Stanze

sabato 17 giugno 2023

Il treno per Istanbul

Questo romanzo è un ben congegnato (forse fin troppo ben congegnato) meccanismo ad orologeria che adatta, in un certo senso, le tre classiche unità aristoteliche di tempo spazio e luogo all’epoca dinamica dell’elettricità: un treno lanciato in corsa da una città ben definita (Ostenda) e diretto verso un’altra città altrettanto ben definita (Istanbul, ovviamente) diventa infatti come un palco in movimento, su cui, atto dopo atto - ovvero stazione dopo stazione -, e scena per scena - ovvero vagone per vagone -, nell’arco di un paio di giorni appena, si inseguono, si incontrano, si avvicinano anche tantissimo e poi però per lo più si allontanano irreparabilmente, le vite di una serie di personaggi rappresentativi (forse fin troppo rappresentativi) di quell’Europa sull’orlo di una crisi di nervi di inizio anni ‘30, quando appunto il libro fu scritto. Profonde innovazioni stavano allora trasformando l’industria culturale. «I film (...) avevano insegnato una cosa all’occhio: la bellezza del paesaggio in movimento, come un campanile si muoveva dietro e sopra gli alberi, come sprofondava e s’innalzava insieme al passo disuguale dell’uomo, e l’incanto di una ciminiera che svetta verso le nuvole, per poi scomparire dietro altre ciminiere. Bisognava comunicare con la prosa questo senso del movimento». E così in effetti accade in queste pagine. Benché alcune delle scene chiave della storia si svolgano in esterna, abbiamo comunque anche lì inseguimenti in automobile, fughe, continui cambi di ambientazione, per non farci mai dimenticare la malinconica verità che un viaggio in treno ci svela sulla vita: «rocce, case e nudi pascoli indietreggiavano a più di cento chilometri all’ora, e c’erano ancora tante cose da dirsi». Qualunque cosa accada, per quanti incidenti di percorso possano rallentare la marcia, il mondo in realtà non si ferma mai ad aspettarci.

Mi pare sia questo l’indizio più evidente che Greene concepì metodicamente questo libro con lo scopo preciso di farlo diventare un film, un prodotto, cioè, il cui tempo di fruizione è deciso dal regista, non dallo spettatore, che vi si deve adeguare. Non è privo di ironia che egli affidi le sopraccitate considerazioni sul cinema a un fatuo scrittore, il cui intento vorrebbe semplicemente essere quello di «restituire salute e buon umore alla letteratura moderna. Troppe introspezioni, troppa malinconia. In fin dei conti il mondo è un bel posto, pieno di avventure» (ricordate quella battuta del Caimano? “É sempre il momento di fare una commedia…” - e qui siamo nientemeno che alla vigilia della presa del potere di Hitler). Eppure anche Greene ci vende la sua opera come un “divertimento”, sebbene l’originale entertainment credo esprima meglio il proposito di creare qualcosa che avvinca, sì, nei contenuti non meno che nelle forme, senza che debba essere per forza divertente. La morale della favola sarà anche a suo modo comica, ma di una comicità disperante («il mondo era un caos: i poveri morivano di fame e i ricchi non per questo erano più felici») e così l’epigrafe di Santayana, secondo cui «in natura tutto è lirico nella sua essenza ideale, tragico nel suo fato, e comico nella sua esistenza». Tale è effettivamente il mood del romanzo. A cui, curiosamente, capitò qualcosa di simile al tracciato di questa parabola. Vendette subito bene, permettendo a Greene di farci parecchi soldi, ma quando poi un film lo divento davverò – abbastanza in fretta, nel 1934, col titolo Orient Express – quest’ultimo si rivelò una dimenticabile meteora, immediatamente soppiantato, nell’immaginario collettivo, dal giallo di Agatha Christie ambientato sullo stesso treno e pubblicato nello stesso anno.

