Stanze

lunedì 22 gennaio 2024

Come ordinare una biblioteca

A quanti ci osservano con la stessa divertita curiosità che dedicherebbero a qualche buffa bestiolina, quando scoprono che siamo in grado di riconoscere al primo sguardo se c’è un volume fuori posto nella nostra libreria, soprattutto se tale discutibile talento s’accompagna ad eccentricità socialmente più rilevanti, come (per dirne solo una, realmente accaduta) il presentarsi in un ufficio pubblico con la maglietta girata al contrario, dovremmo avere una buona volta il coraggio di rispondere con le stesse parole con cui aprì questo suo aureo libretto – fra gli ultimissimi dati alle stampe in vita, quasi un testamento spirituale – uno che sapeva perfettamente quel che diceva poiché affetto dalla nostra stessa malattia: «come ordinare la propria biblioteca è un tema altamente metafisico» (stia dunque alla larga chi s’aspettasse banali consigli di biblioteconomia domestica). Questo non aumenterebbe probabilmente la nostra credibilità fra gli uomini di mondo, ma sarebbe una dichiarazione indubbiamente più sincera delle maldestre scuse spesso abbozzate per mascherare l’imbarazzo. Perchè sì, che ci crediate o no, quando disponiamo i nostri libri l’uno accanto all’altro, stiamo davvero provando a mettere in ordine l’universo. Concettualmente diversa da un semplice magazzino o da un deposito di merci, l’autentica biblioteca assomiglia piuttosto a quello che il mappamondo rappresenta per il globo terrestre, un principio di organizzazione – e proprio per questo dovrebbe sempre essere a scaffale aperto, poiché, anche solo aggirandosi tra queste foreste di simboli e scorrendo le coste dei singoli tomi si possono finire per scoprire le corrispondenze segrete che tengono insieme tutto ciò che c’è.

Lo aveva capito benissimo Aby Warburg, teorico della regola aurea del «buon vicino (…), secondo cui nella biblioteca perfetta, quando si cerca un certo libro, si finisce per prendere quello che gli sta accanto e che si rivelerà essere ancora più utile di quello che cercavamo». Calasso ricorda di aver sperimentato personalmente la giustezza di questa regola quando ebbe modo di frequentare la biblioteca di Warburg a Londra per lavorare alla sua tesi sui geroglifici di Sir Thomas Browne; per parte mia, non posso trattenere un fremito di pura riconoscenza verso la vita per avermi dato l’occasione di sperimentare una gioia analoga, al tempo del dottorato, quando bazzicai anch’io le stesse stanze cercando una chiave per entrare nella testa dei miei medici rinascimentali. Quella biblioteca - e mettiamoci pure quella del Wellcome College, lì vicino - sono state per me vere e proprie baie delle Sirene in cui avrei potuto naufragare dolcemente per l’eternità (e non per nulla, nei miei sogni, il paradiso appare spesso come un’immensa biblioteca). Warburg, peraltro «non si stancava mai di spostare libri e poi spostarli di nuovo. Ogni passo avanti nel suo sistema di pensiero, ogni nuova idea sulla interrelazione dei fatti lo induceva a raggruppare in altro modo i libri che vi erano coinvolti. Sobrie parole che invitano a rassegnarsi una volta per tutte: l’ordinamento di una biblioteca non troverà mai – anzi non dovrebbe trovare mai – una soluzione. Semplicemente perché una biblioteca è un organismo in perenne movimento. É terreno vulcanico, dove sempre qualcosa sta succedendo, anche se non percepibile dall’esterno».

