Stanze

giovedì 31 dicembre 2020

12 dicembre 1969

La data del 12 dicembre 1969 dovrebbe essere scolpita nella memoria storica della Repubblica almeno quanto l’11 settembre 2001 lo è in quella americana (ma mi verrebbe da dire mondiale), così come l’immagine dell’atrio sventrato della Banca Nazionale dell’Agricoltura dovrebbe produrre in noi italiani lo stesso angosciante senso di smarrimento suscitato dallo squarcio di Ground Zero. Che non sia esattamente così, se non ai piani nobili della società, e ovviamente per chi è stato travolto direttamente da quella vicenda, mi pare persino triviale dirlo, anche senza citare quei sondaggi secondo cui, per gli adolescenti di oggi, la strage di Piazza Fontana, quando evoca ancora qualcosa, richiama confusamente una stagione di violenze percepita però come un pastone unico, le cui responsabilità sono infatti attribuite indistintamente ora alla mafia ora alle Brigate Rosse. Che non sia facile raccontarla, quella strage, lo dico per esperienza diretta di insegnante, perché ci sono una marea di addentellati di cui tenere conto se si vuole darne un inquadramento un minimo sensato, ma anche per il cortocircuito concettuale in cui rischi di ingolfarti quando, da un lato, ti sforzi di mostrare ai tuoi studenti l’inconsistenza logica dei vari complottismi odierni e, dall’altro, però ti trovi poi costretto a parlare effettivamente di depistaggi e manipolazioni, ancorché documentati, per spiegare come mai, a cinquant’anni di distanza, conosciamo bene o male chi ha messo le bombe, ma nessuno è in carcere per questo (“ma possibile che sia davvero accaduto tutto questo?” - classica obiezione: “ma dai, prof, non è credibile”). Il che offre un’ulteriore conferma del fatto che, se si vuole nascondere la verità, lo strumento più efficace resta quello di intorbidare le acque, perché peggio che non sapere affatto come stanno le cose è saperlo abbastanza, ma non poterci fare quasi niente, con questo sapere. 

Là dove il magistrato non può arrivare, arriva però lo storico, il cui lavoro può aiutarci a mettere ordine e fare sintesi, portando a galla il rimosso, come una sorta di psicoterapia sociale. Il libro di Mirco Dondi, rielaborazione di un capitolo di un suo più ampio volume dedicato alla strategia della tensione, parte appunto dalla cronaca della giornata del 12 dicembre per allargarsi, ovviamente - e non potrebbe essere altrimenti -, al contesto entro cui si inserì la strage e alle infinite conseguenze (processuali e non), che ne derivarono, fissando così una serie di punti che, fra le tante ombre ancora presenti, dovremmo ormai cominciare a considerare irrevocabile patrimonio comune della nostra coscienza civile. Primo punto: nel 1969 il Paese è in fibrillazione; la spinta riformista dei primi governi di centro-sinistra sembra essersi esaurita prima di avere raccolto tutte le esigenze provenienti da una società in trasformazione; ai vertici delle istituzioni e all’interno della Democrazia Cristiana - che delle istituzioni è il perno inamovibile, ma che è a sua volta un microcosmo tutt’altro che monolitico - si scontrano almeno due strategie diverse, l’una (rappresentata da Moro, allora ministro degli Esteri) interessata a governare politicamente questi processi, non disdegnando l’idea di costruire un asse con lo stesso Partito Comunista, nel quadro di una estensione delle garanzie democratiche, l’altra (ben espressa da Rumor, in quel momento Presidente del Consiglio) intenzionata invece a contenere le forze progressiste anche attraverso il ricorso a una modifica dell’assetto costituzionale in senso moderato-conservatore, con l’avallo dello stesso Presidente Saragat, che per un po’ di tempo sembra persino cullare l’idea di intestarsi un’operazione analoga a quella effettuata un decennio prima da De Gaulle in Francia; in questo secondo senso, lo stillicidio incontenibile di manifestazioni, di proteste e anche di episodi violenti può diventare il facile pretesto cui appellarsi per invocare un ritorno all’ordine che incontri il consenso di un’opinione pubblica impaurita e bisognosa di riferimenti più solidi del milionesimo governo balneare. Perchè non sollecitare allora questa soluzione, uscendo fuori dalle regole del gioco democratico «con operazioni di disturbo (destabilizzanti ma incruente)» da attribuire poi ad eversori “rossi”? Anche gli americani, del resto, approverebbero. 

Ma naturalmente non è che puoi mandare direttamente Rumor a piazzare qualche petardo nei cassonetti: occorre perciò reclutare manovalanza a buon mercato. Ed è qui – secondo punto – che il piano di destabilizzazione “leggera” agognato da un pezzo dello Stato si incontra con il piano di destabilizzazione “pesante” coltivato da un manipolo di neofascisti e da altri pezzi dello Stato (reduci di Salò o comunque ufficiali poco amanti della Costituzione che avevano giurato di servire) - da quelli, cioè, che non si accontenterebbero del presidenzialismo, ma vorrebbero direttamente i colonnelli e una bella sterzata autoritaria, come era avvenuto poco prima in Grecia e come sarebbe avvenuto poco dopo in Cile o in Argentina, approfittando delle condizioni offerte dalla guerra fredda. Qui si entra nella zona grigia degli ammiccamenti e delle ambiguità, per cui è difficile individuare una precisa catena di comando, posto che ci sia effettivamente stata, quantomeno in termini penalmente perseguibili: il meno che si può dire è che, con opportune sollecitazioni e attestate operazioni di infiltrazione, si sono offerte solide coperture e si è lasciato libero corso al furore ideologico di un gruppo estremista nero utile allo scopo, Ordine Nuovo, dalle cui fila provengono non per nulla tutti i principali protagonisti della stagione delle stragi (e attorno a cui gravitarono personaggi che, scagionati dalle inchieste, avrebbero comunque esercitato un ruolo politico non irrilevante nella successiva storia repubblicana, come Pino Rauti). 

Gli ordinovisti meritano due parole. Dondi ne dà questo efficace ritratto: «la maggior parte di loro ha meno di 30 anni nel 1969 (…). Appartengono a classi sociali medio-alte. Il loro elitarismo dello spirito si traduce nel disprezzo verso le classi meno abbienti. (…) Li accompagna il mito della violenza, enunciata ed esibita, il culto del coraggio e della forza fisica, la spietatezza nei confronti del nemico che può ritorcersi anche verso il camerata che non rispetta le consegne. Un gruppo chiuso, autoreferenziale che rifiuta il mondo contemporaneo e la rapida trasformazione politica e sociale che percorre anche l’Italia. (…) Ordine nuovo si differenzia rispetto al Movimento sociale per un tratto ideologico filonazista. Gli ordinovisti si sentono degli eletti, in tutto superiori ai militanti missini (…). É un mondo senza orizzonte sociale, proteso a un conflitto distruttivo, privo di qualsiasi polo relazionale. L’unico bisogno è la gerarchia, in una sfasata quanto ossessiva percezione della guerra». Tali miliziani si considerano - zarathustranamente - uomini del grande disprezzo, novelli samurai impegnati in una lotta senza quartiere contro tutto ciò che c’è di materiale e volgare nel mondo moderno, la cui suprema ipostasi è rappresentata da quella sorta di Grande Satana che sono gli Stati Uniti, ma con i quali però si alleano, perché a questa confraternita di superuomini piace, appunto, giocare alla guerra, ma solo tenendosi bene attaccati alla gonnella di mamma Nato. Vorrebbero tanto identificarsi con gli aristoi che governano lo stato ideale di Platone, ma della Repubblica ricordano piuttosto il bovaro Gige, che può permettersi qualsiasi malefatta grazie al suo anello dell’invisibilità. É proprio per senso di impunità, infatti, che, dopo una serie di attentati dimostrativi, Franco Freda, l’ideologo del gruppo, «uno degli uomini peggiori che l’Italia abbia prodotto, e che ha ripagato l’Italia con il peggio di sé» (come lo ha definito Enrico Deaglio), decide a un certo punto di alzare la posta, architettando una strage che lascia sul campo 17 morti e 88 feriti, ma che sarebbero potuti anche essere di più se fosse scoppiata anche una seconda bomba depositata alla Banca Commerciale Italiana (senza dimenticare gli ordigni che, contemporaneamente, esplosero a Roma, all’Altare della Patria e presso una filiale della BNL). Ma che importa? «“In fondo era plebe”», confesserà più tardi uno dei militanti coinvolti nell’azione. E che sarà mai? «Nulla se paragonato a Hiroshima, Nagasaki o ai bombardamenti su Dresda», commenterà un altro (Delfo Zorzi, che poi in Giappone ci è finito per davvero e tuttora là vive). 

