Stanze

lunedì 23 dicembre 2019

Il tempo del meticciato

Il tempo di avvento in procinto di chiudersi si era aperto, qualche settimana fa, con quella straordinaria visione di Isaia che costituisce uno dei vertici dell’intera poesia biblica: «alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e (…) ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: ‘venite, saliamo al monte del Signore’. (…) Egli sarà giudice fra le genti. (…) Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo». Non si direbbe, ma almeno in parte, questo annuncio si è già compiuto. I giorni non sono ancora finiti, le guerre dilagano, eppure «all’angolo della via, nella mia città o in qualsiasi metropoli (…) sfila l’intero pianeta». Così scriveva il teologo Jacques Audinet nelle primissime righe di questo saggio datato 1999, pubblicato cioè prima di Seattle, delle Torri Gemelle e di tutto quello che ne è seguito, e che proprio per questo può essere letto anch’esso, retrospettivamente, come una moderna profezia, non meno audace di quella isaiana, attraverso la quale guardare con occhi diversi l’epoca nella quale ci siamo per davvero resi conto di vivere forse solo oggi: il tempo del meticciato, appunto.

Poiché sento già il tintinnar di sciabole dei sovranisti, li rincuoro. Nessuno qui ha intenzione di offrire una sponda religiosa al globalismo finanziario, né di esaltare l’astratta omologazione imposta dai mercati. Tutt’altro. Poiché ogni uomo è radicato in una cultura, la differenza è a sua volta costitutivamente radicata nell’esperienza umana, che matura sempre in un ambiente definito e mai in spazi neutri: l’alba di Nairobi, per dire, non è quella di New York, e viceversa. Il problema è che la civiltà occidentale, che ha improntato con i suoi valori il mondo moderno, non ha saputo pensare questa differenza se non in termini di disuaguaglianza, trasponendo così sul piano culturale il modello della reductio ad unum ereditato da una certa forma di teologia e l’impianto gerarchico che le era connesso. Ma se «l’umanità è costituita da un arcobaleno di situazioni e di tradizioni, altrettanto vario di quello dei colori», sì che non si può parlare, se non in astratto, di un “uomo naturale”, allora «riconoscere l’altro nella sua cultura, dunque diverso, significa nello stesso tempo riconoscerlo come umano». É perché vedo l’altro dissimile che posso riconoscerlo come mio simile: è questo paradosso del riconoscimento ciò che può aiutarci ad uscire dalle secche di un dibattito asfittico, dominato dalla logica del “prima” questo o “prima” quello (davvero, come si può conciliare l’idea, di per sé nobile, di un’Europa “dei popoli” con la convinzione di un “primato” che una nazione dovrebbe avere sulle altre?). 

Audinet, però, non si accontenta di sposare una semplice prospettiva “multiculturalista”, secondo cui le diverse popolazioni possono coesistere, sì, senza scannarsi, ma solo perché ciascuna protetta nel recinto della propria riserva. La storia non funziona così. Noi tendiamo, infatti, a fissare le culture come se fossero nate per partenogenesi o come se fossero sempre state identiche a se stesse. La verità, invece, è che siamo tutti meticci, perché da sempre gli uomini si incontrano, si uccidono e si mescolano fra loro, mescolando anche i loro usi, le loro abitudini e le loro idee: ciò è particolarmente evidente nei più recenti fenomeni di colonizzazione, come in Messico e in America Latina, ma la dinamica è la medesima sin dai tempi dei primi contatti tra Sapiens e Neanderthal. L’Europa che oggi vuole erigere nuove frontiere è sempre stata terra meticcia e l’epoca più meticcia di tutte è proprio quel Medioevo venerato dagli amanti della tradizione come modello insuperato di ordine e staticità: è meticcio il franco Clodoveo che si fa battezzare, così come prima di lui il civis romanus Paolo che rielabora in greco una teologia imparata in ebraico. Ciò che chiamiamo “meticcio” non è altro che il culturale nella sua fase incipiente e ancora indefinita, come la mutazione che dà avvio a un processo di speciazione, attraverso cui la differenza non è eliminata, ma si modifica e, semmai, si moltiplica – basti vedere cos’è successo al latino, disseminatosi nelle diverse lingue romanze (del resto ogni lingua, sommo feticcio dei tradizionalisti, resta viva solo finché cambia). E sebbene sia inizialmente osteggiato, in quanto diverso, il nuovo è precisamente ciò che rende dinamica la vita dei popoli, impedendo che essa si trasformi in una mera riproduzione dell’esistente. Quando, invece, per contrastare l’omologazione globale, mi rifugio nell’omologazione locale, resto prigioniero della medesima logica che dichiaro di avversare. Le culture nazionali non potrebbero neppure esistere senza questi continui scarti e rimescolamenti. 