Si annida qui una verità che non si può capire se si intende la lettura in termini di puro consumo e che permette a mio avviso di pronosticare ancora lunga vita ai libri cartacei – a differenza, per esempio, di quanto accade coi supporti materiali audiovisivi, che cambiano di continuo – e questo non solo perché con il papiro e l’ebook puoi fare molte cose (come leggere questo libro), ma non puoi farne moltissime altre («sfogliare un libro, leggere il risvolto, far cadere l’occhio su una pagina a caso, tenere il libro in mano e considerarlo come un oggetto, attraente o urtante»). Sebbene, infatti, non siano in origine pezzi unici come le opere d’arte, in quanto riproducibili in fase di stampa, una loro effettiva unicità i libri poi la guadagnano davvero, col tempo, entrando a far parte di quel personalissimo vissuto di cui la biblioteca personale registra, per così dire, le stratificazioni e i movimenti, proprio come se fosse un’estensione di te, che cresce con te, popolandosi via via di ciò che ti ha segnato o che reputavi importante e lasciando fuori ciò che non ritenevi invece meritevole di attenzione o che hai pensato non ti interessasse più (per questo «una biblioteca dovrebbe fondarsi su larghe esclusioni»: riflesso della vita, essa è sempre una selezione, così come quella è fatta di scelte). E poiché siamo creature distese nel tempo, una vera biblioteca non si limita a inquadrare l’esistente, ma esprime anche una promessa, un messaggio in bottiglia lanciato a se stessi da epoche diverse. «Essenziale è comprare molti libri che non si leggono subito. Poi, a distanza di un anno, o di due anni, o di cinque, dieci, venti, trenta, quaranta, potrà venire il momento in cui si penserà di aver bisogno esattamente di quel libro – e magari lo si troverà in uno scaffale poco frequentato della propria biblioteca. (…) L’importante è che ora si possa leggere subito. Senza ulteriori ricerche, senza provare a trovarlo in biblioteca. Operazioni laboriose, che conculcano l’estro del momento. Strana sensazione, quando si apre quel libro. Da una parte il sospetto di aver anticipato, senza saperlo, la propria vita (…). Dall’altra un senso di frustrazione, come se non fossimo capaci di riconoscere ciò che ci riguarda se non con un grande ritardo. (…) Oggi l’informatica ha ridotto enormemente i tempi dell’attesa e della ricerca di un libro. (…) Ma questo nulla toglie all’incanto di trovarsi fra le mani – immediatamente – un libro di cui non si sapeva di aver bisogno sino a un momento prima. Il gesto decisivo rimane quello di aver acquisito qualcosa, un giorno, pensando che il suo uso era soltanto ipotetico».

Se invece quel libro lo si è già aperto, bisognerebbe sempre potervi ritrovare segni dei propri precedenti passaggi. «Molto raro è il caso di libri che abbia letto e siano rimasti tali e quali, senza alcun segno a matita. Non aggiungere a un libro tracce della lettura è una prova di indifferenza. (…) E a partire dalle annotazioni su un libro svanito dalla memoria si può anche ritrovare quel certo passo che risulterà indispensabile “vent’anni dopo”». É di questi ghirigori e marginalia che il pensiero si nutre avidamente, costruendo continue connessioni ipertestuali con l’ausilio di strumenti apparentemente desueti come un lapis (così cominciò, più o meno, anche Montaigne, costeggiando lateralmente gli storici, e ne vennero fuori gli Essais). In fondo, «l’intrecciarsi delle letture nello stesso cervello è una versione impalpabile di quelle reti neuronali che fanno disperare gli scienziati»: «ogni lettore vero segue un filo (che siano cento fili o un filo solo è indifferente). Ogni volta che apre un libro riprende in mano quel filo e lo complica, imbroglia, scioglie, annoda, allunga». Per questo non è affatto la stessa cosa leggere un libro prima o poi e per questo soppesare quale libro cominciare, quale sia il libro da leggere proprio in questo momento, è sempre un’istanza cruciale. Se, dunque, è certamente una biblioteca quella che si estende nello spazio, lungo le pareti e i corridoi, non lo sarà di meno quella che si dispiega secondo l’ordine del tempo, nella quale la successione delle letture costituisce l’equivalente dell’affiancamento di un libro all’altro sui ripiani. É questo, dopotutto, il motivo per cui mi ostino a seguire con disciplina la regola che mi sono dato, anche se sconto ormai un ritardo di due anni sulla tabella di marcia, perché quelle che qui raccolgo non sono in realtà recensioni ma le coordinate della mappamente della mia vita.

