Stanze

sabato 8 febbraio 2025

Alla fine il nulla?

Ammetto che, quando pochi giorni fa, in occasione dell’intronizzazione del secondo Trump, li ho visti schierati tutti lì in fila, a Washington, i protagonisti dell’odierno teatrino degli orrori, ho per un attimo auspicato anch’io per loro quel che il professor Barbero esclamò in una vecchia intervista a proposito di Reagan e della Thatcher, ovvero che possano anche loro bruciare per sempre all’inferno, trattenuto appena dal timore di tradire in questo modo il risentimento dello schiavo sbeffeggiato nella Genealogia della morale a partire da quel passo di Tertulliano che invita il pio cristiano a disertare circhi e teatri terreni, perché neanche lontanamente paragonabili alla straordinaria soddisfazione che sarà offerta ai redenti dallo spettacolo dell’eterno tormento dei crassi epuloni di ogni tempo, sprofondati laggiù nella morta gora dove anche Dante si prende la soddisfazione di ricacciare a pedate quel farabutto borioso di Filippo Argenti. D’altra parte, non avendo a disposizione riscontri fattuali, è giocoforza che l’aldilà ciascuno se lo immagini a suo modo, dando di volta in volta sfogo alle proprie personali aspirazioni o paranoie, che si tratti di un’insopprimibile aspirazione alla giustizia o del bisogno di riannodare prima o poi tutti i fili della sua vita. Se ci si pone in una prospettiva più specificamente teologica, l’escatologia potrebbe apparire invece come una sorta di speculazione al quadrato, ipotesi costruita su un’ipotesi, e tirarsi facilmente addosso la critica di inconsistenza metodologica: come si può infatti pretendere di costruire un discorso razionale su qualcosa di cui, per definizione, non possiamo sapere nulla? Non sarà forse più dignitoso tacere e limitarsi ad attendere, con sobrietà e pudore, che giunga la nostra ora? Paradossalmente, invece, proprio perché qui in un certo senso tutto è lecito – e perché, stringi stringi, che lo ammettiamo o no, la domanda che pensiamo di aver gettato fuori dalla porta ci sorprende continuamente alle spalle rientrando dalla finestra, inevitabile, e con altrettanto inevitabili ricadute pratiche sul concreto orientamento della nostra vita – non si vede perché impedire al teologo di continuare a rischiarare quel che la fede testimonia, per aiutare a capire almeno se valga la pena credere in quel che si dice di credere (e, prima ancora, se lo si sia capito poi per davvero, quel che si dice di credere).

In questo studio, Lohfink fa esattamente questo: rilegge l’esperienza di fede ebraica e cristiana e propone alcune chiavi che, come accade spesso con la buona teologia, aprono delle porte su altre porte che neanche ti immaginavi che ci fossero e - nel far questo - ti spingono a ristrutturare un po’ l’ordine delle idee che avevi in testa, lasciandoti più d’una volta senza fiato (non dico convinto, ma sicuramente stupito, e costretto perciò a rimuginarci su). Perno fondamentale del suo ragionamento, che già potrebbe incuriosire chi si è assuefatto a ben altro tipo di racconto, è l’insistenza sul «radicale aldiquà» che contraddistingue l’esperienza religiosa di Israele (e che forse, aggiungo io, trova una spiazzante conferma nell’ossessione per il possesso della terra dei padri da parte della destra che attualmente governa lo stato ebraico). Il mondo, lungi dall’essere uno scarto di fabbricazione, è - tutt’al contrario - la creazione amata da Dio, «il suo progetto, la sua gioia, che egli non abbandona[va] nonostante il caos provocato dagli esseri umani». Ma se questo mondo «era lo scopo di Dio», ne consegue che «la vita vera è qui, in questo mondo» e che «il posto dell’essere umano è la storia che sta accadendo ora». A differenza di quanto si sono immaginati, in vario modo, egizi e greci, «non c’è niente di naturalmente eterno nell’essere umano che salga verso le stelle», una frazione dell’essenza divina rimasta intrappolata nelle pieghe del corpo ma destinata spontaneamente a liberarsene con la sua morte per accedere alla sua autentica, e disincarnata, regione d’esistenza. «Se c’è immortalità, questa potrà essere donata soltanto da Dio». É talmente profonda questa convinzione che quando qualche ardimentoso profeta, come Ezechiele, comincia a pensare che Dio non possa rassegnarsi a vedere definitivamente perduto nell’abisso scuro dello Sheol quel che è uscito dalle sue stesse mani, non trova altro modo per esprimersi che dipingendo quella straordinaria e un po’ macabra visione di una distesa di cadaveri le cui carni e ossa riprendono letteralmente vita riagglutinandosi le une con le altre. Se la speranza riguarda solo i vivi, e se il piano di Dio è di realizzare le sue promesse in questo mondo che ha tanto amato, e non di prepararcene un altro altrove, etereo e immacolato, allora sarà Lui stesso a trovare il modo di restituire a questa vita chi nel frattempo l’ha perduta. Come ha scritto Bonhoeffer, «solo quando si amano la vita e la terra, al punto tale che sembra che con esse sia tutto perduto e finito, si può credere alla risurrezione dei morti e a un mondo nuovo». Davvero sorprendente: non è il disprezzo del mondo a proiettarci nell’eternità, ma un irrefrenabile, potente, convintissimo e testardo sì alla vita, pronunciato assai prima che venisse a insegnarcelo Zarathustra (tutto ciò che non rispecchia questa intenzione di fondo potrà essersi anche segnato con la croce, ma proviene da altre fonti e ha imbastardito l’originario messaggio biblico). Ne consegue, come corollario, che non si può essere davvero cristiani se non si è, in una certa misura, dei materialisti.