L’idea era dunque nell’aria, come è giusto che sia per i prodotti, appunto, di intrattenimento (verso i quali – sia chiaro – non provo nessuna avversione, e che anzi tanto più mi affascinano quanto più questa loro capacità di fiutare lo spirito del tempo li rende poi utilissimi come involontarie fonti storiche). E sebbene nei due libri il viaggio proceda in direzione contraria (da ovest a est in Greene, da est a ovest nella Christie), in entrambi un momento cruciale della vicenda è legato a una sosta imprevista da qualche parte nei Balcani, una sorta di cuore di tenebra europeo su cui il treno scorre come un ponte sospeso tra i due lembi estremi della civiltà che congiunge (lo spirito di Conrad aleggia abbondantemente su queste acque). Per intenderci, sono regioni in cui, senza che sia possibile avvistare case per chilometri e chilometri d’intorno, non si sa come, non appena i viaggiatori sono costretti a fermarsi, dal nulla sbucano contadini locali che provano a vendere loro qualsiasi cosa, un po’ come ci era capitato di sperimentare in viaggio di nozze sugli immensi altopiani andini del Perù. Qui una volta era tutto impero asburgico, ora invece il territorio è solcato da confini che ancora contano, eccome se contano, per quanto il treno possa apparire a prima vista come un mobile non-luogo capace di perforarli ad uno ad uno col suo incedere, lo stesso incedere di quella modernità che, inventando anche l’aeroplano e la finanza, ai confini sembra essere sempre più indifferente. Se ne accorgerà tragicamente uno dei protagonisti del racconto, il dottor Czinner, leader comunista jugoslavo in esilio, roso dai sensi di colpa e deciso per questo a rientrare in patria, a costo della vita, per trasformare il processo cui agogna in una tribuna mediatica e offrire messianicamente il proprio martirio come scintilla per scatenare la rivoluzione, ma che sarà giudicato invece da un’oscura corte marziale improvvisata dalle guardie di frontiera di Subotica. «Muoio per indicarvi la strada», afferma. «Ma, mentre parlava, la parte più lucida della sua mente gli diceva quanto fossero poche le possibilità che la sua morte avesse una qualunque efficacia».

Anche questo sacrificio verrà inghiottito nelle fauci della storia, senza lasciar traccia. Come se il viaggio fosse un singhiozzo, una sospensione nel respiro, superato il quale si riprende regolarmente la propria vita di prima, capita in effetti, quando si arriva infine a un meta, che non si sia poi neanche tanto sicuri che siano veramente accadute le esperienze vissute durante il tragitto. In questi grotteschi novendiali per la morte del faraone credo che in tanti ce lo stiamo chiedendo, se tutto ciò che ricordiamo di questi ultimi trent’anni sia avvenuto davvero. Purtroppo, almeno per noi, le macerie non mentono.

(finito il 5 settembre 2021)

Ho parlato di


Graham Greene
Il treno per Istanbul
(Sellerio 2020)

trad. di A. Carrera

352 pp. | 14 €

(ed. or.: Stamboul Train, 1932)

giovedì 1 giugno 2023

Da animali a dei

Poco importa che non sia più in grado di recuperare la fonte esatta a cui pensavo, dato che analoghi articoli in cui si glorifica questo libro come uno dei testi imprescindibili del primo quinto di XXI secolo se ne possono trovare a decine. Ed effettivamente è vero che, ben prima di cominciarlo, l’avevo già sentito citare dalle persone più diverse e nei contesti più disparati da indurmi a pensare, quando poi mi sono deciso a leggerlo, di essere ormai l’unico sprovveduto a non averlo ancora fatto. Il successo editoriale è però un fenomeno ambiguo, assai più utile per misurare gli umori del pubblico anziché il valore di ciò che è stato scritto. L’esposizione alla ribalta attira inoltre le polemiche e polarizza le posizioni, giacché, più infervorati sono gli applausi, più feroci si levano anche le critiche (come quelle di chi liquida Harari come uno spregiudicato populista della scienza in risposta a chi ne ha fatto quasi un guru spirituale). Ora che, in base alle regole che io stesso mi son dato, è arrivato – con consueto ritardo - il momento di dire la mia, ammetto che non ho ancora capito bene da che parte stare.

