Stanze

lunedì 21 giugno 2021

Uomini e no

Da ragazzo, quando di solito la scuola te li propone da leggere, ho furtivamente aggirato diversi classici romanzi di iniziazione repubblicana, non certo per ragioni ideologiche, quanto per motivi – in senso lato – estetici e ingenuamente storicistici. Mi appassionavano di più altri generi e temevo, a torto o a ragione, che non avrei potuto capire appieno quei libri senza adeguata contestualizzazione: un problema che invece non mi ponevano, per dire, astronavi e imperi galattici, ma neppure metamorfosi e altre inquisizioni (a ripensarci oggi, a posteriori, se non fosse che non sono mai stato un tolkieniano e che in provincia certe cose non si notavano molto, avrei potuto anche essere scambiato, in certi momenti, per un simpatizzante del Fronte della Gioventù). Una simile negligenza ha lasciato oggettivamente qualche buco nella mia formazione di cittadino, ma mi ha anche consentito e mi consente tuttora di accostare alcuni di questi testi, da adulto, con la curiosità che nasce da un autentico bisogno intellettuale e non solo per onorare un sia pur rispettabilissimo rito civile. Questo discorso vale ad esempio per certi scritti di Calvino, di Fenoglio, di Rigoni Stern e vale anche per quello che è forse il prototipo di tutti i romanzi partigiani, pubblicato da Vittorini a Liberazione appena avvenuta e letto da me solo ora (dove “ora” è un anno fa), il cui titolo è stato spesso interpretato come espressione di una concezione manichea della guerra, tipica di chi vi era appunto uscito da pochissimo (e che quando scriveva queste pagine, peraltro, era ancora un braccato), e perciò rappresentativa anche di un certo modo, diciamo “canonico”, di intendere la Resistenza. Quindici anni più tardi un altro illustre siciliano avrebbe reso celebre una diversa, più ambigua, classificazione della specie in umanità propriamente detta e altre sue pittoresche e meno nobili varianti. Ma quella sarebbe stata già un’altra Italia, torbida e disillusa, maculata di infinite zone grigie. No, al tempo delle scelte di campo nette e luminose l’alternativa non poteva non essere secca: di qua gli uomini, i veri uomini, la civiltà; di là le bestie, i mostri, la barbarie – da cui la formula apposta in copertina.

So che insospettabili intellettuali hanno avallato questa chiave di lettura, ed è anche per provare a capire se si tratta di un’intuizione felice o di un abbaglio che mi sono deciso infine a leggere il libro. Quell’interpretazione, infatti, legittima la facile critica secondo cui il modo di ragionare che vi è sotteso non sarebbe altro che il rovescio speculare e altrettanto malsano del modo di ragionare attribuibile alle “bestie”: possiamo infatti immaginarci una discriminazione più feroce tra “uomini e no” di quella esercitata nei campi di sterminio nazisti? O, per restare nei confini di questo romanzo (che racconta le azioni di una banda partigiana nella Milano occupata di inizio ‘44), ci si può immaginare logica più perversa di quella che spinge il generale tedesco Clemm a decretare per rappresaglia la fucilazione di centodieci prigionieri – nell’ordine di dieci a uno – dopo un attentato in cui erano morti nove tedeschi e due cani, «il miglior alano della Gestapo. E (…) la mia cagna Greta»? La stessa logica che lo indurrà a far sbranare da altri cani il povero ambulante Giulaj, responsabile involontario della morte di Greta, dopo averlo denudato e sottoposto a un maligno interrogatorio, al termine di una sequenza che per tensione narrativa brilla di luce propria all’interno dell’opera, al punto che avrebbe potuto tranquillamente essere presentata come un racconto a sé stante ed assumere, da sola, il posto centrale che nella memoria resistenziale ha occupato l’intero libro. Che razza di uomo è quello per cui la vita di un altro uomo vale meno di quella di un cane? É un uomo che ragiona così: «per ogni tedesco che muore noi uccidiamo dieci persone. Siamo novanta milioni di tedeschi. Prima di morire in novanta milioni noi dovremmo uccidere novecento milioni di persone. Ci sono nel mondo novecento milioni di persone? Non ci sono. La Germania non può morire». E quando gli fanno notare che in effetti ci sarebbero i cinesi e gli indiani, risponde «i cinesi non contano (…). Gli indiani non contano». Uomini e no, appunto.

