Stanze

domenica 25 aprile 2021

25 luglio 1943

Quando si celebrano i 25 aprile vale la pena ricordare, con un pizzico di realistica mestizia, che per arrivarci, almeno in Italia, bisogna spesso passare attraverso i 25 luglio. Meno epici e appassionanti, ne convengo, nonché sottilmente fraudolenti, perché il colluso che stacca la spina al regime da cui ha fin lì tratto onori e vantaggi rischia poi di apparire un eroe al pari dell’autentico resistente scampato al carcere o al confino, ma talvolta anche più esplicativi, se si vuole provare a ricostruire l’effettiva dinamica degli eventi. Come per il giorno della Liberazione magistralmente ricostruito da Carlo Greppi in un altro volume di questa stessa collana, anche per la seduta finale del Gran Consiglio del Fascismo e per ciò che gli ruota intorno possediamo una pletora di racconti contrastanti, praticamente tanti quanti sono i personaggi coinvolti, e persino di più, dal momento che gli stessi testimoni diretti (Mussolini in primis) ne hanno fornito resoconti diversi in tempi diversi, adattati alle esigenze del momento e pieni di lacune se non di palesi falsificazioni («apocrifi d’autore», vengono qui definiti, scritti unicamente allo scopo «di far risaltare la coerenza, la dignità, il coraggio, la consapevolezza del proprio comportamento» da parte dei rispettivi estensori), rendendo perciò quasi impossibile determinare con assoluta precisione che cosa davvero accadde nei giorni precedenti e poi nella notte tra il 24 e il 25, in quelle nove-dieci ore di una riunione di cui peraltro non è mai esistito un verbale ufficiale (perché, come avrebbe ricordato Federzoni, Mussolini non voleva che il Gran Consiglio «fosse e nemmeno che apparisse libero di esprimere opinioni in contrasto con la volontà del dittatore»; pare fosse rigorosamente proibito persino prendere appunti, per non lasciare traccia neanche di un’eventuale, minima, dissonanza). Nel cercare di incastrare le fonti a disposizione, si tratti di dispacci ufficiali, diari o memorie, Emilio Gentile tratteggia i contorni di un regime talmente sfasciato che i suoi stessi gerarchi finiscono grottescamente per indurne il crollo senza averne mai avuta l’intenzione, contrariamente a quel che di solito si pensa e alla versione che alcuni di loro hanno almeno in parte avallato ex post, attribuendosi una lungimiranza che in quel momento, in realtà, nessuno di loro sembrò possedere, come dimostra del resto lo sgomento che li colse, la sera dopo, alla notizia dell’arresto di Mussolini.

Ma che cosa s’aspettavano, dunque, questi presunti “tirannicidi”, a cominciare da quello il cui nome è più di tutti legato alla data del 25 luglio, lo squadrista della prima ora Dino Grandi? Gentile è meticolosamente spietato nel mostrare come i firmatari del suo ordine del giorno non avessero mai manifestato, fino a quel momento, altro che deferenza e sottomissione nei confronti di Mussolini, con toni perfino imbarazzanti («il mio unico desiderio è di ubbidirti», scrive appunto Grandi al duce nel 1925; e ancora, nel ‘39, «essere sempre più uno degli italiani nuovi che Tu sbalzi a martellate: questo vogliono la mia vita, la mia fede»). L’idea che avessero per tutti quegli anni remato contro, ma di nascosto, evoca quanto ha scritto ironicamente Paolo Rossi a proposito di quegli intellettuali ben integrati che amavano raccontare, a guerra finita, di come avessero esercitato dall’interno un’opposizione occulta al fascismo durante il Ventennio – talmente occulta, appunto, da non essere mai stata minimamente percepita dal regime stesso. Grandi non ha peraltro alcuna responsabilità nella convocazione della seduta decisiva del Gran Consiglio, fissata, come sempre, da Mussolini, né risulta essere l’unico redattore dell’ordine del giorno a lui attribuito, le cui parti più incisive andrebbero invece ascritte a Bottai. E se è vero che egli mostra una certa intraprendenza nel contattare i gerarchi in vista della riunione, non è meno vero che si muove sempre alla luce del sole, presentando il testo che avrebbe voluto discutere sia al segretario del PNF Scorza che allo stesso Mussolini, il quale avrebbe potuto in qualsiasi momento annullare l’incontro o rinviarlo sine die. Che Grandi, come annota nel suo diario, potesse temere davvero di essere arrestato all’istante e fucilato per quello che avrebbe detto – e che tutti più o meno già sapevano – è per Gentile palesemente inverosimile, un mero tentativo di accreditarsi a posteriori quale «eroe solitario e temerario», pronto a rischiare la vita «per restaurare la monarchia costituzionale e restituire al popolo italiano la libertà conculcata dal regime totalitario».

