Stanze

sabato 2 novembre 2024

Sulla guerra

Di guerra si può parlare in altrettanti modi quanti sono quelli attraverso cui la si può fare (anzi, il solo parlarne è spesso già esso stesso un modo subdolo per praticarla), ma pur provando ammirazione per la lucidità di quanti si ostinano a seguire con rigore il filo del ragionamento anche di fronte a massacri che parrebbero sconfessare del tutto l’autoproclamato carattere logico della nostra specie, ne provo ancor di più per chi nella guerra ci si è ritrovato immerso in prima persona, senza necessariamente averla cercata, e dalla guerra è stato costretto a rivedere giorno per giorno le proprie posizioni, impegnandosi in un corpo a corpo contro se stesso, pagato in termini di compromessi sofferti e oscillazioni, prima ancora che contro un nemico esterno ben riconoscibile nella sua divisa. A tale gruppo appartiene anche Simone Weil, le cui riflessione disperse sul tema, spesso rimaste allo stato progettuale - testimonianza di una ricerca inquieta e mai appagata -, sono state raccolte in questo intenso volume che, sebbene privo di sistematicità, tutto fa fuorché eludere i problemi e accontentarsi di soluzioni semplicistiche. É per questo che mi è sembrato opportuno rivolgermi anzitutto a lei per risciacquare i miei pensieri all’inizio di questo desolante e cruento ultimo biennio.

Va subito detto che Simone Weil è una pensatrice che non fa sconti e che non trovi mai dove t’aspetteresti che fosse. All’inizio degli anni ‘30, quando, da giovane militante di sinistra, te la immagineresti pronta a innalzare le barricate pur di fermare la marea montante del nazifascismo in Europa, invita invece alla cautela: avendo capito precocemente che cos’era diventata l’Unione Sovietica, e come lo era diventata, memore di quanto già era accaduto ai tempi di Robespierre, dichiara infatti esplicitamente che proprio chi desidera mantenere aperta la possibilità di una autentica rivoluzione deve resistere alla tentazione di intraprendere una qualsivoglia guerra, persino quando l’avversario è indifendibile e criminale. «La guerra rivoluzionaria», infatti, «è la tomba della rivoluzione». Qualunque sia l’aspetto sotto cui si presenta – fascismo, democrazia o dittatura del proletariato – il mostruoso Leviatano dello Stato moderno, con i suoi giganteschi apparati burocratici e polizieschi, non vede infatti l’ora che scoppi un nuovo conflitto per schiacciare con ancor maggior forza i suoi cittadini, sottraendo loro ogni spazio di libertà in nome dell’unico obiettivo considerato accettabile: la vittoria. In questo senso, la guerra non è dunque l’anomalia che turba la quiete sociale, ma l’occasione che smaschera il vero volto di ogni sistema di potere, «l’ingranaggio essenziale del meccanismo dell’oppressione»: «il più grande paradosso della vita moderna è il fatto che non solo nella vita civile si calpesta la dignità personale di coloro che un giorno verranno mandati a morire per la dignità nazionale, ma che proprio quando la loro vita è così sacrificata per difendere l’onore comune, vengono esposti a umiliazioni assai più dure che in precedenza». Non c’è via di scampo: quand’anche tu combattessi in nome della libertà e dell’emancipazione, dei più alti valori che l’uomo possa concepire, nel momento in cui ti proponi di difenderli manu militari, quegli stessi valori saranno proprio la prima cosa che andrà immediatamente perduta.

Eppure, nonostante queste premesse, quando poi in Spagna una guerra scoppia davvero, ritroviamo Weil arruolata fra i volontari delle brigate internazionali, perché – come dice con una frase stupenda che non mi stancherò mai di citare – «non mi piace la guerra; ma, nella guerra, ciò che mi ha sempre fatto più orrore è la condizione di chi si trova nella retrovia». Tentennare, non si può; pensare che non ci riguardi, che sia un problema d’altri, era un’ingenuità allora come lo è ancora, se non di più, oggi. Del resto, se c’è mai stata una guerra giusta e onorevole, dove i buoni e i cattivi sono chiaramente distinguibili, quella sembra proprio essere la guerra di Spagna. «Non si dirà che qualcosa al mondo ci sia più caro della vita del popolo spagnolo. Se noi invece li abbandoniamo, se li lasciamo massacrare, e poi facciamo lo stesso la guerra per un altro motivo, che cosa potrà giustificarci ai nostri propri occhi?». Con che coraggio, infatti, potremmo mai dichiarare “giusta” una qualsiasi altra guerra, se rinunciamo a combattere questa? Perchè mai dovremo morire per Danzica, se abbiamo rinunciato a morire per Madrid? Bastano però poche settimane di partecipazione diretta al conflitto per disilluderla: quella che si consuma oltre i Pirenei non è la sospirata ribellione di operai e contadini contro i loro storici oppressori, ma uno scontro per interposta persona tra Russia, Germania e Italia pieno di episodi ignominiosi su entrambi i fronti – perché poi la guerra è la guerra, e anche gli uomini più ammirevoli finiscono per farsi trascinare dalla violenza e non sanno più tremare di sacro rispetto di fronte alla morte di un altro uomo, se combatte sotto la bandiera sbagliata. Ma così anche l’antifascismo perde completamente di senso, una volta ridotto alla formula «piuttosto che il fascismo tutto, anche un fascismo travestito da comunismo».