(finito il 30 dicembre 2021)

Ho parlato di


Roberto Calasso
Come ordinare una biblioteca
(Adelphi 2020)

127 pp. | 14 €

domenica 14 gennaio 2024

Il giro del mondo in sei milioni di anni

Anche se su scala geologica siamo poveri parvenus, rispetto per esempio ai coccodrilli, nel corso dei millenni abbiamo comunque macinato sufficiente terreno da non essere poi più stati in grado di riconoscerci come parenti, quando alfine ci siamo reincontrati. Già Agostino escludeva l’abitabilità e quindi l’esistenza stessa degli antipodi sulla base del fatto che gli pareva impossibile che dei figli di Adamo si fossero potuti avventurare nell’Oceano grande e terribile in tempi tanto remoti, per poi dimenticarselo, quando neppure all’apogeo dell’Impero Romano v’erano a disposizione i mezzi tecnici per farlo. E invece, del tutto controintuitivamente, le cose pare siano andate proprio così. É pur vero che, fino a 8 mila anni fa, in tempi di glaciazioni e di arretramento delle acque, oltre che in assenza di dogane e confini minati, la Terra era più facilmente percorribile di quanto non lo sia ora. Ciò non toglie, tuttavia, che, per esempio, tra Sunda e Sahul, ovvero tra la piattaforma continentale che sorregge l’attuale Indonesia occidentale e quella su cui poggiano Australia, Papua e Tasmania (per intenderci, ciò che sta al di qua e ciò che sta al di là della linea di Wallace), restasse comunque «un bel po’ di mare: almeno 90 km. Per un potenziale viaggiatore questo avrebbe voluto dire mettersi in acqua senza riuscire a vedere, se non a viaggio già iniziato, la propria destinazione. Sulla base delle informazioni archeologiche di cui disponiamo sappiamo anche che, con tutta probabilità, le imbarcazioni utilizzate da questi migranti non avevano vele ed erano simili alle attuali canoe. Questa carenza di mezzi adatti alla navigazione in alto mare rende ancora più stupefacente la conquista dell’Oceania da parte della nostra specie in tempi così remoti». Insomma: Colombo, scansati pure.

Si dirà che parliamo comunque già di Sapiens e quei loro grandi cervelli, che sono poi sostanzialmente i nostri, a qualcosa dovevano pur servire. Ma questa storia di dispersione globale comincia in realtà assai prima, praticamente da che Homo è Homo – ossia da molto più tempo, anche se non proprio da sei milioni di anni, perché quella è solo la data approssimativa di quando è cominciata la divaricazione tra i nostri più antichi progenitori e quelli degli odierni scimpanzè a partire dall’ultimo antenato comune, ed è assodato che il bipedismo obbligato non fu una conquista immediata, tant’è che la piccola Lucy, la più celebre australopiteca, pare proprio sia morta cadendo da un ramo su cui continuava pur sempre a cercare rifugio la notte. Tanto basta, comunque, per riconoscere all’uomo la qualità di specie mobile per eccellenza. Come suggerisce l’antropologo Marco Aime, qui citato, «oggi si fa un gran parlare di radici e dei diritti che deriverebbero dall’averle in un posto e non nell’altro, ma basta abbassare gli occhi (…) per rendersi conto che in fondo alle gambe non abbiamo radici, ma piedi: piedi che servono per andare in giro e di cui ci serviamo dall’alba dei tempi per il colossale viaggio in cui l’umanità è impegnata fin da quando ha mosso i primi, timidi passi sul suolo, con arti ancora poco adatti a camminare, con un cervello piccolo e poca forza muscolare, ma spinta a procedere da due caratteristiche umane già allora pienamente sviluppate (…): irrequietezza e curiosità».

