Stanze

venerdì 18 marzo 2022

La speculazione edilizia

L’industria culturale ha pensato bene di celebrare l’impegnativo circuito di centenari in cui ci siamo infilati – Sciascia nel 2021, ora Pasolini e Fenoglio, senza contare padre Dante – con generose elargizioni di merchandising letterario ad uso e consumo di quelli che, come me, si ostinano a foraggiare le benemerite edicole ancora aperte. Con Calvino, però, si sono davvero bruciate le tappe, avendo lui ricevuto la sua bella collana integrale allegata ai quotidiani con quasi tre anni di anticipo sui tempi. Forse perché, in questo caso più che per altri, non c’è neanche bisogno di pretesti: si tratta, infatti, a occhio, dello scrittore italiano più letto e considerato degli ultimi settant’anni, immediatamente assimilato nei programmi scolastici anche per via di quella sua leggerezza-che-non-è-superficialità sin troppo facile da apprezzare in una società evanescente in cerca di alibi. Anch’io del resto, l’ho anzitutto, e quasi solo, incontrato a scuola, di volta in volta nelle vesti di novelliere, affabulatore, narratore partigiano, cosmicomico, sperimentatore e saggista. Il rischio, ovviamente, è di farne in questo modo un autore buono per tutte le stagioni (non solo quelle in città), un maiale letterario di cui non si butta via niente perché in un modo o nell’altro tutto fa brodo - e va da sé che tale sovraesposizione cominci a suscitare anche qualche sommessa reazione di rigetto (in una recente intervista a L’Espresso, per esempio, Giorgio Montefoschi lo ha collocato addirittura fra i grandi sopravvalutati del Novecento, un “furbo” che «scriveva bene, per carità. Ma non basta scrivere bene»). La controversia, tuttavia, stimola la curiosità anche più della canonizzazione, ed è proprio per questo che, da grande, mi è venuta voglia di riannodare i fili e riprendere l’esplorazione del voluminoso poliedro calviniano a partire dalle facce rimaste per me fino a lì più in ombra, come quella dell’autore “realista” che, nella seconda metà degli anni Cinquanta, contribuì, insieme ad altri, a fornire un’avvincente descrizione in presa diretta della mutazione italiana e delle sue contraddizioni. La speculazione edilizia, che risale al 1957, rientra, appunto, in questo contesto (e un doveroso ringraziamento va alla collega che l’ha proposto – perché poi di nuovo lì si torna – in una classe comune, dandomi lo spunto per leggerlo).

Premetto subito che nella storia di Quinto Anfossi, intellettuale di provincia tornato al paese e impegolatosi qui in una torbida questione per lui incomprensibile di cubature e capitolati, mi ci sono rispecchiato parecchio - avendo imparato a maneggiare teorie filosofiche ben prima di saper decifrare una bolletta ed essendo totalmente privo di quella capacità manuale che ammiro incondizionatamente in chi, invece, in quattro e quattr’otto, ti sa tirare su un muretto o riparare un qualsivoglia guasto meccanico. Provo anch’io, come lui, una certa soggezione e persino invidia per chi sa muoversi nel mondo concreto della materialità con una grazia che non t’aspetteresti, generata dalla competenza. A questa garbata e in fondo benevola autoironia Calvino accosta però un’autocritica ben più consistente, legata a quella che dovrebbe essere invece - questa sì - la specifica attitudine del pensatore, ossia la denuncia di non essere riusciti a comprendere sul serio quello che stava effettivamente accadendo nell’Italia del dopoguerra. Quella che si era imprudentemente chiamata democrazia - con tutto il carico di autocoscienza, partecipazione e responsabilità che essa avrebbe dovuto comportare - si stava invece rivelando, alla prova dei fatti, più semplicemente come un diffuso benessere – benessere sacrosanto per chi l’aveva raggiunto, ci mancherebbe, e però anche un po’ imbastardito e avvilente. Visto dalla Riviera ligure, dove è ambientato il racconto, ciò significa che in luogo dei ricchi inglesi e delle ville liberty d’inizio secolo irrompono ora torme di turisti piccoloborghesi che sciamano verso la costa in cerca di appartamenti da acquistare o affittare per coronare il loro sogno vacanziero e riprodurre in costume da bagno, «stipati nelle esigue strisce di spiaggia», i medesimi ritmi nevrotici propri della società urbana da cui provengono. É, questa, una «folla civile, realizzatrice, adultera, soddisfatta, cordiale, filistea, familiare, bemportante, ingurgitante gelati, tutti in calzoncini e maglietta, donne uomini bambini giovanetti nell’assoluta parità delle età e dei sessi». Davvero c’è qualcosa che non torna. Osservandola bene, in effetti, al protagonista viene per un attimo «il sospetto che ogni nostra ostentazione di prosperità non fosse che una facile vernice sull’Italia dei tuguri montani e suburbani, dei treni d’emigranti, delle pullulanti piazze di paesi nerovestiti», ma è un dubbio fugace, che sparisce nell’autoconvincimento che questa sia invece la marea montante del progresso, con la sua promessa di emancipazione, e che in fondo la «nuova borghesia degli alloggetti (…) fosse la migliore che l’Italia potesse esprimere».