Noi ci siamo quasi riusciti a pervertirne il messaggio, interpretando il “regno di Dio” di cui parla come una semplice allusione all’aldilà, ma in effetti – e coerentemente con la tradizione ebraica testé richiamata – nella sua predicazione Gesù insiste ripetutamente sul fatto che questo regno è già silenziosamente all’opera nel mondo, impegnato a farsi largo fra le maglie della sempiterna zizzania, per preparare il terreno non già alla fuga da questa valle di lacrime, come auspicato dagli escapisti di ogni tempo, che una volta si chiamavano gnostici e ora sono miliardari ansiosi di lasciarsi alle spalle un pianeta ormai irrecuperabile, e i poveracci privi di biglietto, per andare a fondare le loro futuristiche colonie su Marte, bensì la discesa della Gerusalemme celeste sulla nostra povera terra. «La signora di Dio non vuol essere altro che condurre liberamente la creazione a diventare ciò che essa deve essere secondo Dio: un mondo di giustizia e di pace. (…) Il “mondo” della risurrezione non può essere nient’altro che il mondo in cui viviamo ora portato al suo compimento, alla sua integrità e alla sua salvezza». Per questo, «il futuro ultimo della storia non sarà la catastrofe, non sarà neppure il paradiso degli inizi, ma una nuova società che ha attraversato difficoltà, caos e persecuzione». La Pasqua è per il cristiano la prova che è di questo mondo, e solo di questo mondo che importa qualcosa a Dio – e gli importa talmente tanto da promettercene la conservazione, come testimonia la scandalosa concretezza dei racconti di incontro con il Risorto, che porta sul suo corpo trasfigurato i segni tangibili dell’amore donato. Ispirandosi proprio a questa esperienza fondativa della prima comunità cristiana, Lohfink arriva a formulare come «legge fondamentale della risurrezione» che «può risorgere solo ciò che è divenuto nella storia di vita della singola persona. Proprio per questo, la storia di ogni persona, ogni giorno e ogni ora della vita di un essere umano, ha un significato che in modo diretto e profondo riguarda l’eternità». Detto altrimenti, «la risurrezione significa che ogni momento, che un uomo ha vissuto, viene portato dentro la vita eterna con Dio. (…) Niente di ciò che di positivo proviene dalla lunga storia dell’umanità va perduto. L’intera cultura, l’intera scienza del mondo, tutto ciò che gli uomini hanno pensato, desiderato e acquisito, viene messo al sicuro in questa città» che si sta preparando, giorno dopo giorno, attraverso i nostri piccoli gesti d’amore quotidiano. Persino per i miei libri, forse, ci sarà un qualche spazio in paradiso. Insomma, altro che pitocco intontito dalla “ninna nanna del cielo” (come la chiamava suggestivamente Heine): chi crede nella risurrezione cristiana può «investire le proprie energie nella costruzione di una società giusta, perché il mondo della risurrezione è la forma definitiva che Dio donerà proprio a quel mondo per il quale noi lottiamo qui in questa storia». La speranza cristiana consiste proprio nello sperare contro ogni evidenza fisica che quell’amore distribuito e diffuso non si consumi nello spazio di un giorno, ma sia salvato per sempre. E dunque abbandonarsi con fiducia alla morte, quando verrà, perché tutto ciò che di buono c’è stato, ci sarà ancora – che è ben diverso dal ricercare la morte perché non se ne può più di questo mondo (se odiamo questo mondo, dove potremo mai andare, infatti, quando Dio lo restaurerà?).