Il meticciato appare dunque «capace di mettere in discussione la coincidenza delle varie identità»: questo perché in ogni vita c’è sempre un’eccedenza che non può «fluire nello stampo collettivo proposto», che sia mondiale, regionale o persino familiare. Non è necessario essere filosofi per capirlo: ogni nuovo parto ce lo rivela. Venire al mondo, per fortuna, non significa infatti ripetere l’identico, prolungare cioè una serie di prodotti indistinguibili l’uno dall’altro, bensì portare alla luce un inedito modo di essere umano. Nascere dice una somiglianza e al tempo stesso una diversità, indica un’origine e istituisce una distanza, che via via si trasmette anche alle ulteriori fasi di sviluppo della vita: «l’essere umano è mescolanza, incontro di elementi diversi continuamente mescolati, del corpo e dei geni, del cuore e dello spirito, delle società e delle civilizzazioni». Ne consegue che, lungi dall’essere l’eccezione “bastarda”, «il meticciato rappresenta una delle dimensioni fondamentali, in quanto fondante, dell’avventura umana». Siamo tutti mutazioni in mutamento, che si arricchiscono attraverso incontri e percorsi imprevedibili, in una continua ridefinizione di noi stessi – e lo siamo sempre e comunque, anche nella più chiusa delle comunità endogamiche. «É impossibile determinare ciò che porta una nascita umana. La sola cosa che si può dire è che la novità, prima o poi, metterà in discussione ciò che si riteneva definito». Colui che chiamiamo “meticcio” è semplicemente colui che, portando sulla sua pelle segni evidenti di questa condizione, deve affrontare in modo più evidente ciò che negli altri resta talvolta mascherato, ma non è meno presente - e cioè la frattura di un’identità ferita e da ricostruire attraverso un processo di personalizzazione che è anche, al contempo, di socializzazione e di inculturazione. 

Pensare di poter bloccare questo flusso è illusorio, perché significherebbe bloccare la vita stessa. É la sua accelerazione, oggi, che ci spaventa – e sotto sotto l’idea di non poterlo più controllare dall’alto di una posizione di potere. Ciò che fa di quest’epoca il tempo del meticciato non è, dunque, il meticciato in sé, che c’è sempre stato, ma il fatto che ci poniamo la domanda se si possa evitare che questo fenomeno si svolga nel segno di una violenza inflitta o subita. Questo è ciò che è accaduto finora, per lo più. Tuttavia, le nascite meticce possono anche evocare «l’esperienza di una violenza trasformata» e racchiudono la promessa di una vita che di fatto va oltre il limite apparentemente insormontabile dell’incomunicabilità: meticciato può significare allora sentirsi impegnati in un’avventura comune in cui «le differenze non scompaiono. Si trasformano. Generano nuove differenze». Quello che per Audinet sembrava uno scenario non scontato, ma a portata di mano, alla fine degli anni ‘90, per noi può apparire oggi più difficile da immaginare – e tuttavia resta un obiettivo imprescindibile: «tra il politico e il culturale si avvia ormai un dialogo il cui esito non è determinato in partenza dalla violenza del potere. Nel tempo lungo del meticciato le frontiere, anche le più rigide sul suolo, si rivelano punti di contatto, punti di passaggio, cioè luoghi di mescolanza. Non significano più tanto le separazioni tra gli umani quanto il loro luogo d’incontro», come avviene nel pentolone in cui bolle lo stufato e i sapori interagiscono e si scambiano, e come avviene a un Dio che sceglie di contaminarsi con l'umano per scardinare la nozione stessa di contaminazione come sacrilegio. Quando capiremo tutto questo comprenderemo meglio cosa significa che nelle vene del Messia atteso da Israele scorra anche sangue pagano di Moab.