In realtà nulla fa pensare a una congiura ordita nell’ombra, neanche i termini stessi con cui si volle impostare il dibattito. A leggere con attenzione i documenti, quello che viene sottoposto a processo non è infatti mai il fascismo in quanto tale, bensì – come se le due cose potessero essere distinte - il «regime totalitario, considerato la causa principale della disfatta militare per tutti gli errori che il duce – con il suo esasperato accentramento di poteri, con la dilagante prevaricazione negli apparati statali del predominio totalitario del partito fascista, con le più gravi decisioni belliche da lui prese dopo il 1939 senza mai consultare il Gran Consiglio – aveva accumulato negli anni precedenti la guerra, aggravandoli durante il conflitto». Da quel che si può capire, il filo conduttore che lega tutti gli interventi è la richiesta a Mussolini di rinunciare a questa concentrazione di poteri, non alla sua guida politica; nessuno poi si sogna di mettere in stato d’accusa i capisaldi della rivoluzione fascista, che anzi andrebbero semmai recuperati e rilanciati. Quel che i gerarchi più lucidi, come Bottai, hanno in testa non è certo far cadere il loro leader (per lealtà, almeno alcuni, ma anche perché è chiaro che, caduto lui, sarebbero caduti tutti), bensì invitarlo a condividere finalmente le sue responsabilità, come avrebbe sempre dovuto essere. Anche se sei e resterai il “primo” - gli si dice - non è bene che tu sia il solo, perché è stato facile giocare all’uomo della Provvidenza fintanto che le cose sono andate bene, ma quando, anziché spezzare le reni alla Grecia, ci ritroviamo con gli americani in Sicilia, è altrettanto facile diventare un perfetto capro espiatorio per la rabbia collettiva. Poiché, invece, la guerra ci riguarda tutti, non si può continuare a lasciare tutto nelle tue mani; bisogna, anzi, richiamare persino il re ai suoi doveri, affinché si riprenda i poteri di comando delle forze armate (di cui il duce si era appropriato nel 1940, entrando in guerra senza concordarlo con nessuno), in modo da coinvolgerlo, come ai tempi di Caporetto, nella gestione di una situazione complicatissima che, in caso contrario, sarebbe stata addebitata interamente al regime. Tradotto un po’ alla buona: caro re Vittorio, ci hai lasciato fare e abbiamo combinato un disastro; ma è anche un po’ colpa tua, perché non ti sei mai opposto e ti sei gongolato del titolo imperiale, quindi adesso ci devi dare una una mano a riparare i danni, magari aiutandoci a stringere una pace separata con gli alleati. Insomma, quel che si chiede a Mussolini e sì un passo indietro, ma giusto un passo, e allo scopo di salvaguardare, non abbattere, il fascismo. Più che un’esautorazione, è quasi un salvagente – o per lo meno così se lo immaginano loro (con le parole che Grandi avrebbe detto a Cianetti: l’obiettivo è «sollevare Mussolini dalla totale responsabilità della condotta della guerra impegnando la Monarchia, e liberare, dico liberare, Mussolini dalla dittatura!»). Certo non mancano le ambiguità, in questo progetto, né le contraddizioni, segno che le idee erano tutt’altro che chiare, in quella Roma torrida e già ferita dai primi bombardamenti alleati (San Lorenzo è colpita il 19 luglio). Cosa vuol dire, ad esempio, “pace separata” se non si è mai riusciti a fare una “guerra separata” dai tedeschi? E come si comporterà davvero il re? E qual è, concretamente, la “costituzione” fascista a cui si dovrebbe ritornare? Ed è immaginabile un regime che non sia totalitario, un Mussolini che rinunci ai pieni poteri? Bottai registra nel suo diario molti di questi rovelli. E finisce per ammettere che, quand’anche il regime fosse rimasto in piedi, con quella discussione la sua ideologia ne sarebbe uscita comunque travolta: «il nostro dovere ci ha messo a un bivio, tra Paese e Partito, tra Italia e Regime, tra Re e Capo. Tanto duro lavoro per unire, cementare, fondere, fare di due uno nella coscienza una; e, oggi, questo essere a un bivio e un decidere che separa, dentro, che torce, che dilania. Ma è il dovere». La patria non è il fascismo, punto.