A vederla così, molte prospettive si ribaltano e cambia anche il modo di intendere il nostro rapporto con i defunti. Mi limito a un esempio. Posto che ormai abbiamo interiorizzato l’idea che il “cielo” non coincide con una regione fisica sovratmosferica - perché lo spazio, come lo intendiamo noi, è appunto una modalità di percezione condizionata dalla nostra natura creaturale – cosa ci trattiene dal trarre analoghe conseguenze anche con il tempo, quando peraltro la stessa fisica contemporanea ci invita a non considerare reale la rappresentazione ingenua che ne abbiamo? In altre parole, e tornando al caso nostro, perché pensare che il tempo continui a scorrere, come per noi, anche per i morti, i quali dovrebbero perciò attendere milioni di anni prima di rivestirsi dei loro corpi e accedere alla gloria? Lohfink insiste ripetutamente sul fatto che la risurrezione non avviene “dopo” la morte (così come non c’è un “prima” rispetto al Big Bang), ma “nella” morte, senza dilazione alcuna. É “nella” morte che incontreremo Dio, e – posti di fronte alla sua santità - «i nostri occhi si apriranno su noi stessi»: «tutto viene manifestato. Tutto viene in luce» e «conosceremo chi siamo. Noi stessi giudicheremo e condanneremo il male che è in noi» e assaporeremo «la gioia piena di stupore per il bene che c’è stato nella propria vita e nella vita degli altri». In un istante che non è più un istante tutti i secoli si riavvolgeranno e faremo i conti non solo con la nostra storia, ma anche con la storia degli effetti che la nostra vita avrà prodotto, ovvero con le conseguenze delle nostre azioni, generative o distruttive. Questo processo costituirà per tutti una forma di purificazione, che comporta una sofferenza analoga a quella che può provare, già qui in terra, chiunque abbia deciso di cambiare vita e si trova per questo a fare i conti con i propri precedenti fallimenti, ma questa sorta di “purgatorio” «è un evento, non un luogo» e «non si compie più nel tempo terreno». «Il sopraggiungere della morte rende definitive tutte le decisioni compiute dalla libertà durante la vita che in quel momento si chiude; la morte non permette né revisioni né conversioni, neppure “nel caso limite”. Solo in questo modo sono riconosciuti l’importanza della storia e il valore dell’esistenza storica. (…). É qui, in questa vita, che si prendono le decisioni». E se c’è qualche persona, «la cui opzione fondamentale fosse rivolta a cercare solo sé stesso, chiudendosi a ogni altra cosa, Dio dovrebbe abbandonarlo a sé, al suo ripiegamento su di sé. Dio non può infatti sopraffarlo né tanto meno violentarlo. Un uomo così, alla fine, davvero non avrebbe nient’altro che sé stesso – e proprio questo sarebbe l’inferno», una «possibilità terribile» che non può e non deve essere sostituita con l’idea di «una riconciliazione universale» che, per quanto sia nell’auspicio di Dio, non è affatto scontata.

Stando così le cose, la vera preghiera di intercessione non è tanto l’offerta burocratica della messa di suffragio, ma l’impegno a cercare di risolvere tutto l’irrisolto che il defunto ha lasciato in vita, ricomponendo per quanto possibile i cocci che lui ha disperso, perché non sarà una pena supplementare, a purificarlo, nell’aldilà, ma – di nuovo – è quel che avviene di qua a determinare il giudizio definitivo sulla sua vita. Ed è anche per questo che testimonio volentieri pubblicamente la ricchezza del contributo di cui vi ho parlato, perché al suo estensore, morto da circa un anno, possa essere accreditato come giustizia nell’eternità già raggiunta.

(finito il 9 giugno 2022)

Ho parlato di


Gerhard Lohfink
Alla fine il nulla? 
Sulla risurrezione e sulla vita eterna
(Queriniana 2020)

trad. di V. Maraldi

288 p. | 34 €

(ed. or.: Am Ende das Nichts? Uber Auferstehung und Ewiges Leben, Freiburg im Breisgau 2017)

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