(finito il 10 luglio 2019)

Ho parlato di


Jacques Audinet
Il tempo del meticciato
(Queriniana, 2001)

(Giornale di Teologia 281)

trad. di F. Savoldi

224 pp. | 14 €

(ed. or.: Le temps du métissage, 1999)

venerdì 13 dicembre 2019

Fiesta

Si ha l’impressione, a volte, che tutti quelli che contavano in un certo momento della storia si siano segretamente dati appuntamento nello stesso luogo, suscitando la malinconia struggente di chi si accontenterebbe di essere l’ultimo degli stronzi incluso nella lista, pur di poter partecipare anche lui al party. Per dire, negli anni Venti, a un certo punto tutti sono passati da Parigi – e tutti desideravano passarci, anche solo per un saluto. Come si poteva seriamente pensare di aver vissuto finché si era rimasti altrove? Quel desiderio tracima l’argine della finzione e contagia anche personaggi letterari, come quel Franz Tunda che, al termine – se così si può dire – della tormentata Fuga senza fine allestita per lui da Joseph Roth, approda, appunto, nella capitale francese, solo per scoprire che, sotto lo sberluccichio delle coppe di champagne, continua a sedimentarsi la feccia dello spleen. «Era il 27 agosto 1926, alle quattro del pomeriggio, i negozi erano affollati, nei magazzini le donne facevano ressa, nelle case di moda le mannequins giravano su se stesse, nelle pasticcerie chiacchieravano gli sfaccendati, nelle fabbriche sibilavano gli ingranaggi, lungo le rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, nel Bois de Boulogne le coppie d’innamorati si baciavano, nei giardini i bambini andavano in giostra. A quell’ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo». 

Gli stessi sentimenti del fittizio Tunda li prova, bene o male, il suo coetaneo in carne ed ossa Ernest Hemingway, che ad uno dei personaggi della sua personale commedia umana sulla lost generation fa dire che sì, qui a Parigi sarai anche al centro di tutto, eppure «non hai mai la sensazione che la tua vita stia passando senza che tu ne approfitti? Ti rendi conto che hai già vissuto quasi metà degli anni che hai da vivere?». «Mi sentivo stanco e depresso», gli fa eco un altro. E un altro ancora (o forse lo stesso, è uguale): «non m’importava cosa fosse il mondo. Volevo soltanto sapere come viverci. Forse, se scoprivi come viverci, imparavi anche che cos’era». Adesso non è per fare il solito trombone, ma è strano imbattersi in queste frasi, analoghe a quelle che si possono ritrovare in un qualunque scalcagnato romanzo generazionale, e immaginare che siano state pronunciate, tra una partita di tennis e un ballo al café chantant, proprio negli stessi mesi in cui si consumavano i destini, per dirne due, di Matteotti e Gobetti, che avevano motivi più seri per lamentarsi e reagirono con ben altra tempra al comune spaesamento post-bellico. La vera protagonista del libro, lady Brett Ashley, capelli a maschietto come Louise Brooks e più tardi la Valentina di Crepax, centro di gravità intorno a cui ruotano come manzi tutti i maschi messi in scena, di sé dice, quando s’innamora per l’ennesima volta di un altro, «sono un caso disperato (…). Io non so fermare le cose», ed è al tempo stesso un’icona di emancipazione e di inconcludenza (non mi stupisce che, dopo l’uscita del libro, i lettori più giovani abbiano cominciato a imitare, nei modi e nel gergo, questi personaggi). Però è proprio la frivolezza degli interpreti, spesso ubriachi e molesti, quando non addormentati a causa dell’alcol, a rendere quest’opera, oltre che un importante documento storico sui mutamenti di costume di quegli anni, anche un testo particolarmente adatto per un’epoca di selfie e shottini quale la nostra (Fiesta!, rigorosamente col punto esclamativo, potrebbe essere benissimo il titolo di un programma televisivo in diretta da Ibiza). 