Al servizio di questa vociante schiera di nuovi consumatori si pone però un’altra sottospecie di borghesia, altrettanto nuova, composta da costruttori pronti a sgobbare in prima persona - berretto di carta in testa e maniche di camicia risvoltate all’insù - per offrire quel che il mercato richiede, una colata di cemento alla volta - «un’equivoca e antiestetica borghesia di nuovo conio, come antiestetico e amorale era il vero volto dei tempi». Questa categoria di imprenditori parvenus è ben rappresentata dall’uomo con cui Quinto entra in trattative, tale Caisotti, uno sceso «dalla montagna coi calzoni rattoppati, mezzo analfabeta» e che però, adesso, «impianta cantieri dappertutto, maneggia milioni, fa la pioggia e il bel tempo col Comune, coll’Ufficio Tecnico...», ricorrendo a tutto un imprevedibile armamentario di trucchi e trucchetti, aggiustamenti, mezzi imbrogli, furberie, abusi e patteggiamenti. Simili cacciatori di subiti guadagni sono detestati dalla «vecchia borghesia del luogo» - quella borghesia «conservatrice, onesta, parsimoniosa, paga del poco, senza slanci, senza fantasia, un po’ gretta, che da mezzo secolo vedeva intorno cambiamenti cui non riusciva a tener testa, gente nuova e difforme prender campo, e doveva ogni volta recedere dalla propria chiusa opposizione facendo ricorso all’indifferenza, ma sempre a denti stretti» - e anche per questo, in fondo, al protagonista (simbolo di tutta una certa intellighenzia progressista) fare affari con Caisotti sembra un modo per intercettare lo spirito del tempo e farla finita una volta per tutte con i vecchi padroni. É la modernizzazione, bellezza!

Ovviamente l’impresa andrà a rotoli e si impantanerà in un tragicomico crescendo di garbugli e diffidenze reciproche. Quando salta fuori che anche Caisotti, sorprendentemente, era stato partigiano, proprio come Quinto, quest’ultimo ne ricava perciò un’amara morale: «bella curva aveva fatto la società italiana! (…) Due partigiani, un paesano e uno studente, due che s’erano ribellati insieme con l’idea che l’Italia fosse tutta da rifare; e adesso eccoli lì, cosa sono diventati, due che accettano il mondo com’è, che tirano ai quattrini, e senza più nemmeno le virtù della borghesia d’una volta, due pasticcioni dell’edilizia, e non per caso sono diventati soci d’affari, e naturalmente cercano di sopraffarsi a vicenda...». Valeva la pena di fare la Resistenza per ritrovarsi qui a litigare sulla metratura di un garage? Era questo il paese che avevamo in mente quando combattevamo i fascisti? E i morti, è davvero per questo che sono morti? La dignità che un po’ conserviamo insorge, eppure non riesce a mettere del tutto a tacere il dubbio che una certa dose di squallore sia il pegno da pagare per la libertà e che il nostro compito sia non già eliminarlo del tutto, cosa impossibile, ma impedire che superi una soglia critica e ci crolli addossi, travolgendoci tutti.

L’indifferenza in cui cade, nell’estate rivierasca, la notizia della morte di De Gasperi, induce però Quinto a un’ulteriore riflessione. Lui che, da giovane (ma “giovane” vuol dire appena pochi anni prima), aveva considerato il leader democristiano «un estraneo insediatosi nella storia d’Italia nel momento in cui doveva essere tutta diversa» ora sembra l’unico a ricordarselo, anche con una punta di rammarico; al contrario, «la borghesia che pochi anni innanzi lo salutava suo salvatore, restauratore dei suoi facili agi, ora l’aveva già dimenticato, aveva dimenticato la paura (“la paura che le facevamo noi – pensava Quinto – quando eravamo la speranza”), e adesso sapeva soltanto che quell’uomo magro, montanaro, onesto, testardo, un po’ ristretto, di non molte idee ma intransigente in esse, cattolico in una disadorna maniera poco italiana, a loro non era mai stato simpatico». Sintesi beffarda e straordinaria a un tempo. Ma ad essere ancor più impressionante è constatare come qui sia già prefigurata, con estrema lungimiranza, la parabola di una società in fondo anarcoide che, protetta dall’ampia gonnella di mamma Dc, ostentando devozione, ha in realtà coltivato lì sotto per decenni quegli stessi impulsi egoistici che l’avevano spinta fra le braccia del Duce, finché non si è sentita autorizzata a darsi in sposa, tutt’altro che simbolicamente, a colui che come costruttore, ma più ancora come editore, ha saputo soddisfarne le vogliuzze, scagliandosi contro l’ingessata e bigotta gerontocrazia della tv di Stato, tanto da raccogliere – lui pure, in quel momento - il plauso di molti insospettabili libertari caduti nella stessa trappola di Quinto Anfossi. Senti Caisotti spiegare «come fosse difficile lavorare, costruire, con tutti che mettevano i bastoni tra le ruote, il Comune con tutti i suoi divieti, lo Stato con le tasse, il materiale per cui si doveva dipendere da questo o da quello» e avverti, in sottofondo, le note iniziali dell’inno di Forza Italia, il ritornello dei lacci e lacciuoli, i no a una qualunque riforma catastale. «Caisotti reputazione da perdere non ne ha: è venuto qui con le toppe ai calzoni, vive come uno straccione, fa figure da ladro di galline con tutti, non si riesce mai a metterlo nel sacco perché non fa mai quello che sarebbe logico che facesse… Eppure, con questo sistema, è uno che si tiene a galla, uno con cui bisogni sempre fare i conti...». Se sono stati questi a ricostruire l’Italia, non deve poi stupirci che la guerra segreta della repubblica l’abbia alla fine vinta Berlusconi.

(finito il 10 febbraio 2021)

Ho parlato di


Italo Calvino
La speculazione edilizia
(GEDI 2020)

128 pp. | 9,90 €
Collana "Le Opere di Italo Calvino", vol. 8

(ed. or.: 1957)