Da quel che possiamo capire il confronto fu teso, ma composto, come in tutti i confronti sinceramente sofferti (l’unico che sbraca è quella mina vagante di Farinacci, il quale propone un proprio ordine del giorno, in cui chiede sì di cambiare il regime, ma nel senso di trasformarlo in un’autentica dittatura e se la prende con Mussolini perché troppo morbido: «che Mussolini finisca una buona volta la buffonata di fare il comandante supremo delle forze armate e che il Re riassuma nominalmente il comando militare, sta bene; ma ciò soltanto perché il governo possa affidare tale comando ad altri i quali sappiano fare veramente la guerra. (…) Ma niente fine della guerra. Al contrario, la guerra deve cominciare adesso (…). Mussolini ha fallito, perché semplicemente la sua è una ditattura da burla. Non è la Costituzione che bisogna ripristinare, è, al contrario, una dittatura sul serio che bisogna finalmente instaurare, con o senza Mussolini. I tedeschi non hanno alcuna fiducia in noi ed hanno ragione perché non siamo mai stati leali con loro e perché il regime fascista è diventato un regime di femmine e di preti»). In qualsiasi momento, però, un intervento deciso del Capo avrebbe potuto troncare qualsiasi dibattito, com’era sempre stato. Ciò che, appunto, mette ansia ai gerarchi è che nessuno di loro è davvero in grado di prevedere come la prenderà Mussolini: il duce, manovrando i suoi uomini come pedine a proprio piacimento, attribuendo e togliendo arbitrariamente le cariche, era riuscito nell’intento di sfaldare qualsiasi possibile coesione tra i suoi sottoposti, isolandoli l’uno dall’altro come cortigiani invidiosi e rendendoli incapaci di organizzare una qualsivoglia posizione comune (nessuno si fida di nessuno e i pochi mugugni restano confinati nel privato). Basta però la piccola breccia che fortunosamente si è aperta con quella semplice discussione, l’idea stessa che si possa discutere di qualche cosa, per far implodere l’intero edificio. Il vecchio tribuno sembra infatti aver perso lo smalto dei giorni migliori. Le sue argomentazioni sono deboli, il tono stesso è dimesso, abulico, senza convinzione. Parla per un’ora rovesciando tutte le colpe addosso agli italiani che non si sono rivelati all’altezza della guerra. «Pareva che vagasse in un mondo irreale», commenterà Acerbo, ma non è il solo a restare impressionato in negativo dalle sue parole. A un certo punto, Mussolini vagheggia persino di una misteriosa “chiave” che avrebbe potuto ribaltare le sorti del conflitto, ma è talmente evasivo sul punto da far pensare che si stia inventando le cose. Gentile chiosa che in questa sua requisitoria contro tutti, il duce «rivelava una gravissima irresponsabilità di fronte a una realtà di cui lui solo era il principale e massimo responsabile, avendo posseduto per un ventennio il potere politico incondizionato». Il re è nudo e all’improvviso risulta anche terribilmente patetico. A molti dei presenti la sua linea difensiva appare talmente fragile da far pensare che in realtà quello sia il suo modo per chiedere effettivamente aiuto senza dover pronunciare quella parola e ammettere, così, di avere sbagliato. Sarà più o meno questa la linea difensiva sostenuta dai gerarchi che verranno poi processati e condannati a Verona, qualche tempo dopo, compreso Ciano: se il Capo ci avesse detto chiaramente che un voto a favore dell’odg Grandi avrebbe significato la sua caduta, non lo avremmo mai approvato. Ma già solo il fatto che Mussolini abbia messo al voto quel documento – cosa inaudita, in quel contesto, dato che il Gran Consiglio, per prassi, non votata: accettava – e non abbia neppure dato esplicite indicazioni di voto sembrò un segnale in codice per dire “fate pure: non posso dirlo apertamente, ma vi appoggio”. Certo è che nessuno, in quel momento, ebbe la minima sensazione che quello fosse davvero il preludio della fine.

