Da una quantità di indizi raccolti qua e là nel corso degli anni sono giunto da tempo alla conclusione che esiste una cerchia di menti eccellenti per le quali Il Maestro e Margherita non è semplicemente il grande classico che bene o male tutti accettano che sia, ma dovrebbe senz’altro occupare un posto da titolare nel quintetto base della letteratura almeno novecentesca, se non universale, cosa che è invece meno scontata e le cui motivazioni, condivisibili o meno poi nel merito, potrebbero del tutto sfuggire a una lettura che si lasci abbindolare dai trucchi di cui il testo è disseminato e si mostri per questo incapace di riconoscere, prima ancora che di sciogliere, gli autentici enigmi di cui esso è portatore e che effettivamente, tantissimi anni fa, quando provai per la prima volta ad abbordarlo, mi mandarono totalmente fuori di testa già all’altezza del secondo capitolo. Da quel giorno più non vi lessi avante, finché non tornò a farsi irresistibile l’ambizione di riuscire anch’io ad intrufolarmi fra gli iniziati ammessi alla contemplazione di quel mistero, e quando in un raptus di follia collettiva sembrava che sugli autori russi dovesse cadere l’ostracismo occidentale mi ci sono nuovamente tuffato dentro con tutta l’apertura mentale di cui sono capace.
Confermo che anomalo, questo romanzo, lo è eccome, e spiazzante, intanto perché i due sedicenti protagonisti compaiono molto avanti nell’opera, quando quasi ti sei dimenticato che è di loro in fin dei conti che si dovrebbe parlare, e poi perché l’opera stessa, lasciando pure da parte tutte le folli invenzioni di cui trasuda, è come l’aggregato di due libri diversi costruiti l’uno dentro l’altro, accomunati dalla loro ultima riga, e rifacimento, a loro volta, di un altro libro ancora, vale a dire il Faust di Goethe. Qui Mefistofele assume le fattezze dell’eccentrico professor Woland, esperto in negromanzia, «un individuo alto due metri e passa, ma con le spalle strette, d’incredibile magrezza e dalla fisionomia, vi prego di notarlo, beffarda», il quale si materializza dal nulla nel bel mezzo di una serata primaverile presso gli stagni Patriarsie di Mosca e sin dal suo primo incontro con due malcapitati letterati comincia a seminare scompiglio e confusione, talora con conseguenze drammatiche, talora solo comiche, in quella che dovrebbe essere l’ordinatissima società sovietica di fine anni ‘20. Insediatosi nell’appartamento di una delle sue vittime con tutta la sua improbabile corte dei miracoli – tra cui giganteggia il meraviglioso Behemoth, un gattone antropomorfo che gioca a scacchi, indossa un cravattino e sorseggia amabilmente dal bicchiere, eretto sulle due zampe posteriori, generando sempre un senso di indefinito disorientamento in chi lo incontra – più che tentare apertamente il prossimo, Woland saggia di volta in volta con fare sornione le qualità morali di chi gli capita a tiro, in modo che vengano spontaneamente a galla le piccinerie immancabili in quel sottobosco assuefatto alla delazione e all’intrigo che prospera sotto la coltre apparentemente onnipervasiva della burocrazia staliniana. Del resto, in una società che dovrebbe essere totalmente pianificata, il disordine è la prima forma di eversione – e quanta non ne portano Woland e i suoi coribanti, che l’uno lasciano in mutande, l’altro trasportano all’istante a Jalta, a un altro consegnano dei soldi in valuta straniera che poi spariscono proprio sul più bello, e a un altro ancora – stupenda trasfigurazione poetica – gli fanno invece svanire il corpo mentre il vestito continua imperterrito a firmare, timbrare, protocollare tutta la documentazione che passa per il suo ufficetto, senza che gli si possa dir nulla, perché timbri, firme e protocolli stanno appunto dove devono stare, nonostante le modalità eccentriche con cui vengono prodotti («se non ci sono i documenti, non c’è nemmeno la persona», si dice a un certo punto, ma vale anche il contrario, per quanto assurdo possa sembrare). La si può quasi sentire la risata liberatoria, ma sofferta, con cui Bulgakov seppellisce da par suo tutto l’insopportabile campionario umano da cui si sentiva quotidianamente schiacciato, e in particolare la sua espressione peggiore, gli intellettuali di partito che avevano ottenuto, in cambio della loro accondiscendenza al regime, le comodità di una sovvenzione statale e soprattutto quel diritto a essere pubblicati a lui negato invece per tutta la vita proprio per questo suo libro così integralisticamente poco convenzionale e pieno di allucinate fantasmagorie.