Con un occhio rivolto, dunque, a Jules Verne ed uno alle Cosmicomiche di Italo Calvino, questo libro si propone pertanto di raccontare, alla luce dei risultati più recenti della ricerca scientifica, le principali tappe di un cammino che ci ha portato a occupare (qualcuno direbbe anche: a infestare) persino le regioni più remote e inospitali del pianeta, al ritmo apparentemente lento, ma inesorabile, di circa 3 km all’anno, pagato con i cronici mal di schiena imputabili al progressivo raddrizzamento di una colonna vertebrale che non era stata brevettata per la postura eretta (poiché la natura ricicla tutto e, non potendo inventare dal nulla, come McGyver, accrocca con ciò che ha a disposizione). Con la sottolineatura che, dovunque ci siamo spinti, a ondate successive, abbiamo finito bene o male sempre per rimescolarci. I risultati acquisiti dalla genetica «confermano qualcosa che avevamo intuito da tempo: siamo tutti bastardi. Abbiamo bisogno di nomi per definire le tantissime forme dei viventi, ma limiti fra una specie e l’altra sono meno definiti e più permeabili di quanto queste etichette possano far pensare. (…) Nella biologia contemporanea, (…) l’appartenere a specie diverse non significa che non ci possa essere stato qualche scambio, e che gli individui ibridi non possano, a loro volta, aver lasciato dei discendenti». A maggior ragione questo processo sarà poi valido per i Sapiens soltanto, cosicché, quando dal comune retroterra biologico cominceranno a delinearsi le popolazioni storiche, nessuna di queste risulterà nettamente isolabile rispetto a un’altra. «Neolitici, Egizi, Greci: tutti questi popoli antichi avevano le loro caratteristiche, che oggi riusciamo in parte a decifrare nei loro genomi. Ma nessuno di questi genomi era puro, perché, e lo si vede bene, tutti contengono componenti eterogenee, di origini eterogenee. L’umanità, fin da prima di Homo sapiens, è sempre stata in movimento, e i risultati delle migrazioni e degli scambi si vedono nel nostro DNA, in cui coesistono, oggi come ieri e l’altro ieri, i contributi di antenati di tante origini diverse». Se siamo ciò che siamo, dunque, non è malgrado gli incroci, ma proprio in virtù di essi. Per quanti masticano già un po’ questi argomenti, tali considerazioni suoneranno ovvietà, eppure potremo dire di aver compiuto davvero il grande passo solo quando, divulgatili al punto di averli finalmente resi senso comune, riusciremo a far capire anche ai più cocciuti che proprio quei romani di cui si fregiano di imitare il saluto sono stati in realtà fra i primi a rivendicare la condizione di migranti e di meticci - in quanto eredi del troiano Enea e della latina Lavinia - come motivo d’orgoglio e non di vergogna.

Ps: a uno di questi rimescolamenti neolitici è dedicato un recente podcast in cinque puntate pubblicato dal Post. S’intitola “L’invasione” e parla, per sommi capi, dell’espansione degli Indoeuropei: per quel poco che sono fin qui riuscito ad ascoltare, mi pare che meriti un surplus d’attenzione.

(finito il 30 dicembre 2021)

Ho parlato di


Guido Barbujani - Andrea Brunelli
Il giro del mondo in sei milioni di anni
(Il Mulino 2018)

198 pp. | 15 €

mercoledì 3 gennaio 2024

Bartleby lo scrivano e altri racconti americani

Ma dopo che hai scritto una cosa come Moby Dick, che altro potresti volere ancora dalla vita? Uomo bennato a cui è stato concesso il privilegio di arpionare davvero la tua personale balena bianca, goditi il tuo sabato, lascia che ora ci provino gli altri, se ci riescono, a fare altrettanto, e ritirati per sempre a fumare con calma la pipa accanto al grandioso camino della tua casa di campagna, proprio come vorrebbe il protagonista dell’ultimo, delizioso, racconto contenuto in questa raccolta (intitolato appunto Io e il mio camino). E invece no, il buon Herman l’idillio non se lo può gustare. La sua controfigura narrativa, descritta con meravigliosa autoironia come una persona così visceralmente all’antica da possedere persino «la curiosa abitudine di gironzolare con le mani… dietro alla schiena», è costantemente assediata da «una moglie intraprendente (…) progettatrice per natura», che sconvolge continuamente con i suoi piani e il suo amore per le novità l’inerzia di un marito impietosamente bollato come “vecchio” (e in effetti, glielo riconosce, «vecchio io stesso, sono sensibile alla vecchiaia delle cose: amo, perciò, soprattutto il vecchio Montaigne, il formaggio stagionato e il vino vecchio; ed evito i giovani, i panini caldi, i libri nuovi, le patate novelle, e sono affezionato alla mia antiquata poltrona dai piedi ad artiglio e al mio vecchio vicino dal piede deforme, il diacono White, e all’ancor più prossima mia annosa vicina, la vecchia vite nodosa, che, nelle sere d’estate, dà di gomito al davanzale della finestra per farmi cordiale compagnia, mentre io, dall’interno, spingo all’infuori il mio, per incontrare il suo; e, soprattutto, di gran lunga al di sopra di tutto, sono molto affezionato al mio vecchio camino dall’alta cappa»).