Il 25 luglio 1943 è domenica. La mattina, Mussolini si reca normalmente al lavoro, poi visita i quartieri bombardati – racconta il suo autista - «accarezzando i bambini, ascoltando le lamentele delle donne e distribuendo personalmente sussidi in denaro ai più bisognosi», come se niente fosse. E come se niente fosse, alle 17, si reca dal re per un’udienza che egli stesso ha chiesto di avere. Forse è convinto di rigirarsi Vittorio Emanuele come vuole («non ho mai fatto nulla senza il suo pieno assenso. (…) Egli è sempre stato solidale con me», confida un paio d’ore prima a Galbiati, uno di quelli che la sera prima aveva votato “no”). Del resto si trattava dello stesso Vittorio Emanuele che per anni si era sottratto a qualsiasi ipotesi di rovesciamento del regime – nonostante il Tribunale speciale, nonostante l’arresto dei deputati, nonostante le leggi razziali, e potremmo andare avanti - trincerandosi dietro una malsana idea di sovranità “costituzionale”, intesa come pura difesa delle forme (secondo cui il governo aveva l’appoggio del parlamento) e non dei diritti che danno senso a quelle forme. E invece re Vittorio, questa volta, tira fuori un asso dalla manica. Da tempo, infatti, i militari avevano elaborato un piano per destituire Mussolini, che probabilmente sarebbe stato attuato quali che fossero le decisioni prese dal Gran Consiglio. Ignari di quelle trame, con la loro votazione i gerarchi finirono così forse solo per offrire in extremis al re un pretesto per uscirne in piedi: forse temendo che a quel punto un colpo di stato avrebbe potuto travolgere anche la monarchia, Vittorio Emanuele, all’ultimo, si decise a pilotarlo (senza, peraltro, ragionare molto sulle conseguenze, come la fuga a Brindisi avrebbe chiaramente mostrato). Tanti “forse”, come si vede: difficile districare tutti i fili della matassa senza che resti qualche groviglio. Resta il fatto che, terminata la riunione tra il duce e il re, il cui esatto svolgimento è rimasto per noi ancor più impenetrabile della seduta del Gran Consiglio (dobbiamo fidarci di quel poco che udì, origliando alla porta, il generale Puntoni, aiutante di campo del re, a cui Vittorio aveva chiesto di tenersi pronto; neanche il sovrano sapeva come Mussolini avrebbe potuto reagire alle sue parole, per cui si premunì: «in caso di necessità intervenga...», disse al militare), il capo del governo viene arrestato. Quando la notizia trapela, i gerarchi, come detto, restano di stucco. Due eventi che probabilmente non appartengono alla stessa serie causale finiscono così per essere inestricabilmente intrecciati.