Con uomini di tale risma, dunque, una parte di Stato ha trovato accordi e intese inconfessabili, così inconfessabili che, anche se le cose si erano spinte ben oltre il limite implicitamente pattuito, ogni possibile contatto andava a questo punto in ogni caso insabbiato e l’attenzione dirottata altrove. Perciò si procedette comunque, come prestabilito, con la pista anarchica, l’arresto “pilotato” del "mostro" Valpreda, la falsificazione delle prove, l’assassinio di Pinelli, con tutto ciò che ne discese. Il paradosso storico, se vogliamo, è che in questo modo i profeti della destabilizzazione finirono per diventare agenti di una stabilizzazione molto diversa da quella che si erano immaginati. Nessuna proclamazione di stato d’assedio venne dopo la strage e nessuna legge speciale – anzi, l’unica misura repressiva da parte del governo fu la proibizione di una manifestazione missina prevista per il 14 dicembre che nelle intenzioni dei promotori avrebbe dovuto sfociare in un attacco diretto alle sedi dei sindacati e dei movimenti di sinistra. Rumor avrebbe poi pagato, per così dire, il suo “tradimento” con un attentato fallito nel 1973, un po’ come i mafiosi si sarebbero vendicati su Lima nel 1993 dopo la conferma in Cassazione delle condanne del maxiprocesso. Sono indizi di una responsabilità politica inaggirabile - terzo punto. Già di per sé l’idea di un ricorso a operazioni coperte andrebbe considerata, più che come come un segno di forza, come «una manifestazione di debolezza» da parte di una classe dirigente che dimostrò in quel modo «l’incapacità di dominare, nel quadro della democrazia, le agitazioni sociali», ma ancor più grave è «conoscere la trama e non operare affinché questa venga sventata» e poi tacere perché «la trama è talmente irriferibile da delegittimare le carriere di rispettabili statisti». Così irriferibile che, a tutt’oggi, non ci sono colpevoli condannati e uno come Freda è ancora a piede libero, titolare come allora delle Edizioni di Ar (dove “ar” sta appunto per “aristocratico”: “così e così deve essere, costi quel che costi in termini di spiacevolezze”, si legge sulla pagina di presentazione del loro sito), opinionista per un certo tempo di Libero (giusto per ricordare l’albero genealogico della Seconda Repubblica) e folgorato infine nientemeno che da Salvini e da Trump (i quali sarebbero stati liquidati da un vero oligarca greco come demagogici imbonitori). Certo, «non tutti sanno tutto, ma lo Stato dispone di una cospicua mole di informazioni, dal momento che i suoi servizi sono il bacino di raccolta di numerosi fonte italiane e straniere. Su Ordine Nuovo (…) le conoscenze dello Stato (…) permetterebbero la completa neutralizzazione (…) -, a maggior ragione nel momento in cui la strategia dell’esplosione mortale scavalca la tattica istituzionale delle bombe dimostrative. Se ciò non è avvenuto e, al contrario, molti aderenti sono stati protetti dallo Stato, non resta che ammettere la compromissione delle istituzioni che alla fine hanno valutato come ugualmente funzionale ai loro scopo anche la strategia del sangue. Altri, fra coloro che all’interno dello Stato hanno attivato le azioni, sono rimasti vittime del loro stesso progetto». Per questo piazza Fontana è la «strage dell’innocenza perduta», in quanto «lo Stato ha disatteso il suo ruolo di salvaguardia della sicurezza dei cittadini rompendo il patto sociale alla base della sua legittimazione». 

Gli ordinovisti, che già si sentivano ministri in pectore del nuovo organigramma autoritario, divennero così dei comuni ricattatori, cosa che non li trattenne tuttavia dal seminare altro sangue negli anni successivi, sempre inseguendo ipotetici progetti di rovesciamento dell’ordine costituito che non arrivarono mai da nessuna parte, non tanto perché l’impresa fosse titanica (svuotiamo una volta per tutte di ogni retorico idealismo il loro delirio suprematista), ma perché probabilmente l’obiettivo effettivo di chi si serviva dei loro attentati non era mai stato davvero quello. Al settarismo élitario di chi si crede superiore a tutto e a tutti perché pensa di essere la reincarnazione degli eroi omerici e al pragmatismo immorale di chi ritiene che sia suo compito tutelare in ogni modo lo status quo e la propria rendita, posizioni apparentemente opposte eppure andate così spesso a braccetto con i loro bla bla sullo Stato, la bandiera e la nazione, preferisco il composto silenzio dei milanesi che, con la loro semplice presenza ai funerali delle vittime, gridarono in modo inequivocabile il loro no pasarán! La cultura cattolica ha elaborato l’idea che il popolo di Dio abbia un suo sensus fidei di cui anche il magistero deve tenere conto: nella misura in cui un analogo concetto può essere ripreso nella sfera laica, quella è l’autentica patria in cui pienamente mi riconosco.

(finito l'11 aprile 2020)

Ho parlato di


Mirco Dondi
12 dicembre 1969
(Laterza, 2018)

256 p. | 18 €

venerdì 18 dicembre 2020

Stoner

L’amico che per primo mi parlò di Stoner (si era a una cena tra professori di filosofia e aspiranti tali, qualche anno fa) me lo presentò dicendomi press’a poco che aveva appena finito questo libro, in cui non succedeva assolutamente niente per trecento pagine, ma che alla fine gli aveva prodotto l’effetto come di un pugno nello stomaco (anche se per rendere davvero un’idea dello stato d’animo cui intendeva alludere, dovrei poter riprodurre la sua mimica, più efficace di qualsiasi parola). Confermo l’impressione: a domanda secca non sapresti dire esattamente il perché, ma da questa lettura non ne esci indenne. 

Che il racconto che ci si appresta a leggere non abbia a prima vista nulla di straordinario ce lo suggerisce uno degli incipit più meravigliosamente semplici e contemporaneamente tristi di cui abbia memoria: «William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido». Osservazione a prima vista quasi banale, quest’ultima, ma che, in chi fa l’insegnante di mestiere, e spera di sopravvivere in qualche modo nella memoria dei suoi allievi così come i suoi allievi sopravvivono nella sua, apre subito una ferita al cuore, iniettandovi un’irrimediabile dose di malinconia. Tornano alla mente le parole che Tiziano Sclavi fa pronunciare all’anonimo protagonista di Memorie dall’invisibile (Dylan Dog #19, per chi non c’era): “e allora capii che era vero: viviamo solo se qualcun altro crede in noi. Dunque, ero passato dalla nullità al nulla. Basta che se ne vada l’unica persona che ti abbia mai sorriso”. L’ouverture dà il tono all’opera e quel che ti aspetti, a questo punto, non può che essere la cronaca di uno scacco esistenziale annunciato, che come tale apparirà anche allo stesso protagonista, molte pagine dopo, quando, sul letto di morte, ripensando a un matrimonio sbagliato, a una carriera mai veramente decollata, a un amore vero perso per sempre a causa delle maldicenze, «spietatamente, vide la sua vita come doveva apparire agli occhi di un altro. Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento». 

E però, tuttavia, c’è dell’altro, perché William Stoner non è solo l’ennesimo travet schiacciato da un mondo più grande di lui e magari incattivitosi per questo. Il segreto di questo libro prezioso, la verità che quasi sussurra e che, appunto, ti prende delicatamente alla gola mi pare sia più sottile. La medesima storia, infatti, potrebbe essere anche presentata, al contrario di quel che appare a prima vista, come il racconto di un riscatto: la parabola di un ragazzo nato in una modesta fattoria del Midwest e potenzialmente destinato a ripetere l’estenuante vita dei genitori, se non fosse stato travolto dalla letteratura, a cui si avvicina quasi per caso, e non senza difficoltà, dopo essere stato incoraggiato a iscriversi alla facoltà di Agraria, inizialmente col solo scopo di imparare tecniche e metodi nuovi da applicare ai poderi di famiglia. Qualche anno più tardi, subito dopo aver seppellito il padre e la madre nella tomba per cui essi avevano pietosamente versato le quote di un polizza, «mettendo da parte qualche penny ogni settimana per tutta la vita, anche nei momenti più disperati», Stoner si ritrovò a pensare anche «al prezzo che avevano pagato, anno dopo anno, a quella terra che rimaneva com’era sempre stata, un po’ più arida, forse, e un po’ più parca di frutti. Nulla era cambiato. Le loro vite erano state consumate da quel triste lavoro, le loro volontà spezzate, le loro intelligenze spente. Adesso erano lì, in quella terra a cui avevano donato la vita, e lentamente, anno dopo anno, la terra se li sarebbe presi». Persone dignitosissime, gli Stoner, e tuttavia riassorbite nel suolo senza aver quasi lasciato traccia del loro passaggio al di sopra di esso. 

Ma la letteratura, la poesia, ha il potere di strapparti a questo destino – ecco la scoperta che spariglia d’un tratto l’intera esistenza del loro unico figlio: quando il giovane William leggeva, «il passato sorgeva dalle tenebre e i morti tornavano in vita di fronte a lui, e insieme fluivano nel presente, in mezzo ai vivi, tanto che per un istante aveva la percezione di stringersi a loro in un’unica, densa realtà, da cui non poteva e non voleva sottrarsi. (…) Certe volte rifletteva su com’era pochi anni prima, e il ricordo di quella strana figura, bruna e inerte come la terra da cui proveniva, lo lasciava incredulo. Poi pensava ai suoi genitori, li sentiva estranei quanto il figlio che avevano generato e avvertiva per loro un misto di pietà e amore distante» (altro flash, questa volta da Esenin tramite Branduardi: “Poveri genitori contadini / certo siete invecchiati e ancor temete / il Signore del cielo e gli acquitrini / Genitori che mai non capirete / che oggi il vostro figliolo è diventato / il primo fra i poeti del Paese”). In pagine in cui chi ha avuto la fortuna di fare un po’ di ricerca può facilmente riconoscersi emerge tutto lo stupore e l’immensa gratitudine per quello straordinario mondo nuovo che gli sembra di toccare con mano e al tempo stesso «la coscienza di quante cose ancora non sapeva, di quanti libri non aveva ancora letto. E la serenità tanto agognata andava in mille pezzi appena realizzava quanto poco tempo aveva per leggere tutte quelle cose e imparare quello che doveva sapere». Finché giunge il grande annuncio, per bocca del suo maestro: avrebbe fatto l’insegnante. A quelle parole «si sentì sospeso nell’aria aperta, mentre la sua voce diceva: “È sicuro?”. “Ma certo”, disse dolcemente Sloane. “Come può dirlo? Come fa a saperlo?”. “È la passione, Mr Stoner”, disse allegro Sloane, “la passione che c’è in lei. Nient’altro”. Nient’altro». 

