Stanze

sabato 8 febbraio 2025

Alla fine il nulla?

Ammetto che, quando pochi giorni fa, in occasione dell’intronizzazione del secondo Trump, li ho visti schierati tutti lì in fila, a Washington, i protagonisti dell’odierno teatrino degli orrori, ho per un attimo auspicato anch’io per loro quel che il professor Barbero esclamò in una vecchia intervista a proposito di Reagan e della Thatcher, ovvero che possano anche loro bruciare per sempre all’inferno, trattenuto appena dal timore di tradire in questo modo il risentimento dello schiavo sbeffeggiato nella Genealogia della morale a partire da quel passo di Tertulliano che invita il pio cristiano a disertare circhi e teatri terreni, perché neanche lontanamente paragonabili alla straordinaria soddisfazione che sarà offerta ai redenti dallo spettacolo dell’eterno tormento dei crassi epuloni di ogni tempo, sprofondati laggiù nella morta gora dove anche Dante si prende la soddisfazione di ricacciare a pedate quel farabutto borioso di Filippo Argenti. D’altra parte, non avendo a disposizione riscontri fattuali, è giocoforza che l’aldilà ciascuno se lo immagini a suo modo, dando di volta in volta sfogo alle proprie personali aspirazioni o paranoie, che si tratti di un’insopprimibile aspirazione alla giustizia o del bisogno di riannodare prima o poi tutti i fili della sua vita. Se ci si pone in una prospettiva più specificamente teologica, l’escatologia potrebbe apparire invece come una sorta di speculazione al quadrato, ipotesi costruita su un’ipotesi, e tirarsi facilmente addosso la critica di inconsistenza metodologica: come si può infatti pretendere di costruire un discorso razionale su qualcosa di cui, per definizione, non possiamo sapere nulla? Non sarà forse più dignitoso tacere e limitarsi ad attendere, con sobrietà e pudore, che giunga la nostra ora? Paradossalmente, invece, proprio perché qui in un certo senso tutto è lecito – e perché, stringi stringi, che lo ammettiamo o no, la domanda che pensiamo di aver gettato fuori dalla porta ci sorprende continuamente alle spalle rientrando dalla finestra, inevitabile, e con altrettanto inevitabili ricadute pratiche sul concreto orientamento della nostra vita – non si vede perché impedire al teologo di continuare a rischiarare quel che la fede testimonia, per aiutare a capire almeno se valga la pena credere in quel che si dice di credere (e, prima ancora, se lo si sia capito poi per davvero, quel che si dice di credere).

In questo studio, Lohfink fa esattamente questo: rilegge l’esperienza di fede ebraica e cristiana e propone alcune chiavi che, come accade spesso con la buona teologia, aprono delle porte su altre porte che neanche ti immaginavi che ci fossero e - nel far questo - ti spingono a ristrutturare un po’ l’ordine delle idee che avevi in testa, lasciandoti più d’una volta senza fiato (non dico convinto, ma sicuramente stupito, e costretto perciò a rimuginarci su). Perno fondamentale del suo ragionamento, che già potrebbe incuriosire chi si è assuefatto a ben altro tipo di racconto, è l’insistenza sul «radicale aldiquà» che contraddistingue l’esperienza religiosa di Israele (e che forse, aggiungo io, trova una spiazzante conferma nell’ossessione per il possesso della terra dei padri da parte della destra che attualmente governa lo stato ebraico). Il mondo, lungi dall’essere uno scarto di fabbricazione, è - tutt’al contrario - la creazione amata da Dio, «il suo progetto, la sua gioia, che egli non abbandona[va] nonostante il caos provocato dagli esseri umani». Ma se questo mondo «era lo scopo di Dio», ne consegue che «la vita vera è qui, in questo mondo» e che «il posto dell’essere umano è la storia che sta accadendo ora». A differenza di quanto si sono immaginati, in vario modo, egizi e greci, «non c’è niente di naturalmente eterno nell’essere umano che salga verso le stelle», una frazione dell’essenza divina rimasta intrappolata nelle pieghe del corpo ma destinata spontaneamente a liberarsene con la sua morte per accedere alla sua autentica, e disincarnata, regione d’esistenza. «Se c’è immortalità, questa potrà essere donata soltanto da Dio». É talmente profonda questa convinzione che quando qualche ardimentoso profeta, come Ezechiele, comincia a pensare che Dio non possa rassegnarsi a vedere definitivamente perduto nell’abisso scuro dello Sheol quel che è uscito dalle sue stesse mani, non trova altro modo per esprimersi che dipingendo quella straordinaria e un po’ macabra visione di una distesa di cadaveri le cui carni e ossa riprendono letteralmente vita riagglutinandosi le une con le altre. Se la speranza riguarda solo i vivi, e se il piano di Dio è di realizzare le sue promesse in questo mondo che ha tanto amato, e non di prepararcene un altro altrove, etereo e immacolato, allora sarà Lui stesso a trovare il modo di restituire a questa vita chi nel frattempo l’ha perduta. Come ha scritto Bonhoeffer, «solo quando si amano la vita e la terra, al punto tale che sembra che con esse sia tutto perduto e finito, si può credere alla risurrezione dei morti e a un mondo nuovo». Davvero sorprendente: non è il disprezzo del mondo a proiettarci nell’eternità, ma un irrefrenabile, potente, convintissimo e testardo sì alla vita, pronunciato assai prima che venisse a insegnarcelo Zarathustra (tutto ciò che non rispecchia questa intenzione di fondo potrà essersi anche segnato con la croce, ma proviene da altre fonti e ha imbastardito l’originario messaggio biblico). Ne consegue, come corollario, che non si può essere davvero cristiani se non si è, in una certa misura, dei materialisti.