In tutto questo ciò che stupisce più di ogni altra cosa è proprio il contegno tenuto in quei giorni da Mussolini. Gentile si sofferma a lungo sulla questione. Perché – si chiede – ha lasciato fare? Perché – prima di tutto – ha convocato la riunione del Gran Consiglio, la cui ultima seduta risaliva al 1939 (ultimo atto: l’avallo della “non belligeranza” già decisa da Mussolini stesso) e di cui si era fatto a meno per quattro anni? Perché ha lasciato che davvero si svolgesse un dibattito come quello? Perché ha deciso di mettere ai voti l’ordine del giorno Grandi? Come ha fatto, un animale politico come lui, a non capire che quella serie di decisioni ne avrebbe compromesso seriamente l’autorità? Possibile che riponesse così tanta fiducia nel re? La risposta che lo storico propone è che Mussolini si fosse ormai reso perfettamente conto di aver perso l’appoggio della popolazione (le note informative sugli umori popolari che gli passava il ministero dell’Interno erano piuttosto esplicite in tal senso) e di non aver più neanche la presa ipnotica sui suoi stessi uomini, come la seduta del Gran Consiglio gli rese in ultimo evidente. L’atteggiamento assunto quel giorno, perciò, «non sarebbe stato niente altro che un espediente per trovare finalmente una via di uscita per scendere dal treno della storia, sul quale aveva preteso di guidare l’Italia, ora che, per colpa sua, stava deragliando verso una inevitabile catastrofe». Dal suo punto di vista, fu «come un suo proprio atto di abdicazione per estrema amarezza e ripugnanza», una vera e propria forma di «eutanasia politica», «l’eutanasia di un duce, che aveva perso il suo carisma». Peccato che la sua agonia sia stata pagata così a caro prezzo per altri diciannove mesi da tutti gli italiani.

(finito il 2 giugno 2020)

Ho parlato di


Emilio Gentile
25 luglio 1943
(Laterza, 2018)

XXIV-287 pp. | 18 €

lunedì 5 aprile 2021

La peste e la città

Giusto pochi giorni fa alcune mie classi sono state coinvolte in un interessante percorso promosso dall’Archivio Storico di Savigliano sulla peste “manzoniana” del 1630 che colpì in realtà tutto il nord Italia. Dal momento che non ho potuto parteciparvi in prima persona perché contemporaneamente impegnato in un’altra attività didattica, nelle lezioni successive ho cercato di carpire agli studenti qualche informazione su ciò che era stato raccontato loro. Immancabilmente, tutti quelli che hanno condiviso le loro impressioni si sono detti affascinati soprattutto dal fatto di aver potuto prendere visione (sia pure a distanza) dei documenti ufficiali dell’epoca e delle altre meraviglie che un archivio comunale spesso custodisce senza che molti di noi neanche ne immaginino l’esistenza. Comprendo benissimo quel tipo di emozione. E però – che volete che vi dica? - l’amico Cesare Morandini c’era arrivato prima di tutti. Più o meno un anno fa, di questi tempi (ancora sotto quaresima, dice in effetti lui, ma Pasqua era una settimana dopo), nel cuore del lockdown duro, mentre i più si reinventavano fornai e pizzaioli casalinghi, lui si è invece ricordato che «in una remota cartella del (...) computer» aveva salvato le scansioni degli ordinati comunali di Mondovì (per capirci, i verbali del consiglio comunale) relativi, appunto, agli anni 1630-1631, li ha metaforicamente dissotterrati da lì e ha cominciato a trascriverli, «di sera, nel sottofondo della tv accesa sui notiziari» che a rullo continuo sciorinavano i numeri dell’apocalisse in corso, confrontando così passo passo le affinità e le diversità nel modo di affrontare la comune emergenza a quattro secoli di distanza.