Partirei di qui. Circola in rete una recente, bellissima, lezione di Telmo Pievani incentrata sul perché mai proprio noi siamo rimasti l’unica specie umana sulla Terra. Fra le tesi che vi vengono argomentate c’è anche quella secondo cui non sarebbero state l’invenzione dell’atomica o la Rivoluzione industriale, come di solito si dice, a determinare l’inizio del cosiddetto “antropocene” (ovvero l’epoca geologica segnata irreversibilmente dall’azione umana) bensì un evento decisamente più remoto quale l’ondata migratoria che spinse i nostri antenati Sapiens per la seconda o terza volta fuori dall’Africa, all’incirca tra i 60 e i 40 mila anni fa, perché in effetti è proprio da allora che abbiamo cominciato a plasmare il mondo a nostra immagine e somiglianza, come ben si accorsero anzitutto le altre specie umane allora esistenti (i Neanderthal, i Denisova e i Floresiensis, almeno), che per prime dovettero fare i conti con la nostra improvvisa invadenza, dopo che per qualche decina di migliaia di anni eravamo riusciti a costruire con loro una qualche forma di pacifica convivenza (come testimoniano le frequenti ibridazioni attestate dal DNA conservato nei reperti fossili). Harari esprime mi sembra un concetto analogo quando scrive che, a partire dalla Rivoluzione cognitiva, per i Sapiens non si può più parlare di un «modo di vita naturale», in quanto la cultura ha soppiantato la biologia e ai tempi lentissimi della paleontologia è subentrato il tempo accelerato della storia, che ci ha fatto progressivamente aumentare sempre più il passo rispetto a quello dell’evoluzione genetica (creandoci pure qualche complicazione, dal momento che, anche se viviamo nei grattacieli, «il nostro DNA pensa ancora che siamo nella savana», perché non ha ancora avuto veramente il tempo di adattarsi a condizioni che, peraltro, mutano continuamente). Questo è appunto uno di quei libri che, come già a suo tempo quello di Diamond, ci invitano a ragionare secondo questa prospettiva, sempre piuttosto spiazzante, di lunghissimo periodo, e a considerare perciò tutto quello che è successo da allora in poi come parte di un unico processo scandito giusto da due, tre tappe veramente fondamentali, rispetto a cui tutto il resto è quasi irrilevante – e sebbene il suo autore, sorretto da indubbio talento divulgativo e da un’ostentata irriverenza, tenda effettivamente a dare l’impressione di vendere come se fossero sue trovate brillanti delle idee che magari non sono sempre farina del suo sacco, ciò non toglie che molte delle cose che scrive siano convincenti e condivisibili (e difatti me ne sono anche servito a scuola per parlare, ad esempio, di Bacone o di Rousseau).

Perno principale del suo ragionamento è che il motore di questo sviluppo (che non è necessariamente un progresso, se lo valutiamo in termini di felicità raggiunta, poiché «non è detto che nuove attitudini, comportamenti e capacità rendano necessariamente migliore la vita») non sarebbe tanto da riconoscere né in invenzioni materiali quali la ruota né in scoperte come la domesticazione del fuoco, bensì nell’acquisizione della straordinaria «capacità di creare una realtà immaginata traendola dalle parole». Una mutazione non ancora pienamente compresa ci ha consentito infatti di elaborare un linguaggio estremamente duttile, in grado non solo di comunicare l’esistente, ma «di trasmettere informazioni su cose che non esistono affatto. (…) In precedenza molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: “Attenzione! Un leone!”. Grazie alla Rivoluzione cognitiva, l’Homo sapiens acquisì la capacità di dire: “Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù”. Tale capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio sapiens», in quanto «ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente. Possiamo intessere miti condivisi come quelli della storia biblica della creazione, quelli del Tempo del Sogno elaborati dagli aborigeni australiani e quelli nazionalisti degli stati moderni. Questi miti conferiscono ai Sapiens la capacità senza precedenti di cooperare tra grandi numeri di individui». Da decine di migliaia di anni, in sostanza, ci raccontiamo storie e crediamo alle storie che raccontiamo, al punto da essere disposti a morire per esse. Sono stati proprio questi grandi miti sociali sempre più estesi – il denaro, le religioni universali, la scienza moderna, il capitalismo –, attecchendo come dei meme nella nostra coscienza, ed anzi contribuendo decisamente a plasmarla, a creare le condizioni per l’approdo, dopo svariati ghirigori, a quella comprensione autenticamente globale e planetaria del mondo che trova oggi il suo pieno compimento e che ci permette di riscoprirci, appunto, come Sapiens.