Noi ci siamo quasi riusciti a pervertirne il messaggio, interpretando il “regno di Dio” di cui parla come una semplice allusione all’aldilà, ma in effetti – e coerentemente con la tradizione ebraica testé richiamata – nella sua predicazione Gesù insiste ripetutamente sul fatto che questo regno è già silenziosamente all’opera nel mondo, impegnato a farsi largo fra le maglie della sempiterna zizzania, per preparare il terreno non già alla fuga da questa valle di lacrime, come auspicato dagli escapisti di ogni tempo, che una volta si chiamavano gnostici e ora sono miliardari ansiosi di lasciarsi alle spalle un pianeta ormai irrecuperabile, e i poveracci privi di biglietto, per andare a fondare le loro futuristiche colonie su Marte, bensì la discesa della Gerusalemme celeste sulla nostra povera terra. «La signora di Dio non vuol essere altro che condurre liberamente la creazione a diventare ciò che essa deve essere secondo Dio: un mondo di giustizia e di pace. (…) Il “mondo” della risurrezione non può essere nient’altro che il mondo in cui viviamo ora portato al suo compimento, alla sua integrità e alla sua salvezza». Per questo, «il futuro ultimo della storia non sarà la catastrofe, non sarà neppure il paradiso degli inizi, ma una nuova società che ha attraversato difficoltà, caos e persecuzione». La Pasqua è per il cristiano la prova che è di questo mondo, e solo di questo mondo che importa qualcosa a Dio – e gli importa talmente tanto da promettercene la conservazione, come testimonia la scandalosa concretezza dei racconti di incontro con il Risorto, che porta sul suo corpo trasfigurato i segni tangibili dell’amore donato. Ispirandosi proprio a questa esperienza fondativa della prima comunità cristiana, Lohfink arriva a formulare come «legge fondamentale della risurrezione» che «può risorgere solo ciò che è divenuto nella storia di vita della singola persona. Proprio per questo, la storia di ogni persona, ogni giorno e ogni ora della vita di un essere umano, ha un significato che in modo diretto e profondo riguarda l’eternità». Detto altrimenti, «la risurrezione significa che ogni momento, che un uomo ha vissuto, viene portato dentro la vita eterna con Dio. (…) Niente di ciò che di positivo proviene dalla lunga storia dell’umanità va perduto. L’intera cultura, l’intera scienza del mondo, tutto ciò che gli uomini hanno pensato, desiderato e acquisito, viene messo al sicuro in questa città» che si sta preparando, giorno dopo giorno, attraverso i nostri piccoli gesti d’amore quotidiano. Persino per i miei libri, forse, ci sarà un qualche spazio in paradiso. Insomma, altro che pitocco intontito dalla “ninna nanna del cielo” (come la chiamava suggestivamente Heine): chi crede nella risurrezione cristiana può «investire le proprie energie nella costruzione di una società giusta, perché il mondo della risurrezione è la forma definitiva che Dio donerà proprio a quel mondo per il quale noi lottiamo qui in questa storia». La speranza cristiana consiste proprio nello sperare contro ogni evidenza fisica che quell’amore distribuito e diffuso non si consumi nello spazio di un giorno, ma sia salvato per sempre. E dunque abbandonarsi con fiducia alla morte, quando verrà, perché tutto ciò che di buono c’è stato, ci sarà ancora – che è ben diverso dal ricercare la morte perché non se ne può più di questo mondo (se odiamo questo mondo, dove potremo mai andare, infatti, quando Dio lo restaurerà?).

