Stanze

mercoledì 26 febbraio 2020

Il Signore delle Mosche

La storia è nota, pure troppo: un aereo precipita su un’isola deserta in mezzo all’oceano; gli unici superstiti sono dei ragazzini che, in attesa dei soccorsi, cominciano ad organizzarsi mettendo in piedi una rudimentale struttura sociale; per un po’ le cose sembrano anche divertenti, come in una classica robinsonata, senza i grandi a dire cosa si deve fare, in un misto tra l’isola che non c’è e il paese dei balocchi, ma poi gli eventi precipitano in un finale cruento, mitigato appena dall’intervento di un deus ex machina con le mostrine dei marines che ci risparmia il grand guignol un attimo prima che scoppi davvero. Suona vagamente familiare? É il destino beffardo dei libri baciati da grandissimo successo e divenuti per questo archetipici, quello cioè di suscitare – in chi li legge magari un po’ grandicello – la sensazione di averla già sentita mille altre volte, quella stessa storia, sia pure sotto mentite spoglie e dispersa nei media più diversi, ma proprio con quegli stessi personaggi lì (l’adolescente grassottello, occhialuto e asmatico che fa una brutta fine; quello sveglio, belloccio e buono ma un po’ inconcludente; quello altrettanto sveglio ma mezzo canaglia e che infatti crea un sacco di problemi), al punto da non riuscire poi più ad apprezzare granché l’originale, pur riconoscendone il valore seminale. Ho partecipato perfino a un campeggio parrocchiale che ruotava intorno alle possibilità e ai rischi dell’autogestione e nelle cui periodiche assemblee si era autorizzati a parlare solo se si teneva in mano un feticcio equivalente alla conchiglia di cui si servono, allo stesso scopo, i protagonisti di questo romanzo – e ho detto tutto. Però non me lo ricordavo così bene e perciò, avendolo consigliato come lettura estiva a uno studente di ascendenze hobbesiane perché desse maggiore sostanza alle sue vaghe intuizioni, l’ho ripreso in mano anch’io, nella stessa edizione della prima volta (risalente a tanti anni fa, ma non tanti come credevo: inizio secondo anno di università – comunque, nella vecchia e un po’ datata traduzione) e me lo sono riletto quasi tutto d’un fiato sulla spiagga infinita di Hauteville, in Normandia, alzando di tanto in tanto gli occhi verso il mare, la cui presenza muta e sinistra, spesso evocata nel racconto, contribuisce a dargli, a tratti, la fisionomia di un horror “solare” (nella misura in cui lo è, ad esempio, anche un film come Picnic at Hanging Rock). 

Punto di forza, se considerato come apologo morale, e al tempo stesso punto debole, se considerato come romanzo, è, a mio avviso, l’essere scritto come un meccanismo ad orologeria che arriva esattamente dove vuole arrivare, quasi fosse un esperimento scientifico costruito per dimostrare un’ipotesi, anziché uno strumento per problematizzare la nostra esperienza del mondo e degli uomini, come ci si aspetterebbe invece dalla grande letteratura (per quanto non manchino – va detto – momenti di grande potenza narrativa, che però il tempo ha un po’ annacquato). La domanda che muove l’indagine è quella su cui si arrovella da sempre tutta l’umanità e che nel linguaggio ingenuo di un dodicenne viene qui formulata così: «che cos’è che ci manda tutto a rotoli?». Ovvero: perché, anche se ci ripetiamo quanto sia importante, non siamo capaci di tenere acceso un fuoco, di cooperare per costruirci dei ripari, di portare a compimento gli impegni che ci siamo presi? Hai un bell’evocare storture economico-sociali o la cattiva educazione: di fronte neanche tanto alle violenze estreme, ma alle piccole negligenze, all’incostanza, ai dispetti stupidi e alle ripicche ottuse, alla disarmante infondatezza di certe fake news e alla sicumera di chi le rilancia in buona fede, alle prese d’assalto dei supermercati in cerca d’amuchina, ai programmi demenziali con tribune elettorali - insomma di fronte a tutti quegli atteggiamenti per cui ci ritroviamo a sventolare bandiera bianca allargando le braccia ed esclamando esasperati dei nostri simili quel che esclama di continuo il povero Piggy a proposito dei suoi compagni di sventura, ovvero che «si comportano come dei bambini!», ecco di fronte a tutto questo per Golding non ci può essere altra spiegazione che quella fornita dalla testa di maiale impalata come trofeo e resa quasi viva dal turbine di mosche che ronza intorno alle sue carni putrefatte, in uno dei passi più visionari e giustamente celebri del libro: «io sono la Bestia. (…) Che idea, pensare che la Bestia fosse qualcosa che si potesse cacciare e uccidere! (…) Lo sapevi, no?… che io sono una parte di te? Vieni vicino, vicino, vicino! Che io sono la ragione per cui non c’è niente da fare? Per cui le cose vanno come vanno?». 

In It, che – per quanto possa suonare strano - è una specie di controcanto ottimista al Signore delle mosche, a questo punto i brocchi della situazione si prendono per mano e salvano il mondo. Qui no. Senza un apparato normativo di convenzioni sociali a proteggere le persone, tracciando delle piste etiche lungo le quali muoversi, quel «qualcosa di antico, di inevitabile» si manifesta con una forza quasi orgiastica, allo stato puro, dietro uno schermo di maschere che liberano «dalla vergogna e dalla coscienza di sé», proprio come fanno tutte le divise indossate per sentirsi parte di qualcosa di più grande e abdicare alla propria responsabilità personale. Così, nel canto del capro, più che nel sibilo del serpente, continua perennemente a rinascere la tragedia umana e a propagare i suoi miti regressivi. «Chi se ne frega delle leggi! Noi siamo forti… siamo cacciatori!». Secondo questa prospettiva, crescere non significa dunque perdere per sempre una presunta innocenza originaria, ma rendersi conto che quell’innocenza non c’è mai stata e predisporsi ad acquisire le tecniche per gestire e ritualizzare la violenza primordiale, procrastinando il più possibile l’autodistruzione della specie. La civiltà, infatti, sopisce, ma non spegne l’istinto ferino. «Avrei pensato che un gruppo di ragazzi inglesi (...) sarebbero stati capaci di qualcosa di meglio…», commenta l’ufficiale che recupera i dispersi alla fine della storia. Ma là fuori c’è una guerra planetaria, che non è affatto qualcosa di meglio. É solo fatta per benino, da un gruppo di ragazzi inglesi diventati adulti che nel frattempo hanno imparato in accademia le regole di ingaggio.

(finito il 31 luglio 2019)

Ho parlato di


William Golding
Il Signore delle Mosche
(Mondadori, 1992)

trad. di F. Donini

242 pp. | 6,71 €

(ed. or.: Lord of the flies, London 1954)