Ad ogni modo, che fa il nostro Hemingway per fronteggiare la sua pena di vivere? Dopo averti fatto giusto annusare la travolgente fête parigina - con gesto costruito e sprezzante, proprio di chi può permettersi di snobbare quello che tutti bramano, e l’aria di chi ti dice strizzando l’occhio “d’accordo Montmartre, ma adesso ti faccio vedere sul serio una cosa che non hai mai visto” - ti carica in treno insieme alla sua compagnia di giro e ti porta in gita in un posto forse meno cosmopolita, ma in cui ci si può davvero immergere in una fiesta come si deve. Bienvenidos a Pamplona, dunque. Le piazze assolate, i campi di pelota, l’incenso e i silenzi delle chiese: a tratti sembra di leggere una riuscita Lonely planet, però concordo, quest’angolo basco-navarrino di Spagna è realmente un gioiello che merita la visita e che potrebbe riappacificarti con te stesso. Qui ti riempiono di cibo e, manco a dirlo, «devi bere molto vino per mandare giù tutto quanto». E quando arriva San Firmino comincia un vero e proprio delirio organizzato. La fiesta «sarebbe durata, giorno e notte, per una settimana. Sarebbero continuate le danze, sarebbe continuato il bere, non sarebbe cessato il rumore. Le cose che accaddero potevano accadere solo durante una fiesta. Alla fine tutto divenne irreale e sembrava che niente potesse avere conseguenze», come in «un incubo meraviglioso». O come durante una sbornia presa per superare una depressione. Esattamente come accadeva a Parigi. «Tutto questo è molto divertente, ma non è tanto piacevole», ecco (e dopo un po' annoia anche leggermente il leggerne, se posso permettermi la lesa maestà). 

Gli unici che si salvano, forse, sono i toreri, perché «non c’è nessuno che viva la propria vita sino in fondo», come fanno loro, danzando letteralmente con la morte. Pedro Romero, che pure è un ragazzino, con i suoi diciannove anni, «aveva la grandezza» e nelle pagine dedicate alla sua esibizione Hemingway raggiunge picchi altissimi di giornalismo sportivo. «Intanto nell’arena, Romero, totalmente solo, procedeva nella stessa maniera, avvicinandosi sin dove il toro poteva vederlo bene, offrendogli il proprio corpo, offrendoglielo ancora un po’ più da vicino, col toro che lo guardava ottuso, e accostandosi poi tanto da far credere al toro d’aver partita vinta e offrendosi ancora e infine inducendolo a caricare, e a quel punto, un attimo prima che arrivassero le corna, mostrava al toro il panno rosso da seguire con quel piccolo scarto, quasi impercettibile, che aveva tanto offeso il giudizio critico degli esperiti in corride di Biarritz». Inevitabilmente, Brett si innamora anche di lui, ma altrettanto inevitabilmente la cosa non dura – e questa volta non solo per un capriccio di lei: Romero l’avrebbe anche sposata, ma l’avrebbe desiderata più femminile («voleva che mi facessi crescere i capelli. Io coi capelli lunghi. Sarei orribile»). Perché alla fine, in fondo, Romero è pur sempre un giovane spagnolo degli anni Venti, che Parigi probabilmente non sa neanche dove sia, e l’America men che meno: «farebbe una brutta impressione un torero che parla inglese. (…) I toreri non sono così». E in due battute, davvero hemingwayane, è come prefigurata tutta la disputa tra sovranisti e internazionalisti in cui ci arrabattiamo ancora oggi. 

Ps: ho detto “giornalismo sportivo” riguardo alla corrida. Passatemelo. Hemingway parla anche di tennis, di boxe, persino di pesca - lo padroneggia bene quello stile. Ma ahimé non capisce nulla di ciclismo. Quando il protagonista si ritrova a San Sebastian in contemporanea con l’arrivo di una tappa del Giro dei Paesi Baschi, tratta corridori e suiveurs come dei prezzolati giocherelloni. Lascia parlare per più di una pagina un direttore sportivo che decanta il Tour de France come «il più grande avvenimento sportivo del mondo», gli dà corda e appuntamento al mattino dopo, per vedere la partenza della corsa, sicuro come il sole che vengo, ma poi se la dorme fino a tardi. L’altro insisteva nel dire che, grazie al ciclismo e al calcio, la Francia stava diventando un paese sempre «più sportif», e si ha l’impressione che a Hemingway questa concezione – diciamo così - commerciale dello sport non andasse a genio. Si può anche concordare, ma se c’è uno sport che conserva l’epica della tauromachia, senza il sangue versato, quello è il ciclismo. E tra Bottecchia e Pedro Romero tutta la vita Bottecchia.

(finito il 24 giugno 2019)

Ho parlato di


Ernest Hemingway
Fiesta
in Romanzi. Vol. 1
(Mondadori, 1992) 
pp. 3-253

trad. di E. Capriolo

(ed. or.: The Sun Also Rise, 1926)