Forse, quando mia moglie, tempo addietro, mi regalò un’altra edizione di questo racconto qualcosa voleva scherzosamente farmelo capire (e a ragione, giacché – pigro come sono – senza di lei avrei conosciuto un’infinitesima parte di mondo), ma nel caso di Melville si trattava solo di una proiezione letteraria. Non era infatti la remissiva consorte a tormentarlo, ma un ben più incalzante demone, quello che lo induceva a continuare comunque a scrivere, perché scrivere probabilmente gli serviva per vivere, ma forse ancor di più perché scrivere è una malattia, che si fa tanto più acuta quanto meno vieni capito – e in quella moglie così perennemente affaccendata e attiva mi verrebbe allora da scorgere anche un simbolo dei suoi stessi connazionali, così pieni di spirito pratico e così inebriati di quello che appariva loro come un destino manifesto da non sapere assolutamente che farsene di quell’eccentrico scrittore di balene che col suo lento salmodiare satireggiava la loro retorica efficientista e le sedicenti meraviglie del progresso tecnico.

Col suo talento innato per l’allegoria, a coloro che non erano stati convinti dal capitano Achab, Melville portò dunque in dono lo scrivano Bartleby, altro personaggio memorabile, che di Achab può essere considerato per certi aspetti l’opposto, sebbene ne condivida in sostanza la medesima fine. Assunto come copista nell’ufficio di un avvocato di Wall Street, quest’uomo mite, silenzioso e quieto sarebbe stato l’impiegato perfetto se a un certo punto non avesse del tutto inaspettatamente cominciato a rifiutare gli incarichi assegnatigli, opponendo alle direttive del capufficio il suo pacato, ma irremovibile, “preferirei di no”. Le cause di questa sua ribellione restano e resteranno per sempre misteriose: la sua, per dire, non appare affatto una scelta etica come potrebbe essere quella di chi antepone la voce della coscienza all’ordine ingiusto – ma proprio in questo sta la sua grandezza simbolica, quell’elemento conturbante che ci disarma e ci procura una sottile angoscia. Noi che, per garantire un servizio adeguato, facciamo le ore piccole, ben oltre gli orari e le remunerazioni stabiliti dal contratto, potremmo essere tentati di liquidare la sua inspiegabile protesta come una semplice variante della comoda negligenza che contraddistingue il solito collega svogliato alle cui inadempienze tocca di volta in volta porre rimedio coi salti mortali. Tuttavia, rifiutando di partecipare al grande gioco che tutti quotidianamente giochiamo, svenandoci senza sapere neanche il perché, Bartleby ci suggerisce con candore che in realtà tutto questo affaticarsi non porta da nessuna parte, se non ad aumentare ulteriormente la stretta della gabbia di ferro che ci incatena, con le frustrazioni e le ingiustizie che ne conseguono (come mostrano anche altri racconti qui presenti, spesso giocati proprio sulle ambivalenze di una società profondamente contraddittoria, in cui il paradiso degli uni è l’inferno degli altri). Forse, come avrebbe ribadito, con tutt’altro stile, anche Bianciardi, in un mondo in cui tutti si agitano nevroticamente, bisognerebbe avere il coraggio di restare fermi, muti «come l’ultima colonna di un tempio in rovina», terribilmente soli come «un pezzo di relitto in mezzo all’Atlantico», pur sapendo che il nostro destino sarebbe comunque quello di venire triturati e infine sputati dal sistema. Melville l’ha profetizzato ma poi, per fortuna, ha continuato a scrivere, scrivere e scrivere.

(finito il 22 novembre 2021)

Ho parlato di


Herman Melville
Bartleby lo scrivano
e altri racconti americani
(Mondolibri 2013)

Trad. di M. Bagicalupo

226 pp. | 5,90 €