A vederla così, molte prospettive si ribaltano e cambia anche il modo di intendere il nostro rapporto con i defunti. Mi limito a un esempio. Posto che ormai abbiamo interiorizzato l’idea che il “cielo” non coincide con una regione fisica sovratmosferica - perché lo spazio, come lo intendiamo noi, è appunto una modalità di percezione condizionata dalla nostra natura creaturale – cosa ci trattiene dal trarre analoghe conseguenze anche con il tempo, quando peraltro la stessa fisica contemporanea ci invita a non considerare reale la rappresentazione ingenua che ne abbiamo? In altre parole, e tornando al caso nostro, perché pensare che il tempo continui a scorrere, come per noi, anche per i morti, i quali dovrebbero perciò attendere milioni di anni prima di rivestirsi dei loro corpi e accedere alla gloria? Lohfink insiste ripetutamente sul fatto che la risurrezione non avviene “dopo” la morte (così come non c’è un “prima” rispetto al Big Bang), ma “nella” morte, senza dilazione alcuna. É “nella” morte che incontreremo Dio, e – posti di fronte alla sua santità - «i nostri occhi si apriranno su noi stessi»: «tutto viene manifestato. Tutto viene in luce» e «conosceremo chi siamo. Noi stessi giudicheremo e condanneremo il male che è in noi» e assaporeremo «la gioia piena di stupore per il bene che c’è stato nella propria vita e nella vita degli altri». In un istante che non è più un istante tutti i secoli si riavvolgeranno e faremo i conti non solo con la nostra storia, ma anche con la storia degli effetti che la nostra vita avrà prodotto, ovvero con le conseguenze delle nostre azioni, generative o distruttive. Questo processo costituirà per tutti una forma di purificazione, che comporta una sofferenza analoga a quella che può provare, già qui in terra, chiunque abbia deciso di cambiare vita e si trova per questo a fare i conti con i propri precedenti fallimenti, ma questa sorta di “purgatorio” «è un evento, non un luogo» e «non si compie più nel tempo terreno». «Il sopraggiungere della morte rende definitive tutte le decisioni compiute dalla libertà durante la vita che in quel momento si chiude; la morte non permette né revisioni né conversioni, neppure “nel caso limite”. Solo in questo modo sono riconosciuti l’importanza della storia e il valore dell’esistenza storica. (…). É qui, in questa vita, che si prendono le decisioni». E se c’è qualche persona, «la cui opzione fondamentale fosse rivolta a cercare solo sé stesso, chiudendosi a ogni altra cosa, Dio dovrebbe abbandonarlo a sé, al suo ripiegamento su di sé. Dio non può infatti sopraffarlo né tanto meno violentarlo. Un uomo così, alla fine, davvero non avrebbe nient’altro che sé stesso – e proprio questo sarebbe l’inferno», una «possibilità terribile» che non può e non deve essere sostituita con l’idea di «una riconciliazione universale» che, per quanto sia nell’auspicio di Dio, non è affatto scontata.

Stando così le cose, la vera preghiera di intercessione non è tanto l’offerta burocratica della messa di suffragio, ma l’impegno a cercare di risolvere tutto l’irrisolto che il defunto ha lasciato in vita, ricomponendo per quanto possibile i cocci che lui ha disperso, perché non sarà una pena supplementare, a purificarlo, nell’aldilà, ma – di nuovo – è quel che avviene di qua a determinare il giudizio definitivo sulla sua vita. Ed è anche per questo che testimonio volentieri pubblicamente la ricchezza del contributo di cui vi ho parlato, perché al suo estensore, morto da circa un anno, possa essere accreditato come giustizia nell’eternità già raggiunta.