Altro che fallimento: questa è polvere che diventa uomo. E poi, però, quasi senza soluzione di continuità, ecco anche le prime crepe nell’edificio appena appena prefigurato – anch’esse familiari a chi ha seguito un percorso simile. Non solo la sensazione vertiginosa degli sterminati spazi che ora si aprono all’indagine (troppi per una vita sola), e neanche tanto la solitudine del dottorando impegnato a seguire la tradizione classica tra Medioevo e nel Rinascimento - che a un figlio di contadini, abituato al silenzio dei campi, pesa fino a un certo punto. Quanto l’impressione di una sostanziale futilità dell’intero sforzo. Uno parte carico d’entusiasmo e animato da un vibrante fuoco interiore, sentendosi investito di una missione fondamentale per conto della sacra istituzione accademica, salvo poi impaludarsi nell’ordinaria quotidianità delle prime lezioni svolte dall’altra parte della cattedra, quando l’ambizione di poter cambiare il corso del mondo attraverso l’opera educativa si stempera nella freddezza degli studenti e nella compilazione delle migliaia di inutili carte richieste per assecondare la perversa libido dei burocrati. Comincia così a nascere un sospetto, che squarcia il velo delle grandi speranze: «tu credi che ci sia qualcosa qui, che va trovato. Nel mondo reale scopriresti subito la verità. Anche tu sei votato al fallimento. Ma anziché combattere il mondo, ti lasceresti masticare e sputare via, per ritrovarti in terra a chiederti cos’è andato storto. Perché ti aspetti sempre che il mondo sia qualcosa che non è, qualcosa che non vuole essere. Sei il maggiolino nel cotone, tu. Il verme nel gambo del fagiolo. La tignola nel grano. Non riusciresti ad affrontarli, a combatterli: perché sei troppo debole, e troppo forte insieme. E non hai un posto al mondo dove andare. (…) È per noi che esiste l’università, per i diseredati del mondo. Non per gli studenti, non per la disinteressata ricerca della conoscenza, né per le altre ragioni che sentite dire. Quelle sono solo una copertura, come quei pochi individui normali, idonei al mondo, che di tanto in tanto accogliamo tra noi. Ma è tutto fumo negli occhi». 

Come credo accada anche per i ricordi di una vita, la narrazione fino a un certo punto è molto particolareggiata, quasi che ogni dettaglio fosse una particella capace potenzialmente di sprigionare universi interi, poi d’improvviso la materia ripiega su di sé, il tempo accelera e gli anni corrono velocissimi, così che Stoner si ritrova in pensione quasi senza accorgersene. E in quel momento, presa coscienza della malattia che rapidamente lo consumerà, comincia a ronzargli compulsivamente in testa una vocetta: «cosa ti aspettavi?». Ripensandoci meglio, il suo non è stato un disastro, non più di tanto. «Una specie di gioia lo colse, come portata dalla brezza estiva. Ormai ricordava a malapena di aver pensato al fallimento, come se avesse qualche importanza. Gli sembrava che quei pensieri fossero crudeli, ingiusti verso la sua vita». Ciò che rende Stoner così drammaticamente vero è appunto la disarmante normalità di ciò che descrive, che poi coincide con la tentazione di fondo che prima o poi insidia tutti quanti, e cioè che la vita non sia né una tragedia né una commedia, ma semplicemente poco più che un sogno, un’evanescenza. Quando il suo sogno si sta esaurendo e gli scivola ormai dalle mani, William Stoner prende dal comodino il suo libro, la sua tesi di dottorato, il segno più evidente del suo transito terrestre, e lo sfoglia per l’ultima volta. «La luce del sole, attraversando la finestra, brillò sulla pagina e lui non riuscì a vedere cosa c’era scritto». Subito dopo, muore. L’epifania è che non c’è epifania. Ma, davvero, che cosa ti aspettavi?

(Finito il 28 febbraio 2020)

Ho parlato di


John Williams
Stoner
(Fazi, 2012)

Trad. di S. Tummolini

332 pp. | 24,90 €

(ed. or.: Stoner, 1965)


lunedì 16 novembre 2020

Ascesa e caduta di Adamo ed Eva

Credo che, per motivi che saranno subito evidenti, se mai ne avesse avuto notizia, il professor Stephen Greenblatt di Harvard non avrebbe disdegnato di versare alla SIAE il dovuto obolo per richiedere a Max Gazzé il permesso di intitolare questo libro La favola di Adamo ed Eva. Quel che probabilmente non avrebbe accettato, di quella canzone, è l’insistenza con cui la favola suddetta vi era presa a modello di ciò a cui è disposto a credere “un uomo così divertente ed ingenuo” come quello contemporaneo, come se si trattasse di un contrassegno della sua dabbenaggine. Perché – questo l’assunto di base del testo, chiarito sin da pagina due – «gli uomini non sanno vivere senza storie», e ne dipendono a tal punto che persino il trito e ritrito mito dell’Eden può paradossalmente acquistare in forza quanto meno pensiamo che sia una cronaca di ciò che effettivamente sarebbe accaduto all’inizio dei tempi e quanto più ne riconosciamo, invece, il carattere puramente narrativo. «Adamo ed Eva incarnano il potere misterioso e tenace della capacità narrativa umana. (…) L’essere umano plasmato nell’argilla diventò una creatura vivente, si legge nella Bibbia, quando gli soffiarono l’alito della vita nelle narici. In questa scena mitica è codificata una poderosa verità. A dare la vita a Adamo in un determinato momento di un lontanissimo passato fu un respiro, quello di un narratore». Che è poi la consapevolezza che abbiamo progressivamente acquisito man mano che l’interpretazione letterale del racconto e la «persuasiva vividezza» di Adamo ed Eva hanno cominciato a mettere a fuoco «in maniera sempre più precisa e sgradevole i problemi etici che per lungo tempo avevano infestato la loro storia: l’inesplicabile passaggio da una perfetta innocenza alla malvagità, una proibizione divina che impediva la conoscenza necessaria per obbedire a quella stessa proibizione, terribili punizioni universali per quella che appariva come una modesta trasgressione locale», ossia tutte quelle «crepe che erano sempre esistite nella loro storia», ma che si erano sempre accettate perché, in fondo, «era meglio pensare che i conti fossero tenuti con estrema scrupolosità da un Dio onniveggente, seppure così adirato con l’umanità da diventare un assassino, piuttosto che credere in un Dio indifferente o assente».

L’«enorme investimento dogmatico» fatto per secoli su questo racconto impedì qualsiasi ritirata strategica nell’allegoria (come suggerito, ai tempi, da Origene), quando i dubbi cominciarono a diventare sempre più insostenibili. Al contrario, «il realismo sollecitava, anzi imponeva, domande pericolose», come quelle formulate da La Peyrère, Bayle o Voltaire, che le risposte consuete non erano più in grado di soddisfare, finché Darwin non diede loro il colpo di grazia definitivo, rivelando l’«inquietante assenza di una trama, di una forma estetica» nell’evoluzione umana. Da quel momento in poi, «l’uomo e la donna nudi nel giardino, con strani alberi e il serpente parlante, sono tornati nella sfera dell’immaginazione da cui erano originariamente emersi». Ma, appunto, «questo ritorno non ne cancella il fascino né li rende indegni. Anzi, la nostra esistenza sarebbe sminuita senza di loro. Essi restano un modo potente, persino indispensabile, per pensare all’innocenza, alla tentazione e alle scelte morali, all’attaccamento per un compagno amato, al lavoro, al sesso e alla morte». Come i protagonisti dei grandi miti che siamo già da tempo abituati a chiamare così, come Odisseo ed Enea, Pandora e Prometeo, Lancillotto ed Orlando, anche Adamo ed Eva «possiedono la vita – la peculiare, intensa, magica realtà – della letteratura». Per questo è sensato – ecco finalmente il corollario – che ad occuparsene ora, dopo che per secoli lo hanno fatto teologi, artisti e poeti, sia appunto uno studioso di letteratura. 

Di per sé applicare un approccio narratologico all’esame della Bibbia non è più uno scandalo – persino i teologi ormai lo raccomandano. Qualche perplessità in più la può lasciare, invece, il fatto che l’intera storia degli effetti del mito di Adamo ed Eva venga trattata anch’essa, sostanzialmente, come un romanzo, a partire dalla genesi della Genesi (una forma di controcanto, ironico e puntuale, da parte degli ebrei in esilio, ai racconti dell’origine diffusi a Babilonia), proseguendo poi attraverso la ripresa di diversi episodi significativi dell’arte, della spiritualità e della letteratura in cui la storia dell’Eden ha svolto una funzione centrale. Simili operazioni, che spaziano con disinvoltura (troppa disinvoltura?) dai papiri gnostici alla biologia evolutiva, sono infatti molto utili nella misura in cui il loro taglio interdisciplinare ti apre la mente, ti suggerisce delle connessioni da esplorare e ti suscita la curiosità di approfondire il discorso andandoti a leggere altri libri, fra i tantissimi che qui vengono citati e commentati (uno su tutti, il Paradiso Perduto). Il loro peccato originale (perdonatemi) è però che essi sembrano volerti dare l’impressione di racchiudere invece già tutto quello che serve sapere su una data questione – con l’aggravante, in questo caso, che i diversi autori su cui ci si sofferma, per esempio Agostino e Milton (a cui sono dedicate pagine davvero suggestive, specie per me che ne sapevo poco), sono descritti in modo estremamente affascinante, perché chi scrive ha talento affabulatorio, ma saranno poi veramente loro o non piuttosto, anch’essi, dei “personaggi” funzionali alla “storia sulle storie” che Greenblatt intende raccontarci per soddisfare la nostra esigenza di ascoltare dei racconti? Qualche sospetto qua e là viene. Ciò non guasta la lettura: basta solo ricordarsi sempre che sotto la scorza suadente di una confezione elegante, alla fin fine, il frutto che stiamo mangiando è pur sempre un bignamone ben fatto. 