Ora, che la denuncia di simili brutalità sia uno dei temi portanti del libro è innegabile. Ed è innegabile che Vittorini tenda effettivamente a contrapporre «chi ha freddo, (…) chi è malato, (…) chi è perseguitato, (…) chi viene ucciso», chi – in un modo o nell’altro – è offeso nella sua dignità di uomo e lotta per liberarsi dall’oppressione a chi invece offende, opprime, calpesta la dignità altrui, scegliendo di essere lupo per il suo simile. Adottando un tono a tratti oracolare egli sembra anzi presentare la guerra tra nazifascisti e partigiani (anzi, patrioti, come si diceva allora, a fresco) semplicemente come l’ultimo episodio in ordine di tempo di un conflitto che si riproporrebbe continuamente nella storia: da una parte il Gap, «come qui da noi si chiama ora, e comunque altrove si è chiamato», dall’altra Cane Nero, un ufficiale tedesco dei più spietati, che in realtà «è tutti i cani che sono stati, è nella Bibbia e in ogni storia antica, in Macbeth e Amleto, in Shakespeare e nel giornale d’oggi». E tuttavia, se accentua questo contrasto, eternizzandolo, è per focalizzare meglio – mi pare – un altro problema, che sembra in effetti ribaltare la schematica interpretazione di cui sopra. Questo essere bistrattato, schiacciato, ferito, quello stesso essere che Primo Levi avrebbe provocatoriamente domandato se fosse ancora da considerarsi un uomo, ebbene sì, su ciò non abbiamo dubbi (o per lo meno non li aveva Vittorini), «questo è l’uomo». «Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. Sangue? Ecco l’uomo» - come sulla via del Calvario (per quanto, a dirla tutta, il risvolto più sconcertante dell’episodio di Giulaj è proprio l’indifferente inerzia con cui i soldati repubblichini, persone come tante, non migliori né peggiori di altre, ne osservano la morte, come un fatto che sì, un po’ disturba, ma che ci vuoi fare, in fondo è la guerra, e poi «quei cani poliziotto valgono molto»...). «Ma l’offesa in se stessa? É altro dall’uomo? É fuori dall’uomo? Noi abbiamo Hitler oggi. E che cos’è? Non è uomo? Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell’uomo? Che non appartenga all’uomo?».

Questo, insomma, è il dilemma: «noi vogliamo sapere (…) se è nell’uomo quello che essi fanno quando offendono (...) se è nell’uomo quello che noi, di quanto essi fanno, non faremmo». Stentiamo a volerlo ammettere, perché ciò implica una profonda revisione di tutti i bei discorsi che ci siamo fatti sulle nobili concezioni di “umanesimo” e di “umanità” – e in questo modo Vittorini offre il suo contributo a un importante dibattito filosofico del secondo dopoguerra - ma come potrebbero costoro fare tutto quello che fanno se quello che fanno non provenisse anch’esso dal cuore dell’uomo? «Può darsi che Hitler scriverebbe lo stesso quello che ha scritto, e Rosenberg lui pure; o che scriverebbero cretinerie dieci volte peggio. Ma io vorrei vedere, se gli uomini non avessero la possibilità di fare quello che fa Clemm, prendere e spogliare un uomo, darlo in pasto ai cani, io vorrei vedere che cosa accadrebbe nel mondo con le cretinerie di loro». Facile appioppare l’etichetta di “mostro” al killer – facile e deresponsabilizzante, poiché il “mostro” è l’eccezione, l’anomalia, è tutto quello che noi ci figuriamo di non essere. “Uomini e no”, invece, possiamo esserlo tutti, in ogni momento. Potrebbe suonare come un colpo di spugna – tutti colpevoli, nessun colpevole – ma io la leggo in modo leggermente diverso: l’uomo, quando offende, non è snaturato da una qualche forza esteriore che lo plagi e lo manipoli, trasformandolo in qualcosa d’altro; quando offende, l’uomo è non meno uomo di quando è offeso, poiché le possibili motivazioni che ci spingono all’offesa sono già presenti da sempre in noi e ribollono appena sotto la superficie della routine quotidiana; per questo, in realtà, è ancora più odioso il comportamento e ancora più grande la responsabilità degli apprendisti stregoni che, anziché contenerle, solleticano tali pulsioni per calcolo politico, conferendo loro un’indebita sacralità con un seducente rivestimento ideale.