Finzioni, dunque, ancorché potentemente performanti. Così, sarà pure morto Dio, ma tutta la nostra vita continua a basarsi sulla fede «in una perpetua crescita economica» che «va contro quasi tutto ciò che sappiamo dell’universo». Analogamente «i nostri sistemi liberali di politica e di giustizia» continuano a essere «fondati sulla convinzione che ogni individuo ha una natura interiore che è sacra, indivisibile e immutabile, che conferisce significato al mondo ed è la fonte di ogni principio etico e politico», quando «le scienze della vita hanno scardinato completamente questo credo. (…) Con sempre maggior forza, [gli scienziati] sostengono che il comportamento umano è determinato dagli ormoni, dai geni e dalle sinapsi, e non dal libero arbitrio – cioè dalle stesse forze che determinano il comportamento degli scimpanzé, dei lupi, delle formiche». Nonostante tutto quello che hanno potuto immaginare di sé attraverso i secoli, questi «animali insignificanti, il cui impatto sull’ambiente in cui vivevano non era superiore a quello di gorilla, lucciole e meduse», continuano cioè a non avere nulla di strutturalmente diverso da tutte le altre creature. Il tema è quantomai centrale e decisivo: ne va, per dirne una, del valore stesso di una cosetta come i diritti umani. Detto altrimenti, quel che chiamiamo umanesimo è oggi solo un’opera puramente nostalgica di retroguardia con cui cerchiamo di difendere privilegi ormai inaccettabili o il riconoscimento di un qualcosa di buono che, sia pure emerso in modo contingente, merita comunque di essere salvaguardato?

Harari sembra pensare che la nostra specie non abbia veramente nulla di così peculiare da garantirle l’eternità e che, come ci fu una soglia superata la quale sganciammo la nostra storia da quella degli altri uomini, così siamo probabilmente in prossimità di un’altra soglia che ci porterà oltre l’umano, a un livello che per noi oggi è letteralmente inimmaginabile, quando i processi mentali saranno trascritti in circuiti e la programmazione intelligente aggirerà gli estremi limiti biologici, consentendoci di mettere in scacco anche la morte. «Di rado la fantascienza descrive un simile futuro, perché una descrizione accurata di esso sarebbe per definizione incomprensibile. Fare un film sulla vita di un super-cyborg sarebbe come rappresentare Amleto per un pubblico di Neanderthal. I futuri signori del mondo saranno probabilmente assai diversi da noi, molto più di quanto lo siamo noi dai Neanderthal. Mentre sia noi sia i Neanderthal siamo per lo meno umani, i nostri eredi potrebbero essere simili a un dio». Non è chiarissimo se questo sia da intendersi come un monito, un auspicio o una semplice descrizione – ma la sensazione, leggendo soprattutto le pagine finali, è che per Harari questo scenario sia qualcosa di irreversibile a cui tanto vale prepararci per tempo (forse anche solo per il gusto, dal suo punto di vista, di poter affermare: ve l’avevo detto). La storia umana sarebbe dunque solo una lunga parasceve alla futura Pasqua cibernetica? Per uno che, a metà libro, scrive invece che «la storia non può essere spiegata per via determinista, e non può essere prevista perché è caotica» e che noi non la studiamo «per conoscere il futuro ma per ampliare i nostri orizzonti, per capire che la nostra situazione presente non deriva da una legge naturale e non è inevitabile, e che di conseguenza abbiamo di fronte a noi molte più possibilità di quante immaginiamo», mi sembrerebbe una ben curiosa conclusione. Forse alla fine chi racconta è rimasto abbagliato dal suo stesso racconto. Del resto, siamo o non siamo una specie credulona?

(finito il 19 agosto 2021)

Ho parlato di


Yuval Noah Harari
Da animali a dei. Breve storia dell'umanità
(Bompiani 2014)

trad. di G. Bernardi

533 pp. | 17 €

(ed. or.: Kitsur toldot ha-enoshut, 2011)