P.s. Nel riprenderlo in mano, mi sono reso conto che questo è stato l’ultimo libro letto praticamente per intero in treno, andando e tornando da scuola, in quel tempo che sembra lontanissimo in cui esisteva il pendolarismo.

(finito il 25 gennaio 2020)

Ho parlato di


Stephen Greenblatt
Ascesa e caduta di Adamo ed Eva
(Rizzoli, 2017)

Trad. di R. Zuppet

478 pp. | 22 €

(ed. or.: The Rise and Fall of Adam and Eve, 2017)

venerdì 6 novembre 2020

La fanta-scienza di H. G. Wells

Se è vero che non possono avere propriamente un solo inventore, perché richiedono un contesto entro cui maturare e tempi lunghi per stabilizzarsi, è però altrettanto vero che nel corso della loro evoluzione i linguaggi passano di tanto in tanto al vaglio di geni capaci di codificarne in modo così potente certe regole da condizionare poi il modo di esprimersi di tutti quelli che proveranno a utilizzarli dopo di loro. É questo il meno che si possa riconoscere a un autore come Herbert George Wells, senza correre il rischio di scivolare nella melmosa diatriba su quali debbano essere considerati gli autentici padri della fantascienza. Infatti, con la cinquina di romanzi raccolti in questa elegante edizione Oscar Draghi, uno più seminale dell’altro, sfornati a ritmo impressionante nell’arco di poco più di un lustro proprio sulla soglia del XX secolo, Wells ha fatto ben più che popolare di macchine volanti le solite storie d’avventura, adeguando gli antichi duelli cavallereschi all’epoca del ferro e dell’acciaio, ma ha insegnato un vero e proprio metodo di scrittura. Esattamente come la filosofia dovrebbe assecondare il corso del pensiero per vedere dove ci conducono i ragionamenti, così lui ha dato corso alla sua fertile immaginazione, lasciando che la miccia delle più scottanti questioni socio-politiche del tempo innescasse il combustibile altamente esplosivo dei suoi interessi scientifici, per costruire non tanto ipotetici scenari futuri quanto specchi deformati del suo magnifico presente e progressivo – da cui poi, sì, qualcosa del suo futuro effettivamente si può ricavare, col senno di poi. 

Rivelatoria è già di per sé la scelta dell’ambientazione temporale dei suoi racconti, immaginati tutti come già accaduti - persino il più cataclismatico del lotto, l’invasione aliena, datata 1894 (il che rende La guerra dei mondi, a tutti gli effetti, un’ucronia). Sotto la forma, solo apparentemente ingenua, del kolossal ricco d’effetti speciali viene così dato sfogo a quegli stessi incubi vittoriani che prendono letteralmente corpo in un Mr. Hyde e che ossessionano la psiche tormentata di un Kurtz, compresa – non a caso - la cattiva coscienza dell’Occidente imperialista: i marziani ci avranno pure schiacciati senza pietà come fossimo formiche, ma «prima di giudicarli troppo severamente, dobbiamo ricordare quale spietata e completa distruzione la nostra specie ha compiuto, non solamente di animali, come lo scomparso bisonte e il dodo, ma delle stesse razze umane inferiori. I tasmaniani, nonostante le loro sembianze umane, furono completamente annientati in una guerra di sterminio sostenuta dagli immigrati europei per ben cinquant’anni. Siamo dunque apostoli di misericordia tali da lamentarci se i marziani combatterono con lo stesso spirito?». Da questo punto di vista, anzi, il dittico composto con I primi uomini sulla Luna non riprende solo la matassa delle speculazioni sull’abitabilità dei mondi, da Keplero fino a Schiaparelli, ma tira anche le fila del dibattito moderno sulla scoperta del Nuovo Mondo, riallacciando i fili di un discorso in cui, già prima di Wells, indiani ed extraterrestri erano spesso andati a braccetto. Come afferma, in un momento di euforia, uno dei due esploratori del suolo lunare, quello più pragmatico: «bisogna annettere la luna! […] Fa parte del fardello dell’uomo bianco […]. Noi siamo come Colombo…!». 

Con personaggi come Hyde e Kurtz, del resto, è strettamente imparentato quel Griffin che, scoprendo la formula dell’invisibilità, e restandone rocambolescamente vittima, protesta la sua marginalità e il risentimento che la abita, rendendo manifesto - sia pure in modo paradossale – un disagio distruttivo che troverà sfogo solo in una disperata lotta contro il mondo intero. Dietro la leggerezza di un racconto a tratti persino comico e pieno di scenette da film muto, si snodano gli assai più tetri cunicoli del sottosuolo, lungo i quali si va da Dostoevskij giù giù fino alle sclaviane Memorie dall’invisibile. In questo modo, dando l’impressione di non far nient’altro che rielaborare l’antico apologo dell’anello di Gige in una satira adatta ai fumetti di Weird Science, con la disinvolta semplicità dei grandi Wells finisce per fornire, probabilmente al di là delle sue stesse intenzioni, una rappresentazione della base psico-sociologica cui attingono i moderni populismi. Con una nota d’ottimismo, se volete, per quanto ambiguo: alla fine il buon senso popolare prevale, se non altro perché non si può vivere in eterno sotto stress. É solo qualche esempio di quella «gigantesca valanga di idee nuove» che questi romanzi racchiudono quasi ad ogni pagina e che hanno reso così gustosa, ancorché più sinistra, questa matura rilettura, dopo il primo, più scanzonato, assaggio avvenuto ai tempi delle medie, quando a colpirmi era piuttosto il loro ritmo, tutt’altro che invecchiato male (curiosamente, da ragazzino leggevo queste cose qui e Salgari, come se non ci fosse stato il Novecento di mezzo: si capisce che poi mi sia rimasto il tarlo dello steampunk). 

Delle infinite cose che si potrebbero dire, azzardo appena qualche spunto che mi sembra degno di nota. Anzitutto, la straordinaria capacità che Wells ha di rielaborare idee che erano nell’aria (dal darwinismo, di cui coglie le immense potenzialità conoscitive, al marxismo, alle indagini genealogiche di Nietzsche), centrifugandole in un concentrato narrativo in cui è possibile individuare non solo una quantità di futuri soggetti letterari o cinematografici – dall’invasione aliena, appunto, al body horror - ma anche intuizioni fondamentali di settori disciplinari che troveranno pieno riconoscimento solo nei decenni successivi (uno su tutti, la sociobiologia). Penso ad esempio alle puntuali descrizioni dei corpi dei marziani e dei seleniti: i tempi lunghi dell’evoluzione e le peculiari condizioni dei rispettivi habitat hanno prodotto, nel primo caso, un potenziamento del loro apparato cerebrale a scapito del resto del corpo e della componente affettiva riconducibile ad esso (ciascuno di essi appare infatti come «una massa grigiastra e arrotondata, grande pressappoco come un orso», con una bocca priva di labbra da cui cola saliva e un’appendice tentacolare; «essi sono delle teste, semplicemente delle teste», ma, «senza il corpo, il cervello doveva naturalmente diventare un’intelligenza più egoista, del tutto ignaro del sostrato emotivo degli esseri umani»); nel secondo, invece, l’effetto finale è quello di una specializzazione estrema degli arti a seconda delle funzioni sociali svolte dai singoli individui, anche qui con l’implementazione abnorme del cervello nel caso del Gran Lunare, l’ape regina di quell’alveare cavo che è la Luna («lo sviluppo illimitato delle menti della classe intellettuale è reso possibile dall’assenza assoluta, nell’anatomia lunare, di un cranio osseo, quella strana scatola che contiene il cervello umano e ne limita imperiosamente le possibilità»; ad atrofizzarsi, per lo stesso motivo che rende insensibili i marziani, è qui, invece, con reminiscenza forse scolastica, «la capacità di ridere, eccettuato il caso dell’improvvisa scoperta di un paradosso [...]; la sua più profonda emozione è data dalla soluzione d’un nuovo calcolo»). Sulla Luna l’opera della natura è però accelerata dalla tecnica, che procede alla modellazione, sin dalla culla, di creature abilitate a una specifica attività («esiste pure una specie di selenita girarrosto, assai comune, il cui dovere e la cui unica delizia consistono nel fornire la forza motrice a svariati apparecchi»). Ma per quanto questo invasivo condizionamento infantile possa risultare disturbante, si tratta pur sempre – nota con ironico candore il protagonista – di «un processo molto meno crudele del nostro terrestre di lasciare che i bambini divengano uomini per trasformarli, allora soltanto, in macchine». Analogamente, «narcotizzare l’operaio di cui non ci si può servire e tenerlo come riserva è meglio certamente che cacciarlo dalla fabbrica ed esporlo a morire di fame sulla strada». Siamo proprio al punto di congiunzione tra Swift ed Huxley, direi. 