(finito il 9 giugno 2022)

Ho parlato di


Gerhard Lohfink
Alla fine il nulla? 
Sulla risurrezione e sulla vita eterna
(Queriniana 2020)

trad. di V. Maraldi

288 p. | 34 €

(ed. or.: Am Ende das Nichts? Uber Auferstehung und Ewiges Leben, Freiburg im Breisgau 2017)

domenica 5 gennaio 2025

Chadzi-Murat

Non è Anna Karenina, non è Guerra e Pace, e a dirla tutta non è neppure La sonata a Kreutzer o La morte di Ivan Ilic, ma è proprio il suo carattere defilato nell’immensa produzione tolstojana (eufemismo per mascherare il fatto che non ne avessi mai sentito parlare prima) ad aver reso terribilmente invitante il suggerimento di Paolo Nori, secondo cui questo sarebbe invece un testo perfetto da cui prendere le mosse se ci si volesse accostare per la prima volta alla letteratura russa. Addirittura: e che ci sarà mai di così interessante? Trattandosi di Nori, la cui naiveté rende talvolta difficile capire dove cominci la garbata presa in giro, non manca il sospetto che si possa trattare di un dotto pesce d’aprile, tanto più se si considerano le motivazioni addotte: perché il libro è breve, dice, e, incentrato com’è su un personaggio non russo (il Chadzi-Murat del titolo: dirò subito chi è), ci evita quel complicato sistema di appellativi e patronimici che rende spesso così indigesta le lettura dei russi. Ma la cosa dal suo punto di vista ha perfettamente senso, in quanto questa ridotta sovrastruttura consentirebbe di sperimentare in modo più diretto di altre opere la forza dirompente che in realtà tutta la grande letteratura russa può esercitare su di noi, invitandoci così a proseguire nel percorso con testi più sofisticati. Come spiega meglio lo stesso Nori nella postfazione a questa edizione da lui tradotta, «ecco, io ho l’impressione che Chadzi-Murat ci parli di quella cosa che ci sta succedendo, e che non succede solo nel Caucaso, ma dovunque, quella cosa della quale sentiamo parlare talmente tanto che anche il nome, conflitti razziali, o come si chiama, non ci dice più niente, è frusto, consunto, io, dicevo, ho l’impressione che Chadzi-Murat ci spieghi questa cosa (cioè ce la mostri, ce la faccia vedere) molto meglio di quanto ce la spieghino quotidianamente le opposte fazioni e i rispettivi esegeti, agiografi, critici, interpreti» (fermo restando che, trattandosi appunto di grande letteratura - russa o non -, inesauribile per vocazione, essa riuscirà comunque a spiegare qualcosa che apparterrà in modo significativo alla inimmaginabile contemporaneità del futuro, anche qualora in quel futuro i conflitti razziali dovessero essere tutti risolti).

Il vecchio Tolstoj inizia a scrivere questo romanzo breve durante una pausa nella gestazione di Resurrezione, verso la fine del secolo decimonono e della sua stessa sua vita, lavorandoci poi a lungo con continue revisioni e stesure, anche se l’episodio intorno a cui esso ruota riguarda una vicenda che lo riporta indietro di molti anni, al tempo in cui era un giovane ufficiale impegnato per conto dello zar nelle interminabili guerre caucasiche, là dove Asia ed Europa continuano tuttora ad attorcigliare nervosamente le dita delle rispettive mani l’una intorno all’altra senza riuscire a chiuderle in una vera e propria stretta. Quello è infatti un mondo estremamente complesso, frammentato in un pulviscolo di gruppi etnici parlanti lingue diverse dai nomi esotici (circassi, calmucchi, ceceni – per citarne alcuni, variamente ripartiti, a loro volta, tra ceppi turchi, mongolici e iranici) e attraversato a sua volta da profonde linee di faglia religiose oltre che tribali. Qui l’amico di ieri potrà facilmente essere il nemico di oggi e con altrettanta facilità il nuovo amico di domani, per cui conviene più che mai guardarsi prima alle spalle che di fronte, se si vuole sperare di sopravvivere.