Fateci caso. Chi offende, soprattutto chi offende in grande stile, sventola sempre la grande causa che lo giustificherebbe davanti alla storia. Paradossalmente, quelli che sembrano non avere ideali molto definiti sono invece proprio i gappisti protagonisti del romanzo, a cominciare dal loro capitano, presentato solo con quel curioso nome di battaglia – Enne2 – che può stare effettivamente per qualunque uomo: una figura tormentata, complessa, sfuggente, interiormente desertificata, sospeso tra l’amore impossibile per una donna già sposata e una lotta di cui a un certo punto non capisce più il significato. Quanto ai suoi sottoposti, «tutti questi uomini erano semplici, erano pacifici (…). Essi avevano, ognuno, una famiglia: un materasso su cui volevano dormire, piatti e posate in cui volevano mangiare, una donna con cui volevano stare; e i loro interessi non andavano molto più in là di questo, erano come i loro discorsi. Perché, ora, lottavano? Perché vivevano come animali inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita? Perché dormivano con una pistola sotto il cuscino? Perché lanciavano bombe? Perché uccidevano?». A differenza dei soldati tedeschi, che potevano contare sulla copertura del proprio Stato, «questi uomini non avevano dietro niente che li costringesse, niente che prendesse su di sé quello che loro facevano. Restava dentro a loro quello che loro facevano. (…) Perché, se erano semplici, se erano pacifici, lottavano? Perché, senza aver niente che li costringesse, erano entrati in quel duello a morte e lo sostenevano?». Nessuno di loro vuole la morte, tanto meno se bella. Nessuno vorrebbe uccidere, neanche per la rivoluzione. E allora perché muoiono, perché uccidono? All’esibita grandiosità di chi ha scambiato la guerra per la ricerca del Santo Graal e descrive perciò con accenti mistici la carneficina in corso viene contrapposta una disarmante, persino banale, richiesta di normalità. «Che senso avrebbe il nostro lavoro se gli uomini non potessero essere felici? (…) Avrebbero un senso tutte le nostre cospirazioni? (…) C’è qualcosa al mondo che avrebbe un senso? (…) No. No. Bisogna che gli uomini possano essere felici. Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano felici». In fondo non si desidera nient’altro che un po’ di tranquillità. Mi pare illuminante che descrivendo la mattina in cui Milano si sveglia e scopre le vittime innocenti dell’ennesimo massacro nazifascista (altra scena madre, altro episodio che avrebbe potuto perfettamente funzionare da solo), Vittorini dica che nei volti dei morti «vi era soltanto serietà, e la ferocia che è della serietà». La scelta delle parole non è casuale, anzi viene ribadita affermando che quei morti sono «morti per una vita che sia più seria». Come se domandassero, esibendo il proprio corpo violato ai fascisti: no, seriamente, ma è davvero questo il vostro obiettivo, è davvero questo il mondo che avete in mente? E allora «questo forse era il punto. Che si potesse resistere come se si dovesse resistere sempre, e non dovesse esservi mai altro che resistere. (…) E perché lottare? Per resistere. Come se mai la perdizione ch’era sugli uomini potesse finire, e mai potesse venire una liberazione». Resistere, s'intende, ai tentativi sempre risorgenti di instaurare il paradiso in terra su fondamenta impastate di sangue umano.