La divaricazione specifica indotta dai diversi ruoli sociali e da una diversa simbiosi con le macchine è anche al centro de La macchina del tempo, con quella visione dell’anno Ottocentomila in cui la separazione tra capitalisti e lavoratori non si sarà risolta con la rivoluzione, ma avrà determinato la scissione dell’umanità in una razza di imbelli e fanciulleschi abitanti del mondo di superficie e in un’altra di scimmiesche creature sotterranee dedite esclusivamente alla produzione. La «tendenza dei ricchi all’isolamento e all’esclusione degli altri» porterà «alle estreme conseguenze logiche il sistema industriale dei nostri tempi», rovesciamento dialettico compreso: i ferini Morlocks provvederanno sì alla necessità dei belli e fatui Eloi per atavica abitudine alla schiavitù, ma per ancora più atavico istinto naturale, ne faranno anche oggetto di preda in apposite razzie notturne. Ecco come si presenterà «l’ultima grande pace» sulla Terra, prima che il «tramonto eterno» si inghiottisca tutto, trenta milioni di anni nel futuro, come delineato in uno squarcio visionario di «desolazione paurosa» che lascia veramente un brivido lungo la schiena, anche per l’apparizione, su questo sfondo crepuscolare, delle estreme creature del pianeta, «una cosa simile a una grande farfalla bianca» e un’altra «simile a un mostruoso granchio». Tutto qui, dunque? - verrebbe da dire. Bisogna forse pensare che, nonostante la presunzione di vivere in una belle époque e le nostre tronfie Esposizioni Universali, non siamo noi i veri padroni della Terra (difesa meglio, peraltro, dalla carica virale di un batterio che da tutte le nostre armi messe insieme)? 

D’altra parte, la presenza di un ineliminabile residuo bestiale sotto la scorza della nostra umanità può avere risvolti anche meno rassicuranti dell’affermazione di una pura, ma anaffettiva, intelligenza. É l’acquisizione angosciante cui approda il protagonista de L’isola del dottor Moreau, dopo aver assistito al gigantesco e fallimentare progetto, messo in piedi da uno scienziato eretico, di riplasmare animali di vario genere in forma umana, riproducendo in vitro, su un’isola del Pacifico dimenticata da Dio, il processo doloroso di costruzione della morale e della religione (tutti spunti che non resteranno ignorati – in William Golding, per dirne solo uno). «Gli uomini e le donne che incontravo», osserva il narratore, una volta rientrato nella civile Inghilterra, «erano creature bestiali ancora passabilmente umane, animali plasmati in parte, così da avere l’aspetto esteriore di esseri umani; presto sarebbero regrediti mostrando, prima uno, poi un altro, carattere bestiale. […] Allora guardo i miei simili intorno a me. E ho paura. Vedo volti acuti e brillanti, altri stolti o pericolosi, altri volubili e insinceri; nessuno che abbia la calma autorità dell’essere ragionevole. Mi sembra che l’animale stia per affiorare in loro, che presto la degradazione degli abitatori dell’isola tornerà a manifestarsi su larga scala. […] Neanch’io ero una creatura ragionevole, ma un animale tormentato da qualche strana malattia cerebrale che mi spingeva a vagare solitario, come una pecora impazzita». E difatti basta che un trauma faccia saltare come un tappo le regole abituali su cui si basa la nostra fragile convivenza, perché a quel punto possa capitare davvero qualunque cosa. Tutti sanno cosa è giusto e cosa è sbagliato, in teoria, «ma non sanno di che cosa può essere capace un uomo messo alla tortura. Ma coloro che sono stati nelle tenebre, coloro che le hanno discese fino in fondo, avranno più carità». É sempre e solo La guerra dei mondi, dobbiamo dirlo, ma si stanno già preparando le condizioni per I sommersi e i salvati.

(Finito il 22 gennaio 2020)

Ho parlato di


La fanta-scienza di H.G. Wells
La macchina del tempo, L'isola del Dottor Moreau, L'uomo invisibile, La guerra dei mondi, I primi uomini sulla Luna
(Mondadori, 2018)

Trad. di M. Monti, G. Mina, A. Monti

538 pp. | 25 €

(ed. or.: 1895-1901)

venerdì 2 ottobre 2020

Storia del Terzo Reich

Benedette siano le biblioteche scolastiche, che magari non saranno sempre aggiornatissime, ma nelle quali, proprio per questo, in un momento di attesa, ti può capitare di buttare l’occhio su vecchi volumi ormai fuori commercio che per mole o per costi difficilmente entrerebbero mai nella tua libreria di casa. Non è esattamente questo il caso della Storia del Terzo Reich di William Shirer (il cui titolo inglese, The Rise and Fall of the Third Reich, è però un calco gibboniano piuttosto beffardo, se si pensa alle ben diverse durate dell’impero romano e del dominio nazista), testo degli anni ‘60 che, nonostante la consistenza monumentale di oltre 1700 pagine, continua ad essere periodicamente ristampato, anche in formato tascabile e perfino – di recente – come allegato in edicola. Tuttavia è proprio così che mi ci sono accostato, ormai già più di un anno fa, durante i caldissimi giorni della Maturità 2019, aggirandomi fra gli scaffali del mio liceo in occasione di una pausa caffè, dopo un colloquio con qualche candidato in cui si era finiti a parlare, appunto, dell’ascesa al potere di Hitler. Cominciato senza pretese, come se dovesse trattarsi di una sfogliata estemporanea, il libro mi ha invece rapito e impegnato in due intense sessioni di lettura, una per ciascuno dei volumi di cui è composto, portate a termine con grande soddisfazione (come sempre mi capita con questi testi ciclopici) a distanza di qualche mese l’una dall’altra. L’autore era un giornalista – e si vede da come spesso si perde dietro ai pettegolezzi e ai retroscena. Come corrispondente dalla Germania, è però stato anche un testimone oculare di buona parte della storia che racconta e, intrecciando abilmente i documenti d’archivio con la propria esperienza diretta, produce una ricostruzione estremamente avvincente degli eventi, sull’interpretazione complessiva dei quali non ci metterei sempre la mano sul fuoco, ma che è in ogni caso utilissima per farsi un’idea di cosa sia stato il nazismo, anche nei risvolti meno noti. Non è un caso che le sezioni che più mi sono rimaste impresse siano proprio quelle in cui il suo indiscutibile mestiere ha modo di dispiegarsi in tutta scioltezza, come quelle dedicate ai frenetici negoziati che accompagnarono le diverse fasi dell’espansionismo hitleriano nella seconda metà degli anni ‘30, fino al grottesco balletto diplomatico concluso con il patto Molotov-Ribbentrop. 

Ma ben prima di arrivare qui, il racconto ripercorre dall’inizio gli anni di apprendistato del figlio di un doganiere austriaco senz’arte né parte, poco brillante negli studi, maldestro, squattrinato, sostanzialmente privo di una regolare occupazione, di amici stabili e di qualsiasi prospettiva di vita, almeno finché non risuonarono le sirene della guerra ed egli decise di arruolarsi volontario, non però al servizio degli Asburgo, alla cui leva – anzi – si era sottratto «perché detestava servire nell’esercito a fianco di ebrei, slavi e altre minoranze etniche dell’impero», bensì sotto le insegne bavaresi, agognando già allora la riunificazione di tutti i tedeschi sotto un unico Stato liberato di tutte le sue sgradevoli impurità. É ovvio che, in una storia del Terzo Reich, Hitler sia costantemente al centro della scena. Ma nell’attenzione che qui gli si dedica c’è una precisa chiave interpretativa, espressa con parole prese a prestito da Meinecke: «Hitler – si dice – è uno dei grandi esempi (…) della singolare incalcolabile potenza della personalità nella vita storica». Di quest’uomo Shirer osserva che, «sebbene malvagio, era certamente (…) geniale. É vero che il popolo tedesco era stato misteriosamente predisposto a quell’evento da secoli di esperienza, e che egli trovò in esso uno strumento naturale che seppe plasmare come volle per raggiungere i suoi fini sinistri; ma non c’è dubbio che senza la personalità demoniaca di Adolf Hitler, senza la sua volontà di ferro, i suoi strani istinti, la sua fredda mancanza di scrupoli, la sua intelligenza eccezionale, la sua potente immaginazione e la sua quasi incredibile capacità di dominare uomini e situazioni fino alla fine, quando ebbro di potere e di successi oltrepassò ogni limite, il Terzo Reich non sarebbe mai esistito». Come capita a volte a certi cronisti, i quali enfatizzano il proprio argomento per dare importanza a se stessi e al loro racconto, qui Shirer si fa forse un po’ prendere la mano. Perché, poi, a una lettura attenta, quelle che emergono dalla sua stessa ricostruzione sono piuttosto le lacune, anche tecniche, dell’azione politica di Hitler e la conseguente sensazione che a garantirne il successo sia stata certo un’incrollabile ma del tutto arbitraria forza di volontà (ammirevole finché si vuole, eppure non più lucida della cocciutaggine di un bambino), ma soprattutto tutta una serie di circostanze propizie verificatesi in parte per motivi che non dipesero minimente da lui (uno su tutti, il crollo di Wall Street del 1929), in parte, e soprattutto, per incapacità, ottusità e mancanza di coraggio di chi avrebbe dovuto e potuto opporglisi, sia in Germania che all’estero, senza attendere la catastrofe finale. Come l’arrogante a cui si concede di tutto perché se ne temono le reazioni e non si ha voglia di sentire le sue lamentele, così Hitler godette a lungo di una sostanziale impunità che gli consentì per anni di dare compimento a tutte le sue principali promesse, pur rimescolando di continuo le carte e pur mostrando di non avere altra strategia che non fosse quella del continuo colpo di mano coronato da vittoria, cosa che contribuì ad alimentare, a sua volta, il suo mito di vincente. In questa prospettiva, gli ultimi, deliranti mesi passati a dare ordini impraticabili dal suo bunker sotto Berlino non sarebbero tanto da intendersi come il crollo di una mente brillante, ancorché luciferina, travolta dagli eventi, bensì come il rendersi infine palese di una sostanziale dissociazione dalla realtà che c’era sempre stata ma che i risultati via via ottenuti avevano semplicemente messo in secondo piano (così come l’aumento del PIL ci fa perdonare qualunque scandalo al leader di turno). Tra i testimoni di quei momenti finali c’è chi non riesce comunque a sottrarsi all’incantesimo e continua a dichiarargli assoluta fedeltà, ma c’è anche chi si rende finalmente conto, non senza sgomento, che per tutti quegli anni si era tutti dato retta fondamentalmente a uno squilibrato. 