Ora, la domanda è d’obbligo: ma perché mai uno dovrebbe avere salvato da qualche parte nel proprio hard disk gli ordinati seicenteschi del consiglio comunale di Mondovì accanto alle foto delle ultime vacanze a Spotorno, e poi proprio quegli ordinati lì, quelli che parlano della peste, mentre fuori infuria una pandemia globale assolutamente imprevista? Sulla prima parte soprassiedo: ognuno ha le sue personali perversioni. La risposta alla seconda domanda è che la ricerca, spesso, funziona così. Tu lavori, per dire, su un progetto ben preciso, finisci per questo in una qualche biblioteca seguendo un certo filone di indagine o apri un libro alla ricerca di determinate informazioni, ma nel farlo ti imbatti incidentalmente in qualcos’altro che ha tutta l’aria di essere molto interessante e a cui però in quel momento non puoi prestare troppa attenzione perché – appunto – esula del tutto dalla tua ricerca. Allora, senza pensarci più di tanto, te ne fai una copia e la metti da parte perché chissà, magari in futuro se ne potrà fare qualcosa, poi si vedrà. Qui vien fuori il fiuto dello storico, e non solo dello storico (Colombo, in fondo, ha trovato l’America mentre cercava l’Asia). Tante volte, effettivamente, questi reperti restano da parte per sempre, intonsi, perché l’occasione giusta non si presenta mai. A volte, però, accade il contrario – e così è andata. Racconta Cesare, riferendosi a quei giorni di un anno fa: «attorno a me il paese tenta di deliberare le azioni corrette in relazione ad una situazione che non si era mai presentata, o meglio, che si era già presentata molte volte, ma troppo tempo fa. (…) Io faccio la mia parte, e intanto scavo in una miniera che tutti ignorano (…). Io so che queste mura, questo panorama di monti e colline, questi nomi di luoghi hanno già visto tutto questo. Inizio a raccontare, nella penombra segreta del mio schermo, immerso nell’aria tesa di questa storia di coronavirus, quell’altra storia di peste. Senza ragioni particolari, se non per una elementare assonanza. Segretamente, inconsapevolmente, sperando di trovare delle profonde imprescindibili differenze. E per un brivido maligno di disvelamento, quello che sempre prude tra le dita dello storico».

Già, perché, man mano che la trascrizione procedeva, il lavoro di Cesare ha preso un’altra forma. A ricopiare son buoni tutti, bastano due nozioni di paleografia e tanta pratica come correttori di compiti in classe. Quella che alla fine ha compiuto è invece un’operazione che non esito a definire di alto valore culturale, ma anche sociale, e che, mi sbilancio, apre una vera e propria strada tutta da percorrere (al di là del caso specifico preso qui in esame). In buona sostanza, cos’ha fatto Cesare? Ha preso del materiale d’archivio che era lì da secoli – nulla dunque di misterioso o esoterico, nessun manoscritto inedito di Qumran per intenderci - ma che tuttavia non era realmente accessibile a tutti - perché scritto in una lingua ostica, perché stringato come deve esserlo un verbale e al tempo stesso pieno di sottintesi e informazioni ovvie forse per i lettori di un tempo, ma non per noi (a cominciare, per dirne una, dalla toponomastica) – e da questo solido materiale grezzo ha ricavato un’opera che non è narrativa in senso stretto (perché non si può dire che ci sia un intreccio vero e proprio, men che meno una deriva romanzesca) e però neanche puramente saggistica (non solo perché la prosa scorre via che è un piacere e non manca il racconto di episodi gustosissimi, ma anche perché informazioni che in volumi d’altro genere sarebbero state confinate nelle note o negli apparati qui sono rifuse nel testo stesso, integrandolo senza appesantirlo, così da fornire man mano al lettore gli strumenti necessari per orientarsi in un mondo che non è più il nostro, anche se ci assomiglia molto). Direi allora che quella che ne è venuta fuori, dietro l’aspetto di una cronaca mensile degli eventi, è un’opera di affabulazione come lo possono essere le lezioni ad popolum di un Alessandro Barbero, con personaggi indimenticabili (uno su tutti: l'instancabile vicesindaco Orazio Vitale), momenti di grande tensione narrativa, suggestive ipotesi interpretative – e anzi, a dirla tutta, il principale limite di questo libro è proprio il fatto che sia solo scritto, perché chi lo conosce sa bene quanto Cesare, pur scrivendo benissimo, sia ancor più bravo a raccontare le cose a voce, coinvolgendoti nel racconto con le pause, i cambiamenti di tono e la gestualità (ed è per questo che me la vedrei proprio bene la versione video di questo testo, con l’autore che ci parla di medici, suffumigi e calce viva girando nei luoghi della nostra Mondovì via via che ne parla, dal lazzaretto di San Bernolfo e delle Ripe ai palazzi di via Vico in cui il medico Durando attesta il primo caso ufficiale di peste entro le mura cittadine. E quanto sarebbe bello allargare poi il discorso alla Mondovì medievale e a quella napoleonica, alle lotte di fazione e alle dinamiche produttive?).