Con ciò non sono del tutto risolte le ambiguità. L’ultima pagina presenta un giovane operaio appena reclutato fra i partigiani che non riesce ad uccidere un soldato tedesco quando se lo trova di fronte praticamente indifeso. «Lo vide non nell’uniforme, ma come poteva essere stato: indosso panni di lavoro umano, sul capo un berretto da miniera», e in un certo senso è come se nell’altro vedesse riflesso se stesso. Si limita perciò a rubargli la moto e a darle fuoco, poco distante, salvo poi sentirsi in dovere di giustificarsi coi compagni e concludere «imparerò meglio» - che sono le parole, un po’ inquietanti data la situazione, con cui il romanzo si chiude, oscurando d’un tratto quella ch’era apparsa per un attimo una possibile via d’uscita dal massacro attraverso il reciproco riconoscimento. Ma sono proprio queste ambiguità a scagionare Vittorini dall’accusa di spocchiosa superiorità morale. Il libro, lo si sarà capito, è al contrario irrisolto e pensoso, carico di tutti i dubbi che potevano gravare sulla coscienza di un partigiano pur convinto della bontà della propria causa – e semmai il suo limite sta proprio nel non essere pienamente riuscito ad amalgamare una narrazione di ritmo hemingwayano (che, come detto, ha momenti di alto livello e oltretutto ha il pregio di raffigurare quella Resistenza urbana così diversa da quella di Langa o di montagna a cui forse siamo più abituati) con gli intermezzi riflessivi e persino lirici in cui l’autore prende la parola per chiosare quanto succede - intermezzi che spezzano quel ritmo, generando continue dissonanze. Come uno strano ibrido, Uomini e no mi sembra più significativo come indizio del travaglio che l’ha ispirato che non per la qualità letteraria complessiva del prodotto finale. Ma posso io - proprio io - imputare a qualcuno di essere stato troppo concettoso?

(finito il 28 giugno 2020)

Ho parlato di


Elio Vittorini
Uomini e no
(GEDI 2020)

192 pp. | 7,90 €
Collana "Storie di Resistenza" vol. 4

(ed. or., 1945)




domenica 6 giugno 2021

Fascismo anno zero

«Il 23 marzo non si fonderà un partito, ma si darà una spinta a un movimento e si fisserà una meta. (…) Il 23 marzo sarà creato l’anti-partito, (...) che far[à] fronte contro due pericoli: quello misoneistico di destra e quello distruttivo di sinistra. Sarà fissato un programma di pochi punti, ma precisi e radicali...». Ogni volta che rileggo queste righe resto basito. Ma come? L’ideale dell’anti-partito e la preferenza accordata al termine “movimento”, l’intenzione di andare oltre i vecchi schematismi di destra e sinistra, la sbandierata radicalità di pochi temi inderogabili che dovrebbero avere la precedenza su tutto il resto: se non fosse per lo stile demodé, potrebbe tranquillamente trattarsi dell’atto di convocazione del primo Vaffa-day con l’indicazione delle sue cinque stelle identitarie. E invece quelli citati sono estratti da alcuni articoli del Popolo d’Italia che annunciano, nel 1919, l’imminente e ovviamente «solenne» adunata da cui sarebbero nati, a Milano, i Fasci di combattimento. L'autore di tali proclami è l’allora trentaseienne Benito Mussolini, che provava in questo modo a ritagliarsi uno spazio di manovra nel caotico clima post-bellico per trasformare il diffuso ma generico malcontento di quei giorni in onda d’urto politica capace di dare una spallata definitiva al moribondo Stato liberale e alle imbolsite cariatidi che lo rappresentavano, non ancora raggiunte dalla consapevolezza che il loro tempo si era ormai compiuto.