E allora, su questo sì, Shirer ha ragione: le singole persone forse non hanno il potere di condizionare il corso della storia, ma le persone giuste (o sbagliate) al momento giusto (o sbagliato) possono fare da catalizzatore e suscitare reazioni a catena devastanti. L’ho già scritto, forse, ma ci insisto, perché è un punto che mi inquieta molto. Il potere dei mediocri, specie se arrivisti, è incalcolabile. «Questo era il coacervo di uomini attorno al capo dei nazionalsocialisti», osserva Shirer dopo aver tracciato un breve profilo dei principali gerarchi: «in una società normale, essi sarebbero apparsi come un grottesco assortimento di scombinati. Invece negli ultimi caotici tempi della Repubblica, a milioni di confusi tedeschi essi cominciarono ad apparire come dei salvatori». Di riflesso, slogan e ragionamenti che sarebbero apparsi insensati a una mente appena appena pensante, per ragioni credo mimetiche diventarono rapidamente inattaccabile senso comune, non appena la loro iterazione superò una certa soglia critica. «Spesso, in una casa o in un ufficio tedesco, e talvolta durante una conversazione occasionale con uno sconosciuto al ristorante, in una birreria o in un caffè, mi è capitato di trovarmi di fronte alle asserzioni più strane da parte di persone apparentemente istruite e intelligenti. (…) Qualche volta si cedeva alla tentazione di farlo notare, ma si era accolti in questo caso da un tale sguardo di incredulità, da una tale reazione di silenzio (come se si fosse bestemmiato contro l’Onnipotente) che si capiva quanto fosse inutile perfino tentare di prendere contatto con una mente ormai deformata, per la quale la realtà delle cose era divenuta quella che Hitler e Goebbels, cinicamente incuranti della verità, indicavano come tale». 

Capita, quando un narcisista monomaniacale incontra una massa di risentiti e la convince di essere “uno di loro”, appartenente anch’egli, come si legge nel Mein Kampf, al «gregge degli anonimi, a quei milioni di individui che il destino lascia vivere e poi richiama dalla vita, senza che la loro esistenza sia comunque presa in considerazione da qualcuno». Prototipo di tutti gli sbandati che, non avendocela fatta, gridano al complotto, molto più uomo del sottosuolo che non übermensch, Hitler riesce nella manipolazione suprema di presentarsi come uno che sarebbe disposto a morire per il suo popolo, quando in realtà tutto ciò che gli riesce di fare è solo di esigere che il suo popolo muoia con lui. Si finisce così, se si antepone la lusinga alla sostanza. Per dirne solo una, senza arrivare neanche ai campi di sterminio, «tutti i propagandisti del Terzo Reich, da Hitler ai suoi seguaci, non mancavano mai, nei loro discorsi in pubblico, di scagliarsi contro la borghesia e i capitalisti, dichiarando la loro solidarietà con i lavoratori. Ma uno studio attento delle statistiche ufficiali, che probabilmente ben pochi tedeschi si prendevano la briga di calcolare, rivelava che erano i tanto attaccati capitalisti, e non i lavoratori, a trarre i maggiori benefici dalla politica nazista» - che è poi la stessa cosa che accade anche oggi con i nostri cosiddetti sovranisti. Contenti voi, se continuano a piacervi capitani di questo genere.

(Finito il 13 dicembre 2019)

Ho parlato di

William L. Shirer
Storia del Terzo Reich
(Einaudi, 1962)

Trad. di G. Glaesser

2 voll. | 1778 pp. | 4000 lire

(ed. or.: The Rise and Fall of the Third Reich, 1960).

giovedì 10 settembre 2020

Memorie di un rivoluzionario

Insegnare (e prima ancora studiare) la storia è uno dei motivi per cui sono grato di esistere. E tuttavia non nascondo la frustrazione che immancabilmente provo quando mi rendo conto che, con tutta la buona volontà, le mie lezioni non riusciranno mai a restituire la complessità degli intrecci e dei percorsi che caratterizzano le vicende di cui parlo. Quando devi riassumere in un’ora la guerra dei Cent’anni, va da sé che è una battaglia quasi persa in partenza. Ma avvicinandosi ai nostri giorni le cose si complicano ulteriormente, perché le informazioni a disposizione crescono, i distinguo si moltiplicano e tutte le categorie impiegate per fare sintesi sembrano clamorosamente inadeguate non appena scavi un po’ sotto la superficie degli eventi e ti immergi negli irripetibili itinerari personali di chi quegli eventi ha prodotto. Oltrettutto si corre il rischio, semplificando, di condannare all’oblio proprio quegli eccentrici che dovrebbero invece farci da maestri per la loro capacità di mantenere un cuore caldo e una mente lucida anche nel buio e nel freddo della notte più nera. 

Prendiamo il caso di Victor Serge. Figlio di esuli russi in Belgio, quando «dalla Russia sciamavano per il mondo uomini e donne plasmati da combattimenti senza quartiere», nato e cresciuto – come amava dire – «sulle vie del mondo», a stretto contatto con la miseria disperata di masse di uomini e donne stritolate e ridotte alla fame perché il progresso consentisse a pochi eletti di accumulare «insolenti ricchezze», secondo la spietata logica selettiva di «un individualismo primordiale» che li spinge a chiudersi nelle proprie case, «con le loro tende ben tirate sull’ognuno per sé – e Dio per tutti, se volete!», Serge matura precocemente l’esigenza di «battersi per una evasione impossibile» da tale sistema disumano e apparentemente invincibile, per la semplice, ma granitica ragione che «questo mondo è inaccettabile in sè». La decisione di impegnarsi «attivamente contro tutto ciò che sminuisce gli uomini e partecipare a tutte le lotte che tendono a liberarli e a farli più grandi» lo spinge ad aggregarsi ai circoli anarchici di Parigi, dove nel frattempo si è trasferito, e questa adesione gli costa il primo dei tanti arresti cui andrà incontro, che lo tiene lontano dalle trincee quando scoppia la Prima guerra mondiale. Offertosi con altri per uno scambio di prigionieri quando arriva la notizia della Rivoluzione d’Ottobre, approda con altri compagni a Pietrogrado nel gennaio 1919. In Russia si aspettava di respirare finalmente «l’aria di una libertà, senza dubbio dura e persino crudele con i suoi nemici, ma larga e tonica». E invece trova la Ceka e uno Stato poliziesco che poco per volta soffoca qualunque espressione di dissenso anche fra i suoi sostenitori. Serge decide in quel frangente che sarebbe stato comunque con i bolscevichi, «perché davano compimento con tenacia, senza scoraggiamenti, con ardore magnifico, con passione riflessa, alla necessità stessa», con una meravigliosa forza d’animo e assumendosene tutte le responsabilità; ma sarebbe stato con loro «liberamente, senza abdicare al pensiero né al senso critico», per combatterli lealmente, dall’interno, «con libertà di spirito e in spirito di libertà» – perché quella rivoluzionaria, ritiene, è l’unica battaglia giusta da portare avanti, anche a costo della vita. 

Di qui in poi si muoverà perciò sempre all’opposizione, minoranza delle minoranze, perennemente sul filo del rasoio in un regime che stava erigendo il sospetto a sistema di governo. Lavorerà per conto della Terza Internazionale, sarà agente clandestino in Germania e in Austria, conoscendo un sacco di compagni e non stancandosi mai di denunciare nei suoi scritti la «controrivoluzione burocratica» che stava prendendo piede in Unione Sovietica, le sofferenze inenarrabili delle sue vittime e lo sviluppo totalitario che era entrato «in contraddizione con tutto ciò che è stato detto proclamato, voluto, pensato, durante la rivoluzione stessa». Alla fine pagherà questa sua schiettezza con un nuovo arresto, la deportazione in una regione interna a ridosso degli Urali, la proibizione di continuare a scrivere – e forse la cosa peggiore di tutte – la diffusione di menzogne sul suo conto per giustificare quel trattamento, a causa delle quali molti vecchi amici gli toglieranno il saluto. A salvarlo dalla morte è la fama e la mobilitazione per la sua scarcerazione promossa da alcuni scrittori francesi proprio nel momento in cui Stalin cercava sponde a Occidente avallando i Fronti popolari. Scarcerato, Serge rientra in Francia, boicottato da quanti pensavano solo quello che il partito diceva di pensare e invitato da altri a non parlare male dell’URSS perché per il popolo quello doveva restare un ideale saldissimo a cui aggrapparsi nei giorni duri che sarebbero venuti. Stretto tra l’ostilità comunista e il dilagare del nazifascismo, osserva con angoscia crescente le vicende disastrose della guerra civile spagnola, le faide intestine al campo rivoluzionario («la corruzione del meglio è quanto c’è di peggio») e poi il precipitare degli eventi che portano allo scoppio della Seconda guerra mondiale, finché decide di accodarsi agli sfollati che lasciano Parigi, imbarcandosi infine alla volta del Messico, dove troverà ospitalità e potrà scrivere le memorie raccolte in questo libro. 