Apro una parentesi. Quella appena descritta è un’esigenza che mi pare si stia manifestando in molti modi. Per restare grosso modo agli anni della peste secentesca, è uscita da pochissimo una “traduzione” in lingua corrente dei Discorsi e dimostrazioni di Galileo realizzata dal fisico Alessandro De Angelis: operazione che può far storcere il naso ai puristi, ma che, se condotta con intelligenza e competenza, può aiutare un pubblico di studenti o di non specialisti ad accostare testi che diventano via via sempre più difficili da decodificare e che rischiamo per questo di dimenticare. Chiusa parentesi.

Rendere in questo modo di pubblico dominio un pezzo della nostra storia cittadina, i personaggi che l’hanno vissuta e i luoghi in cui si è svolta, è esattamente come rendere di nuovo agibile un vecchio edificio andato in disuso: ci si riappropria collettivamente di qualcosa che è di tutti ritrasformando in risorsa ciò che era diventato un problema (tema a cui noi monregalesi siamo per forza di cose particolarmente sensibili). Un recupero delle nostre radici condotto in questa maniera, brioso nei toni eppure metodologicamente accurato, costituisce inoltre un antidoto al vizio diffuso di spacciare per autentico rispetto del passato quello che è solo un volgare saccheggio della storia per fini ideologici e propagandistici da parte di chi ricorda tutt’al più cos’ha mangiato due sere prima, se va bene. Da questo punto di vista, poi, la storia locale è un vero e proprio campo minato, perché spesso ha l’odore asfittico di certi musei etnografici in cui si glorifica la roncola del nonno come se fosse una reliquia dei Re Magi. Questa lettura, al contrario, ti cattura con i suoi riferimenti a un mondo così familiare eppure così diverso come la tua stessa città di quattro secoli fa, che impari così a far riemergere sotto quella attuale, ma si serve di questo escamotage per allargare i tuoi orizzonti anziché ripiegarli nella contemplazione di un sedicente “eterno ieri” (che la vera storia ha anzi il compito di problematizzare e riproblematizzare).

Su questo libro ho avuto il privilegio di dialogare pubblicamente con Cesare stesso al momento della sua uscita, e per questo qui ho un po’ divagato, immaginando che gli interessati lo abbiano già letto. Aggiungo solo questo. Quando ne discutemmo, cominciavamo appena a rimettere il naso fuori di casa e sembrava che il peggio fosse superato. Anche per questo, l’attenzione allora si focalizzò su certi aspetti anziché su altri. Eppure, nelle pagine finali si ricorda che «con la primavera il contagio riprende con forza»: non è devastante come nei mesi precedenti, «ma è ben vivo». E anche che «la lotta al morbo ricomincia, solo più in sordina rispetto a un anno prima», perché «manca l’allarme, maturato in una rassegnazione amara». Le avevamo forse trascurate un po’, sul momento, quelle considerazioni, anche per scaramanzia. E invece eccoci qua.

(finito il 27 maggio 2020)

Ho parlato di


Cesare Morandini
La peste e la città. Mondovì 1630
(Cooperativa Editrice Monregalese, 2020)



120 pp. | 9,50 €