L’idea alla base di questo disegno è semplice: la guerra ha scompaginato tutte le carte e quelli che a suo tempo l’hanno voluta e l’hanno fatta ora hanno il diritto e il dovere di guidare il Paese anche in tempo di pace. L’avanguardia di questa “trincerocrazia” (come la chiama lui) non ha bisogno di statuti, né di regolamenti, e men che meno di discussioni («tutto ciò è roba di partito», appunto). Quel che occorre, piuttosto, è la disponibilità a porsi «in una persistente mobilitazione», per prolungare lo sforzo militare e la sua connaturata violenza, indirizzandoli questa volta verso i nemici interni, allo scopo di produrre un «disordine creativo» che porti infine all’instaurazione di «uno Stato di tipo nuovo, radicato nelle masse» e sorretto da forze fresche. Si tratta di una miscela altamente esplosiva, a cui - in mancanza di una coerente linea ideologica (d’altronde «noi fascisti non abbiamo dottrine precostituite, la nostra dottrina è il fatto», sostiene un Mussolini che non ha ancora incontrato Gentile) – si è dato il nome di «diciannovismo» e in cui, per lo stesso motivo, si può trovare tutto e il contrario di tutto, come mostrano emblematicamente le schede biografiche dedicate da Franzinelli a ciascuno di quelli che sarebbero effettivamente stati presenti quel 23 marzo a piazza San Sepolcro (da cui “sansepolcrismo”, come sinonimo stesso di questo protofascismo urbano e “movimentista”). «Il fascismo delle origini mescola estremismo di destra e radicalismo di sinistra, in un dinamismo urlato e spericolato alla ricerca di sbocchi traumatici, sovvertitori degli assetti istituzionali»: fra quanti condividevano questo ribellismo anarcoide troviamo il capo degli Arditi Ferruccio Vecchi e l’ideologo del futurismo Marinetti, uomini dai cognomi importanti come un nipote di Garibaldi e il figlio di Cesare Battisti, troviamo chi sarebbe stato fucilato dai partigiani e chi sarebbe morto democristiano. Ma troviamo anche alcuni insospettabili come Pietro Nenni e Arturo Toscanini (che addirittura nelle liste del Fascio si sarebbe candidato alle elezioni del novembre ‘19). Non per nulla, nel corso del Ventennio, sulla memoria di quella giornata si sarebbe poi giocata una partita fatta di rimozioni, falsificazioni e rielaborazioni perché sarebbe stato un po’ imbarazzante per il fascismo trionfante riconoscere un tale guazzabuglio come suo atto fondativo (cosa invece interessantissima per lo storico).

In quel miscuglio, tuttavia, l’intraprendente Mussolini del 1919 ci sguazza pienamente a suo agio, poiché ritiene (con qualche ragione) di essere l’unico in grado di poter dare a tali proteste una qualche prospettiva di ampio respiro. Ciò a cui pensa, in quel momento, è una «costituente combattentista» che possa presentarsi come unico soggetto autorizzato a istituire un nuovo patto sociale, ma lo sviluppo tecnologico ci permette oggi di comprendere più chiaramente che ciò che effettivamente si sforzava di realizzare non era altro che una community ante litteram (ed è soprattutto in questo che le odierne bestie della comunicazione gli sono – forse involontariamente - più debitrici). A tale scopo, non avendo ancora a disposizione i moderni social network, Mussolini si serve come tribuna del suo giornale, mettendo a punto tecniche così innovative da essere tuttora ampiamente sfruttate dalla stampa italiana di destra (e non solo), come il titolo shock, l’apostrofe violenta e soprattutto la storpiatura derisoria dei nomi degli avversari (per cui, ad esempio, Nitti diventa «Sua Indecenza Cagoia», «il ministro della fogna», mentre Giolitti è descritto come una «malvagia carogna»). In questo modo, il futuro Duce «accentua il decadimento della vita pubblica irridendo governanti e oppositori, per mostrare – nell’incapacità degli interlocutori di reggere il livello dello scontro – la debolezza di questi e l’irresolutezza di quelli», in un gioco al massacro che si nutre di quel tipo di chiassate ancora tanto praticate da molti dannunzianetti armati di smartphone. Altrettanto impressionanti sono i temi agitati, soprattutto se li si scorre col senno di poi. Mussolini tiene in quei mesi comizi infervorati in cui propone, tra le altre cose, «l’instaurazione della Repubblica, assemblea rappresentativa di reduci e lavoratori per deliberare le otto ore giornaliere, livelli minimi salariali, il coinvolgimento delle maestranze nella gestione aziendale, coinvolgimento sindacale alle trattative di pace europee». E ancora: confische dei beni ecclesiastici, decimazioni delle ricchezze e persino – udite udite – una «energica tassazione sulle eredità». Quelli che oggi tengono il suo busto sul comodino e gli rivolgono le orazioni serali rabbrividirebbero al pensiero. Quelli che all’epoca avevano orecchie per intendere, invece, non si scomposero più di tanto. Nonostante i proclami e le accuse sistematiche rivolte ai pescicani della finanza arricchitisi durante la guerra, Mussolini non spaventa, infatti, la borghesia. Tutt’altro. Basta non limitarsi a leggere gli articoli pubblicati sul Popolo d’Italia, ma studiare anche le inserzioni pubblicitarie che lo sovvenzionano per capire chi lo tiene a galla (follow the money, come si sarebbe detto poi: ed è un bel metodo di indagine). Mussolini getta ami al popolo perché ha abbastanza fiuto per comprendere che non se ne può più fare a meno, ma vuole sottrarlo ai socialisti non per renderlo protagonista di un autentica lotta di emancipazione, bensì per piegarlo ai propri progetti. Quel che pensa davvero lo afferma con chiarezza in un discorso del 28 dicembre 1919: «io esalto l’individuo: tutto il resto non sono che proiezioni della sua volontà e della sua intelligenza». Ai padroni non sembra vero di aver forse trovato qualcuno che spingerà i servi a sottomettersi come è sempre stato, convincendoli però che ora sono loro a comandare.