Memorie, non autobiografia, come uno potrebbe anche lasciarsi sfuggire. É Serge stesso a notare, quasi in chiusura, che, nonostante il filo conduttore del racconto sia fornito dal susseguirsi cronologico delle vicende che gli sono accadute, «ci si sarà accorti che non sento molto interesse a parlare di me stesso». Sappiamo incidentalmente che ha un figlio, una moglie – poco altro. E questo perché «mi è difficile dissociare la persona dai complessi sociali, dalle idee e dalle attività cui partecipa, che importano più di lei e le conferiscono un valore», in quanto «il senso stesso della vita consiste nella partecipazione cosciente al senso della storia». Altrove è ancora più esplicito: «l'“Io” mi ripugna come una vana affermazione di se stessi, contenente una gran parte di illusione e un'altra di vanità o di ingiusto orgoglio: ogni volta che è possibile, vale a dire ogni volta che posso non sentirmi isolato, che la mia esperienza illumina da qualche lato quella di uomini ai quali mi sento legato, preferisco impiegare il “noi”, più generale e più vero. Non si vive mai soltanto di se stessi, per sé, non bisogna tentarlo, bisogna sapere che il nostro pensiero più intimo, più nostro, si ricollega con mille legami a quello del mondo; e colui che parla, colui che scrive, è essenzialmente un uomo che parla per tutti coloro che sono senza voce», perché schiacciati da un sistema sociale ingiusto o perché ingoiati dalle fauci di un mostruoso apparato totalitario. A molti di questi compagni perduti, di cui non si è più saputo nulla, Serge dedica straordinari ritratti, lasciando intendere che ciascuno di essi potrebbe essere protagonista di uno specifico romanzo, se il romanzo tradizionale fosse il modo adeguato di raccontare la storia della sua generazione, che è stata invece un’impresa collettiva («descrivo questi uomini perché sono loro riconoscente di essere esistiti e perché incarnano un’epoca. La cosa più probabile è che siano morti tutti»). Del resto, le radici della sua militanza affondano sostanzialmente in un appassionato, sconfinato, irrinunciabile «bisogno di partecipare alla sorte comune». «Nulla ci appartiene veramente, se non la nostra buona volontà di partecipare alla vita comune». Il rivoluzionario, infatti, «non vive per se stesso»; è «al servizio di un’infinito – che per noi è l’umanità» ed è, per questo, in «comunione (…) con tutti gli uomini di tutti i tempi». Non siamo distanti dal “mi rivolto dunque siamo” di Camus, ma anche da certa mistica medievale. E vien quasi da piangere, a pensare agli orizzonti meschini e alle pulsioni narcisistiche di chi oggi occupa il centro della scena politica. 

Eppure, quest’uomo che dice che «le esistenze individuali non mi interessavano – a cominciare dalla mia – altro che in funzione della grande vita collettiva di cui siamo soltanto frammenti più o meno dotati di coscienza» non esita poi a rivendicare con assoluta intransigenza, anche quando ciò significa esporre il fianco all’implacabile pressione del regime, la difesa e il rispetto dell’uomo, «l’uomo, chiunque esso sia, fosse pure l’ultimo degli uomini», senza di cui «tutto è falso, fallito, viziato», socialismo compreso. Il tema della libertà è esattamente ciò che la Rivoluzione non ha saputo tematizzare, dominata com’era da un’aspirazione verso l’assoluto (derivata almeno in parte dalla mentalità russa dei suoi capi) facilmente convertibile in intolleranza (che è cosa ben diversa, per Serge, dalle durezze anche comprensibili che la lotta richiede). Per questo, se rifiuta nettamente l’etichetta di “individualista”, non disdegna invece quella di “personalista” – ed è significativo che «sulla semplice dottrina del rispetto della persona umana» si riconosca in perfetta sintonia con quei «cattolici di sinistra che erano cristiani autentici e belle intelligenze oneste», come Mounier e il gruppo di Esprit, i quali «avevano orrore della menzogna e del sangue versato sotto il sigillo della menzogna, e lo dissero fortemente» («i cattolici di sinistra – aggiunge in un altro passo, lasciatemelo notare – sono di una bella stoffa morale e intellettuale. Dei preti concorrono alla salvezza dei profughi più perseguitati. E uno di essi mi dice: “I soli che senza dubbio non convertiremo mai al cristianesimo sono i vecchi borghesi cattolici...”»). 

Ora, fra i requisiti fondamentali per garantire la dignità della persona un posto essenziale ha la difesa congiunta della verità e della libertà di pensiero, termini non antitetici qualora si abbandonino pregiudizi e schematismi e si prenda atto che «i rapporti tra l'errore e la conoscenza giusta sono ancora troppo oscuri perché si possa pretendere di regolarli autoritariamente; senza dubbio all'uomo occorrono lunghi erramenti attraverso le ipotesi, gli sbagli e i tentativi dell'immaginazione, per giungere a mettere in chiaro conoscenze più esatte, in parte provvisorie; giacché ci sono poche esattezze definitive». Ciò che bisogna temere non è dunque la mancanza di certezze, ma semmai il loro eccesso, che si manifesta sotto forma di falsificazione diffusa. Il Mein Kampf spiega con cinismo perfetto come applicare alla politica le tecniche della pubblicità commerciale, «aggiungendovi, su un fondo di irrazionalismo, una violenza forsennata» - come ha imparato bene a fare la Bestia di Morisi: «la sfida all’intelligenza umilia quest’ultima e ne prefigura la disfatta. La affermazione enorme e inattesa sorprende l’uomo medio, il quale non concepisce che si possa mentire in quel modo. La brutalità lo intimidisce e riscatta in certo qual modo l’impostura; l’uomo medio, mentre sviene sotto il colpo, ha la tentazione di dirsi che dopotutto quella frenesia deve avere una giustificazione superiore che oltrepassa la sua comprensione». 

Serge aggiunge poi che «il buon successo di simili tecniche è possibile soltanto in epoche torbide e a condizione che le minoranze coraggiose, che incarnano il senso critico, siano bene imbavagliate o ridotte all’impotenza dalla ragion di Stato e dalla mancanza di risorse materiali», e forse, nel dire così, si dimostra persin troppo fiducioso nelle capacità razionali degli uomini, ma non poteva prevedere la pervasività molecolare dei social media e il costante chiacchiericcio di fondo della rete, che vanifica gli sforzi argomentativi senza doverli neanche proibire. É la stessa fiducia che gli fa confessare, concludendo il libro, nel 1943, a guerra ancora in corso, di provare un sentimento di «piena attesa». Quello che ha imparato dagli esuli russi fra cui è cresciuto, infatti, è che «la rivoluzione veniva loro incontro dal fondo dell'avvenire, inesorabile». Per questo, apparentemente del tutto a sproposito, mentre descrive il suo rocambolesco abbandono della Francia e l’«usura morale» che l’ha portata a svendersi a Hitler per tutelare il suo meschino benessere, può comunque sostenere che, nonostante tutto, «ci sentiamo, sul nazismo vittorioso, in splendido vantaggio: lo sappiamo condannato». Ciò non significa però automaticamente la discesa del paradiso in terra. Il mondo, dice Serge, è vertiginosamente cambiato in pochi decenni e «nessuna dottrina ha resistito all’urto». Chi lo ha trasformato è invece la potenza tecnica, che sta predisponendo uno scenario radicalmente nuovo, tutto da programmare e da costruire. Per farlo servono, più che mai, teste pensanti e mani volenterose, altrimenti, come un po’ già è accaduto, «le rivoluzioni inevitabili saranno dirette da ex nazisti, ex fascisti, ex totalitari comunisti, avventurieri senza idee e senza umanismo oppure uomini di buona volontà disorientati». Un mondo nuovo si sta aprendo, «pieno di possibilità maggiori di quelle che noi intravedemmo per il passato. Possano la passione, l’esperienza e gli errori stessi della mia generazione combattente illuminarne un poco il cammino!». Questo vale ieri, oggi, sempre: perciò un testo pieno di storie di un secolo fa può sorprendentemente aiutarci ancora a immaginare il nostro futuro, ricordandoci che «l’egoismo del “ciascuno per sé” è ben sorpassato, che l’arricchimento personale non è il fine della vita, che i conservatorismi di ieri non conducono ad altro che a catastrofi». Nulla è scontato: facciamone tesoro.

(finito il 12 dicembre 2019)

Ho parlato di


Victor Serge
Memorie di un rivoluzionario
(Edizioni e/o, 2017)

Trad. di A. Garosci

440 pp., | 16 €

(ed. or.: Mémoires d'un révolutionnaire 1901-1941, 1951; 1ª ed. it., 1999)

giovedì 27 agosto 2020

La scommessa cattolica

C’è una domanda che prima o poi noi avanzi di sacrestia finiamo inevitabilmente, e giustamente, per farci: se, cioè, al netto dei sentimentalismi, dei bei ricordi, delle persone che altrimenti non avremmo conosciuto (e magari sposato), tutto questo carrozzone immenso in cui siamo cresciuti e nel quale continuiamo a muoverci, a cui diamo il nome di Chiesa cattolica, abbia veramente ancora qualcosa da offrire all’umanità o non sia un fuoco destinato pian pianino a esaurirsi, spegnersi e cristallizzarsi nei suoi morti resti come le religioni neolitiche britanniche nelle pietre di Stonehenge. Il mondo occidentale, nei fatti prima ancora che con delle teorie, una risposta se l’è già data, e così netta da rendere a prima vista ozioso anche solo accennare alla questione. La religione, qualunque religione, è un relitto del passato che può avere un valore solo come opzione individuale nel quadro di una logica sostanzialmente di mercato, secondo la quale ciascuno ha il diritto di scegliersi le esperienze che vuole fare in base ai propri gusti personali, a patto di non urtare troppo la sensibilità altrui, e meglio ancora se scomposte in comodi pacchetti da riassemblare a piacere con un po’ di bricolage. Questo processo di progressiva secolarizzazione, tuttavia, non ha garantito l’emancipazione sperata, anzi ha semmai reso possibili nuove forme di reincantamento che, dietro la promessa di maggiore indipendenza, smerciano in realtà conformismo diffuso e servitù volontaria a un apparato tecnoeconomico, il cui modo di spremere e scartare ciò che gli serve per mantenersi in piedi, si tratti di esseri umani o di risorse ambientali, appare ogni giorno che passa sempre più intollerabile. Dobbiamo dunque rassegnarci a dare ragione ai cultori dell’eterno ieri e ai loro “ve l’avevamo detto” (ve lo ricordate De Maistre? Dio disse “fate pure da voi” e il mondo andò in pezzi…)? Cedere al baccano indiavolato con cui ci esortano ad effettuare un triplo salto mortale all’indietro per ritornare in quella superiore regione dello spirito che corrisponde alla loro rassicurante idea di Medioevo? Tra la Scilla dell’efficientismo edonistico disumanizzante e la Cariddi dell’annullamento di sé in un ordine immodificabile perché istituito dal Cielo non c’è davvero nessuna alternativa possibile? 