Un personaggio come Chadzi (o Hadij) Murat (a seconda delle traslitterazioni) è esattamente il prototipo di homonculus che potrebbe essere forgiato in un siffatto crogiuolo di forze contrastanti dal bravo alchimista di storie. Tolstoj, però, non se lo inventa dal nulla. L’uomo fu effettivamente un condottiero àvaro che abbracciò il chavazat (come allora veniva chiamato il jihad) per contrastare con tutta la passione della sua fede religiosa la penetrazione russa nel Daghestan, sebbene in rapporti non particolarmente limpidi con l’imam Samil, guida suprema della resistenza musulmana nel distretto. Tant’è che, quando quest’ultimo ad un certo punto cerca di eliminarlo, Chadzi-Murat, scampato all’attentato ma ormai isolato, con una mossa spettacolare quanto spericolata si consegna agli odiatissimi russi offrendo loro il suo appoggio contro il vecchio sodale, per vendetta, ma anche per salvare la propria famiglia, rimasta in mano al nemico. Questa faida sarebbe un’ottima occasione per dare un’ulteriore giro di vite all’occupazione di terre così faticose da sottomettere, eppure i russi tergiversano, temendo il bluff - e il racconto descrive sostanzialmente questo periodo sospeso di trattative e contatti sempre molto diffidenti tra gli ufficiali russi e quello che fino a poco tempo prima era uno dei loro più pericolosi nemici, i quali non potendo dialogare fra loro, perché non parlano la stessa lingua, si soppesano in base a gesti, espressioni del volto, portamento, finché Chadzi-Murat decide che ne ha abbastanza e, approfittando delle libertà che gli sono concesse, nonostante sia formalmente un prigioniero politico, architetta una fuga per riprendere in un modo o nell’altro la sua lotta personale. Mal gliene incolse, però, dal momento che, prima di raggiungere i villaggi di montagna in cui sperava che il suo carisma potesse garantirgli ancora degli appoggi, è sorpreso da una guarnigione cosacca, da cui viene brutalmente trucidato. Tutto questo accadde all’incirca tra il 1851 e 1852. Tolstoj afferma che a rievocargli, a distanza di così tanto tempo, questa «antica storia caucasica», e a suscitargli l’intenzione di raccontarla poi tutta, in parte per come l’aveva sentita a sua volta raccontare da altri, ai tempi del servizio mlitare, in parte per come se l’è andata immaginando lui nel corso degli anni, sarebbe stata la visione di un cespuglio di lappole su cui era passata la ruota di un carro e che stava perciò «un po’ di traverso, tuttavia dritto. Come se gli avessero strappato una parte del corpo, rivoltato le interiora, staccato un braccio, cavato gli occhi. Ma lui stava dritto, e non si arrendeva all’uomo che, intorno a lui, aveva distrutto tutti i suoi fratelli. “Che energia!” pensai. “L’uomo l’ha avuta vinta su tutto, ha distrutto milioni di piante, e questo ancora non si arrende”».

Anche solo a riassumerla così, per sommi capi, una vicenda del genere ricorda l’intricato mosaico delle polveriere afghane o siriane, con tutti quei gruppi contrapposti, le cui relazioni reciproche sono così complesse da ricostruire a distanza. Per provare ad affrontare quel che accade in simili scenari occorrerebbe grande lucidità e soprattutto l’umiltà di affidarsi a chi conosce bene, e possibilmente per esperienza diretta, quei territori e quelle culture. È esattamente il contrario di quel che viene descritto in questo libro – ma anche da questo punto di vista la grande letteratura, come ai discepoli di Emmaus, svela il senso delle immagini che vediamo tutti i giorni al telegiornale. L’intenzione di Tolstoj, infatti, più che quella di celebrare una figura comunque ambigua come Chadzi-Murat, mi pare sia di offrire un apologo contro la stupidità della guerra, che corrompe e disperde le risorse anche delle persone potenzialmente migliori perché permette con troppa facilità di assecondare i capricci delle persone indiscutibilmente peggiori. Come quando al cinema o a teatro o all’opera si attende la performance dell’attore solista che compare in una sola scena ma che tiene da solo in piedi l’intero dramma, così qui si assiste, più o meno a metà del racconto, alla vera e propria irruzione sul palco nientemeno che dello zar Nicola I, totalmente avulso dal contesto in cui si era svolta e si sarebbe continuata a svolgere la trama, ma dalla cui sola volontà, per assurdo, quella trama interamente dipende. Tolstoj era del tutto consapevole che queste pagine non avrebbero superato la tagliola della censura – e vorrei ben vedere. Nicola è rappresentato come un vecchio laido e lascivo, convinto della propria assoluta superiorità intellettuale e morale e della sua assoluta centralità nel garantire l’ordine mondiale, proprio come quei leader che proclamano di poter risolvere in 24 ore tutte le crisi globali con un semplice tweet («“Già, cosa sarebbe senza di me non solo la Russia, ma l’Europa”»; e ancora: «“Evidentemente, da noi, in Russia, c’è un unico uomo onesto”»). Il problema, proprio come chi non sa più uscire dalla propria bolla social, è che «la continua, aperta, ripugnante adulazione degli uomini che lo circondavano l’aveva condotto al fatto che non vedeva ormai le proprie contraddizioni, che non conformava più le proprie azionie e le proprie parole alla realtà, alla logica e perfino al semplice buon senso, ma era pienamente convinto che tutte le sue disposizioni, per quanto fossero insensate, ingiuste e in disaccordo tra loro, diventassero sensate, e giuste, e in accordo tra loro solo perché le aveva date lui». Ebbene, quest’uomo che si compiace di condannare a dodicimila vergate uno studente malato di nervi, reo di avere aggredito un professore dopo essere stato bocciato per la seconda volta a un esame – e se ne compiace perché «grazie a Dio, la pena di morte da noi non c’è», ma sa benissimo che quella condanna porterà proprio alla morte, solo dopo tanta crudele sofferenza in più; quest’uomo che si reca in chiesa non per onorare Dio, ma per ricevere da Dio stesso, tramite i suoi servitori, saluti e onori, «perché da lui dipendeva la prosperità e la felicità di tutto il mondo, e benché egli fosse stanco di ciò, non negava tuttavia al mondo il suo contributo»; quest’uomo totalmente ignaro di quanto sta accadendo per davvero laggiù nel Caucaso, la mattina in cui gli arrivano sul tavolo i dispacci sulla questione di Chadzi-Murat «era di pessimo umore e non avrebbe accettato suggerimenti da nessuno per puro spirito di contraddizione», assecondato da quei cortigiani perfettamente consapevoli dell’insensatezza delle sue decisioni, ma per nulla disposti a mettere a repentaglio la faticosissima costruzione della loro carriera e perciò pronti ad avallare sempre e comunque «la crudele, folle e disonesta volontà imperiale».