Il progetto, però, per il momento si arena. Alle elezioni del ‘19, il fascismo non va oltre lo zero virgola e sembra già morto. Il suo radicalismo incontrollato allontana i moderati ma non riesce a sfondare fra le masse e il suo capo appare per un attimo una meteora come tante destinata a bruciarsi rapidamente. Per dare una misura della sconfitta, Mussolini (che a un certo punto aveva addirittura millantato di volersi candidare nientemeno che a Dronero per sfidare Giolitti nel suo collegio) prende 9000 voti; Turati – candidato anch’egli a Milano – ne ottiene 190 mila. Una bara col suo fantoccio gli viene fatta sfilare sotto casa la sera delle elezioni dagli ex compagni socialisti che non avevano mai digerito il suo voltafaccia di qualche anno primo. E invece è proprio qui che Mussolini si rivela straordinariamente moderno e «maestro nell’arte di spiazzare l’avversario. Quando lo si immagina sulla difensiva, attacca. É la strategia di chi sa adattare gli eventi quotidiani dentro la battaglia politica di lungo corso». Non c’è spazio a sinistra? E allora cambiamo slogan e bersagli. Non siamo un partito? E invece lo diventiamo. Questo incedere ondivago e opportunista può stupire, a prima vista, perché rivela un tratto sorprendentemente post-ideologico in colui che invece è spesso presentato da ammiratori e detrattori (per motivi diversi) come l’incarnazione stessa di una determinata ideologia – ideologia che invece subisce continui rimaneggiamenti per renderla più funzionale possibile al vero obiettivo, la ricerca (e poi il mantenimento) del potere. I fatti gli daranno ragione e nell’arco di appena tre anni, da capo di un movimento minoritario, Mussolini diventerà il più giovane Presidente del consiglio italiano (e tale rimarrà fino a Renzi).

Commenta Franzinelli che tale sviluppo, «più che svolta a destra (come si è spesso scritto), è l’inveramento dei presupposti d’ordine presenti sin dalla fondazione dei Fasci di combattimento, mescolati – nel magma diciannovista – alla fomentazione del disordine, funzionale alla destrutturazione dello Stato liberale e alla guerra guerraggiata contro la sinistra ufficiale». E questo mi fa pensare che se forse il fascismo col fez e il saluto romano è morto per sempre, non è affatto morto quel perenne diciannovismo italiano, «teppistico e sovversivamente patriottico, che mortifica e umilia gli avversari», che invoca il rispetto delle regole ma non paga le tasse, chiede test di cittadinanza ma non conosce i congiuntivi, invoca l’uomo forte ma protesta contro le mascherine. Da questo contraddittorio crogiuolo un secolo fa è venuto fuori il fascismo: nulla vieta che oggi possa produrre frutti persino peggiori.

(finito il 25 giugno 2020)

Ho parlato di


Mimmo Franzinelli
Fascismo anno zero
1919: la nascita dei Fasci italiani di combattimento
(Mondadori, 2019)

289 pp. | 22 €