Ecco, questo libro si propone appunto di scardinare i ferri che ci tengono inchiodati alla logica dualistica soggiacente a questa opposizione - e ai derivati che ne conseguono - per suggerire che tra modernità e fede cristiana sia possibile instaurare invece una «tensione feconda», onde evitare che l’una si faccia scappare di mano ciò che ha imparato ad apprezzare anche grazie al cristianesimo e l’altra rigetti ciò che le appartiene costitutivamente per ostilità nei confronti di certe derive che ne sono discese. In questione è in fondo il tema, centrale nel Vangelo, del rapporto tra libertà e norma, cioè del come poter stare insieme agli altri senza annullare la propria identità, da cui non si esce «pensando ingenuamente che la negazione della menzogna sia la verità, e che la reazione (una spinta uguale e contraria) sia il modo di difenderla». Rinchiudersi nel sarcofago di un tradizionalismo idolatrico per evitare di annegare in un indistinto pastone cosmopolitico non è una soluzione sensata, né tanto meno evangelica: Gesù non si è mai rinchiuso in casa o nel Tempio, né si è attardato sul monte, ma ha incessantemente percorso le strade di Galilea. Quel che ci viene chiesto, oggi come sempre (perché il problema è lo stesso che si poneva già quando quelli che oggi difendono il latino sarebbero stati considerati sovversivi dai cristiani di origine ebraica), è invece «un salto di piano», che recuperi il valore del cristianesimo come «messaggio dinamico, non statico», come «esperienza dell’eccedenza e non della regola e della misura», come «un fattore di interrogazione e di critica rispetto all’autopercezione (personale e sociale) della realtà», come movimento aperto «senza pregiudiziali all’ascolto e all’accoglienza» perché consapevole che, «come insegna la Bibbia, la salvezza è un cammino e non uno stato». Ci si può dire a pieno titolo cristiani cattolici non tanto se si fanno le processioni del Corpus Domini o se si accende il cero alla Madonna, ma se si tiene costantemente presente il riferimento all’intero, alla pienezza, alla totalità che il termine stesso “cattolico” annuncia quando evoca un Regno che nessuna istituzione umana potrà mai circoscrivere, legittimando così una pluralità di percorsi attraverso cui lo si può raggiungere. 

A insegnarci tutto questo non è la mentalità smaliziata dei moderni, bensì – senti senti - quel Dio strano che non sta solo, ma si manifesta come perennemente in uscita, movimento trinitario, “uno-che-non-è-uno”, sbilanciamento verso ciò che è fuori da Sè - tutti modi diversi per dire “agape” o misericordia. Suona un po’ paradossale che i più agguerriti nemici della moderna tecnocrazia, quelli che imputano all’uomo la colpa di avere usurpato il posto di Dio, se lo immaginino poi come un Sommo Tecnocrate ebbro di volontà di potenza intento a determinare un ordine su cui esercitare uno spietato controllo, magari tramite la longa manus di una Chiesa chiamata liturgicamente a glorificare l’esistente (dove il male, ovviamente, non è la liturgia, ma l’uso che se ne fa). Ma perché si dovrebbe abbandonare l’Egitto per andarsene dietro a un Signore che non è diverso dal Faraone? «Dentro questo schema classico, l’ordine religioso domina sull’intera vita sociale. Nelle società teocratiche l’ordine sociale e politico è plasmato da quello religioso, senza margini di contrattazione». Con tutta la sua “spiritualità” esibita, si tratta pur sempre di una gabbia di ferro non dissimile da quella materialista, attraverso cui viene stritolata l’«esigenza di novità che sprigiona dalla vita umana». Non riconoscere questa aspirazione significa ridurre l’uomo, di fatto, ad automa – il che smaschera la teocrazia per quello che effettivamente è: una delle tante potenze terrene che ostacolano i piani di Dio. L’essere umano, infatti, «non è fatto semplicemente per replicare, per eseguire. Piuttosto, come ha scritto Arendt, è nato per incominciare, per agire mettendo al mondo qualcosa di nuovo, di inatteso, di originale». Dio stesso si è aperto alla novità, quando ha lasciato che il mondo fosse, creandolo «come il mare la terra: ritirandosi» (l’immagine – bellissima - è di Holderlin), e compiacendosi poi del buono che ne poteva nascere. Per questo, «solo un uomo libero può essere a immagine di Dio». Al contrario, «nutrire l’assurda pretesa di una identificazione totalizzante con Dio (…) porta a misconoscere il progetto della creazione, di un figlio a immagine del Padre – che però non è il padre». 

La «logica fondativa della creazione» è dunque una logica «generativa». Per capire fino in fondo cosa ciò significhi bisogna forse essere genitori, come del resto lo sono i due autori del libro: in quanto tali, dicono, «noi stessi possiamo infatti testimoniare che il desiderio più grande di chi genera è vedere fiorire, nei modi e nei tempi necessari e non programmabili, la pienezza della vita in ogni singolo figlio, nelle forme inaspettate che potrà prendere». Ecco dunque il punto qualificante dell’intero discorso, il paradosso cristiano che il nostro tempo ha ancora bisogno di sentire annunciare e a cui vale la pena accordare fiducia: non siamo vincolati al bisogno naturale della mera sussistenza, del godimento individuale, dell’autosufficienza, ma abbiamo sempre a che fare con «un di più, con un’eccedenza, con una novità non ricavabile dalle premesse». É su questo che la Chiesa è chiamata a offrire la sua testimonianza, anzitutto nella sua forma: in caso contrario, se non lo sa fare, essa rischia di celebrare solo se stessa, facendo di Dio una proiezione solenne del proprio narcisismo. Anche l’esercizio di autorità andrebbe riletto in chiave generativa, come disponibilità a «lasciare andare» - non nel senso per cui tutto sarebbe uguale ed equivalente, ma come un mettersi al servizio dei processi in corso, «farsi risorsa per il bene di tutti, (...) invece che del suo dominio a proprio vantaggio», così da far crescere e accompagnare i suoi protagonisti affinché diventino essi stessi attori, legando insieme le generazioni nella consapevolezza che «la trasmissione della tradizione non è ripetizione meccanica, bensì continua reinterpretazione e rimessa al mondo». Solo così, essa può davvero dirsi “madre”. 

Il compito della Chiesa nel mondo contemporaneo non deve perciò essere quello di «rimpiangere un mondo che non c’è più, che forse non è mai esistito e che comunque non è nemmeno desiderabile. Piuttosto, essere un punto di de-coincidenza per liberare, di nuovo, il desiderio rimasto imprigionato nell’ordine sociale costruito dalla modernità. Nella prospettiva di poter recuperare, un po’ per volta, il legame filiale che si è spezzato e così ricostruire una relazione le cui basi (la libertà, il perdono, la misericordia) siano più corrispondenti al disegno originario: dove la libertà è un tratto costitutivo dell’essere umano e va perciò riconosciuta e attraversata fino in fondo; e dove all’uomo non è chiesta una passiva e timorosa sottomissione, ma un’alleanza desiderata, un amore filiale nella libertà». Possiamo stare dentro una relazione senza esserne schiavi, siamo cioè tutti “legati” e liberi, e l’una cosa non impedisce l’altra: ecco, finalmente, la “buona notizia”, il cuore della “nuova alleanza”. C’è un modo di abitare l’umano che non ci costringe allo scontro o all’annullamento di sé – è il modo della concretezza, quello che la vita stessa ci insegna e che Dio benedice. L’altro, con la maiuscola e con la minuscola, non è l’inferno, «non è aliud, l’alieno-nemico dello schema dialettico dualista, ma alter, l’altro che ci costituisce, ci provoca e ci libera: l’Alterità senza la quale non c’è identità. Non ostacolo, ma condizione». Paradossalmente, ancora una volta, «il nostro ombelico, a torto diventato l’emblema dell’autoreferenzialità, ci ricorda che siamo prima di tutto legame. E perciò persone, non semplici individui». Questo riconoscimento vale per ciascuno di noi in relazione agli altri, vale all’interno della Chiesa fra suoi fedeli, vale all’esterno della Chiesa nei suoi rapporti con le altre Chiese cristiane, con le altre religioni, con la modernità, con il mondo, vale per le culture e le civiltà nelle loro vicendevoli interazioni, dato che nessuna di esse è mai nata per partenogenesi, ma sempre attraverso un colloquio. Quel colloquio mirabilmente rappresentato dal dogma più affascinante del nostro Credo: «il Dio cristiano è in sé poliedrico. Trinitario. Cioè non totalitario. Paesaggio dialogico, pluriprospettico, pluripersonale». 

É questo dialogo interumano – e non i cori monodici di chi grida “Signore, Signore” – ciò che presumibilmente il Figlio dell’uomo cercherà per verificare se ci sarà ancora fede quando tornerà sulla terra e per distinguere tra chi ha fatto fruttare il talento che gli è stato dato e chi l’ha sepolto ben bene dentro la cripta di una cattedrale.

(finito l'11 novembre 2019)

Ho parlato di


Chiara Giaccardi | Mauro Magatti
La scommessa cattolica
(Il Mulino 2019)

200 pp. | 15 €