Ci sarebbe da ridere, se non fosse per quello che ne consegue, discendendo via via l’inesorabile catena di comando. Convintosi che la trattativa aperta da Chadzi-Murat sia un segno dell’imminente crollo della linea di difesa locale, lo zar ordina infatti un altro attacco. Ma nel Caucaso, «in nessuna occasione, avevano luogo quelle battaglie corpo a corpo con le sciabole che si immaginavano e si descrivevano sempre» secondo la «raffigurazione poetica della guerra» che gli stessi soldati russi avevano in mente quando venivano spediti direttamente laggiù dall’accademia militare (pure oggi, del resto, le guerre lì si combattono abbattendo aerei di linea). Un altro attacco, nel Caucaso, significa qualcosa che in italiano abbiamo parole migliori per descrivere: saccheggio, rappresaglia, strage. Nel villaggio devastato «si diffuse un fumo acre, e in questo fumo si muovevano i soldati, trascinando fuori dalle saclie quel che trovavano e, soprattutto, catturando e sparando alle galline che i montanari non avevano fatto in tempo a portare via». Quando gli abitanti rientreranno, per contare i morti e la devastazione, «i pianti delle donne si sentivano in tutte le case e nella piazza dove erano stati portati altri due corpi. I bambini piccoli piangevano insieme alle madri. Si lamentava anche il bestiame affamato, al quale non c’era niente da dare. I bambini grandi non giocavano, ma con occhi impauriti guardavan gli adulti. La fontana era stata imbrattata, evidentemente apposta, tanto che non si poteva prenderne acqua. Era stata imbrattata anche la moschea». Esposti a questa brutale violenza - ordinata da un principe che non sa quello che sta facendo, ed eseguita da soldati che sarebbero bravi ragazzoni russi ma a cui è stato insegnato di obbedire agli ordini, e per i quali quella è l’avventura della loro giovinezza - «il sentimento che provavano tutti i ceceni, dal più piccolo al più grande, era più forte dell’odio. Non era odio, era il non riconoscere questi cani russi come uomini, e un disgusto tale, una ripugnanza e un imbarazzo di fronte alla crudeltà insensata di questi esseri, che il desiderio di sterminarli, così come il desiderio di sterminare i topi, i ragni velenosi o i lupi, era tanto naturale quanto l’istinto di conservazione». Nicola era convinto che dopo questa manifestazione di forza i ceceni avrebbero ceduto; e invece, proprio per via di quella manifestazione di forza, continueranno a combattere e a combattere e a combattere, perché sangue chiama sangue soltanto. Ed è così, finché il protervo di turno non dichiarerà che “con questi terroristi è impossibile discutere” e stabilirà per decreto che l’unica soluzione è lo sterminio. È tutto così maledettamente chiaro che ancora non siamo riusciti a capirlo.

(finito l'11 maggio 2022)

Ho parlato di


Lev Tolstoj
Chadzi-Murat
(Garzanti 2020)

trad. di P. Nori

188 pp. | 10 €

(ed. or.: Chadzi-Murat, 1912)