Lo scoglio su cui si frantuma ogni idealità è che nessuno, nell’Europa del tempo, può dire di avere la coscienza pulita (e le cose non sono troppo diverse un secolo dopo). Il nazismo stesso non è che la versione, deformata quanto si vuole ma comunque ben riconoscibile a chi ha occhi per vedere, di un delirio di onnipotenza assecondato da tutti gli Stati moderni e pienamente dispiegatosi nelle dominazioni imperialistiche («la Germania è per tutti noi, gente del XX secolo, uno specchio. Ciò che noi scorgiamo là dentro di così odioso, sono i nostri stessi lineamenti, solo accentuati», anche perché una civiltà che ha sempre glorificato le grandi imprese di Roma, soprassedendo sui costi umani che esse hanno comportato, non può che approdare a un esito di questo tipo, salvo esserne terrorizzata quando ci si scopre all’improvviso dalla parte delle vittime). Lo scriveva già Kant: la libertà o è per tutti o non è vera libertà – e dopo le porcherie compiute anche solo nel 1914 e nel 1919, pretendere di rappresentare il diritto e la civiltà, la giustizia e la legge morale appare nient’altro che una «sgradevole ipocrisia» buona giusto per alimentare la grancassa propagandistica. Cos’hanno fatto la Francia e l’Inghilterra per i popoli del mondo per meritarsi che essi si battano fino alla morte affinché non vengano divorate dalle armate tedesche? Si sarebbe forse potuto cogliere una lezione dalla Grande Guerra e intraprendere volontariamente una strada di ridimensionamento, ma ormai è troppo tardi. Ora non si può far altro che prendere tempo, prolungare in modo indefinito la condizione di instabilità, navigare a vista rinunciando a qualsiasi principio in nome della «politica del giorno per giorno», aspettando che il regime nazista imploda da sé per l’impossibilità di mantenere in stato di perenne tensione un intero popolo oltre un certo limite di anni, piuttosto che dare a un «giocatore nato» come Hitler proprio quella guerra che è lui stesso il primo a volere per poter «mantenere alla temperatura del ferro incandescente» l’eccitazione dei suoi concittadini e continuare così a cavalcare l’onda lunga del suo successo. É un percorso rischiosissimo, ma lo è ancor di più aprire le ostilità e spalancare la porta alla possibilità che quel po’ di buoni frutti che la cultura occidentale ha comunque saputo coltivare nel corso della sua storia vengano totalmente divelti dalle croci uncinate.

«Questo pensiero non deve togliere nulla all’energia della lotta; al contrario» - ma questa lotta va bene indirizzata e – soprattutto – deve servirsi di strumenti adeguati. «Non è sufficiente, per lottare bene, difendere un’assenza di tirannia»; né ci si può accontentare di un ritorno allo status quo ante, o, peggio ancora, della sottomissione a un nuovo dominatore che ricorre abilmente alla retorica della democrazia per instaurare semplicemente il proprio potere sul mondo («se saremo liberati soltanto dal denaro e dalle fabbriche degli Stati Uniti, ricadremo, in una maniera o nell’altra, in un’altra servitù, uguale a quella che subiamo»). La rivelazione che la guerra cominciata con l’invasione tedesca della Polonia si manifesta a Simone Weil è che tale guerra avrà davvero un senso se e solo se verrà vissuta come un’occasione di rigenerazione e di «guarigione». Qui la riflessione politica si tinge quasi di profezia. «Hitler gioca per il male; la sua materia è la massa, la pasta. Noi giochiamo per il bene, la nostra materia è il lievito. I procedimenti devono differire di conseguenza». Detto altrimenti, non ci si può opporre al malvagio usando le sue stesse armi, attraverso un’azione uguale e contraria, solo più forte, perché in quel caso il malvagio avrebbe già vinto, imponendoci la sua stessa logica. Quel che i moderni stentano a capire è che si dà un’altra strada oltre alla resa. Si tratta, cioè, di porre al centro della vita di un popolo come di una singola persona quell’infinitamente piccolo per cui la tradizione cristiana ha impiegato le immagini del granello di senape, della perla nel campo, del lievito nella pasta o del sale nel cibo e che per Simone Weil altro non è che Dio stesso, ovvero la microscopica particella capace di incunearsi fra gli ingranaggi messi in moto dalle leggi brute della materia e farli esplodere, con la forza di un vero miracolo («ma la vita umana è fatta di miracoli»). Questa lotta è diversa dalla guerra (come diversa sarà la rivolta dalla rivoluzione per Camus, che fu tra i primi a riconoscere la grandezza della Weil). E lo è, anzitutto, perché aborrisce le astrazioni e i termini assoluti, parole vuote che servono solo a surriscaldare gli animi e a impedire di trovare soluzioni che invece sarebbero alla portata se si accetta di porsi sul piano della mediazione, nella consapevolezza che dittatura e democrazia non si danno mai allo stato puro, ma coesistono sempre in quantità diverse entro ogni regime, e che scopo della politica è appunto quello di servirsi degli spazi di libertà concessi per attaccare, di volta in volta, i grumi di oppressione ancora esistenti. Si renderebbe un servizio all’umanità, scrive Weil, se si restituisse alle menti «il buon uso di locuzioni del tipo nella misura in cui, per quanto, a condizione che, in rapporto a». Solo così, resistendo alle sirene dell’imminente apocalisse che generano un perdurante stato d’ansia e d’eccezione, si possono mettere nel mirino vittorie possibili e dare una chance al futuro. E con sorpresa finisci per scoprire che il vero radicale, in fondo, è sempre stato il riformista.

(finito il 21 aprile 2022)

Ho parlato di


Simone Weil
Sulla guerra. Scritti 1933-1943
(Rcs 2022)

trad. di D. Zazzi

collana "Filosofi del Novecento" #8

(ed. or.: testi tratti da Écrits des Londres e Écrits historiques et politiques, 1957 e 1960)