrimediabilmente condannato, ma «chi ama deve condividere la sorte dell’amato» e nell’ora della prova lei non si tirerà indietro; anzi, sarà proprio grazie all’intermediazione di Margherita che Woland farà riapparire il romanzo incenerito, accompagnando il prodigio con una frase - «i manoscritti non bruciano» - destinata a diventare uno slogan libertario negli anni della repressione, emblema di una possibile risurrezione laica in una terra di anime morte. «Seguimi lettore! Chi ti ha detto che al mondo non esiste l’amore vero, fedele, autentico! Che sia tagliata la lingua infame del bugiardo! Seguimi, lettore, e segui me soltanto, e io ti mostrerò un simile amore». Se non si è disposti a credere a questo, come si potrà credere che sia possibile continuare a vivere oltre i limiti del corpo, attraverso la propria arte, e che l’arte stessa possa in qualche modo chiudere i conti che la vita inevitabilmente lascia aperti (come avviene anche nei film “revisionisti” di Tarantino)?

Com’è complicato eliminare, infatti, il sospetto che tutto sia vano, e che proprio come l’amore, con tutta la sua forza, sembra sfracellarsi contro la morte, a maggior ragione la letteratura sia destinata ad affondare nel pantano dell’inutilità. Quando tutto è compiuto, «il cielo si oscurò. Quest’oscurità, giunta da occidente, coprì l’enorme città. Scomparvero i ponti, i palazzi. Tutto sparì, come se non fosse mai esistito sulla faccia della terra. Attraverso tutto il cielo corse un unico filo di fuoco. Poi la città fu scossa da un tuono». Ai moscoviti, visitati da Satana, scoppia letteralmente l’apocalisse in casa, ma poi il temporale passa «senza lasciare traccia» e tutto finisce per essere spiegato in modo prosaico, poiché in quel paese inaridito nessuno ha più gli strumenti per capire davvero quello che è successo: le porte dell’eternità per un attimo si sono spalancate di fronte a lei e la grande città è stata giudicata per quello che è, né calda né fredda. Quasi ogni cosa torna infine al suo posto, ma è appunto quel “quasi” a fare la differenza, seppure senza troppe illusioni. Curiosamente, il mite Yeoshua che tanti mal di testa provocò a Pilato e il sinistro Woland sembrano giocare la stessa partita e suggerire la stessa conclusione, tant’è che alla fine viene da chiedersi chi abbia venduto l’anima al vero demonio, se Margherita (che esulta, danzando, «come sono felice, come sono felice, come sono felice d’aver fatto un patto con lui!») o l’umanità piegata al mostruoso Leviatano e alla sua pretesa di regolamentare ogni singolo frammento d’esistenza. Diavolo d’uno scrittore – è proprio il caso di dirlo!

(finito il 9 aprile 2022)

Ho parlato di


Michail Bulgakov
Il Maestro e Margherita
(Mondolibri 2011)

Trad. di M. S. Prina

480 pp. | 5,90 €

(ed. or.: Master i Margarita, 1967)