Sua controfigura narrativa (e qui si può cominciare anche a intravedere il complicato gioco di rispecchiamenti allestito dall’autore) è colui che viene chiamato il Maestro: anche lui ha scritto un libro scomodo, anche lui è stato messo al bando dall’intellighentija zdanovista, anche lui in un primo momento ha bruciato le copie del suo scritto, dopo essere stato stroncato da censori che per screditarlo hanno fatto ricorso ad argomenti a cui in fondo non credono e che risultano tanto più spietati quanto più monta in loro la rabbia di dover prendere posizione contro chi fa quello che loro non hanno più la forza di fare. Travolto dalla disperazione, il Maestro si è autosegregato in una clinica psichiatrica, da cui potrebbe anche uscire, se lo volesse, ma per andar dove – si chiede -, se tutt’intorno regna questa viltà che costituisce il «più terribile» dei vizi e che è rimasta incisa come uno stigma sulla memoria del protagonista del suo romanzo, fulcro di tutte le sue ossessioni, il procuratore della Giudea Ponzio Pilato? Anche a lui serve un atto di coraggio per credere nel potere performativo della sua opera, e a infonderglielo è l’amore genuino della bella Margherita, che per riaverlo non esita a mettere a repentaglio la propria stessa vita. Lui vorrebbe evitarle la pericolosa marginalità a cui si sente irrimediabilmente condannato, ma «chi ama deve condividere la sorte dell’amato» e nell’ora della prova lei non si tirerà indietro; anzi, sarà proprio grazie all’intermediazione di Margherita che Woland farà riapparire il romanzo incenerito, accompagnando il prodigio con una frase - «i manoscritti non bruciano» - destinata a diventare uno slogan libertario negli anni della repressione, emblema di una possibile risurrezione laica in una terra di anime morte. «Seguimi lettore! Chi ti ha detto che al mondo non esiste l’amore vero, fedele, autentico! Che sia tagliata la lingua infame del bugiardo! Seguimi, lettore, e segui me soltanto, e io ti mostrerò un simile amore». Se non si è disposti a credere a questo, come si potrà credere che sia possibile continuare a vivere oltre i limiti del corpo, attraverso la propria arte, e che l’arte stessa possa in qualche modo chiudere i conti che la vita inevitabilmente lascia aperti (come avviene anche nei film “revisionisti” di Tarantino)?
Com’è complicato eliminare, infatti, il sospetto che tutto sia vano, e che proprio come l’amore, con tutta la sua forza, sembra sfracellarsi contro la morte, a maggior ragione la letteratura sia destinata ad affondare nel pantano dell’inutilità. Quando tutto è compiuto, «il cielo si oscurò. Quest’oscurità, giunta da occidente, coprì l’enorme città. Scomparvero i ponti, i palazzi. Tutto sparì, come se non fosse mai esistito sulla faccia della terra. Attraverso tutto il cielo corse un unico filo di fuoco. Poi la città fu scossa da un tuono». Ai moscoviti, visitati da Satana, scoppia letteralmente l’apocalisse in casa, ma poi il temporale passa «senza lasciare traccia» e tutto finisce per essere spiegato in modo prosaico, poiché in quel paese inaridito nessuno ha più gli strumenti per capire davvero quello che è successo: le porte dell’eternità per un attimo si sono spalancate di fronte a lei e la grande città è stata giudicata per quello che è, né calda né fredda. Quasi ogni cosa torna infine al suo posto, ma è appunto quel “quasi” a fare la differenza, seppure senza troppe illusioni. Curiosamente, il mite Yeoshua che tanti mal di testa provocò a Pilato e il sinistro Woland sembrano giocare la stessa partita e suggerire la stessa conclusione, tant’è che alla fine viene da chiedersi chi abbia venduto l’anima al vero demonio, se Margherita (che esulta, danzando, «come sono felice, come sono felice, come sono felice d’aver fatto un patto con lui!») o l’umanità piegata al mostruoso Leviatano e alla sua pretesa di regolamentare ogni singolo frammento d’esistenza. Diavolo d’uno scrittore – è proprio il caso di dirlo!
(finito il 9 aprile 2022)
Ho parlato di
Il Maestro e Margherita
(Mondolibri 2011)
Trad. di M. S. Prina
480 pp. | 5,90 €
(ed. or.: Master i Margarita, 1967)
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