Stanze

venerdì 22 novembre 2019

La scomparsa di Josef Mengele

«Tu che un semplice hai oltraggiato / ridendo sguaiato sulla sua sorte / (….) Sicuro non ti sentire. Il poeta ricorda». Sono versi di Czeslaw Milosz, Nobel polacco per la letteratura nel 1980, che Olivier Guez pone in esergo al suo libro come per chiarire sin dall’inizio, prendendola persin troppo alta, uno dei compiti che apparentemente si è dato scrivendolo – quello cioè di Erinni laica, la cui opera serva a ridestare l’infamia sul nome di uno dei peggiori scherani del Reich, scampato al verdetto della giustizia e forse anche all’angoscia del rimorso, ma non alla catastrofe di una vita buttata, come ricorda una seconda citazione, questa volta di Kierkegaard, secondo cui «il castigo corrisponde alla colpa: essere privati di ogni gioia di vivere, essere portati al grado estremo di disgusto per la vita». In realtà la patetica esistenza da braccato condotta da Mengele in Sud America dopo la guerra, simile a quella del ramingo Caino, non è minimamente comparabile neanche a un minuto del dolore scientificamente inflitto dal suo bisturi ad Auschwitz. Ma, del resto, il godimento rassicurante e catartico di vedere in qualche modo il malvagio punito mi sembra altrettanto morboso dell’entusiasmo con cui Tertulliano prospettava ai futuri beati lo spettacolo dei tormenti infernali contemplato in paradisescope dall’alto dei cieli. 

Meglio allora leggere questo libro come un reportage, perché di ciò sostanzialmente si tratta, scritto interamente al presente storico e con tanto di corposa bibliografia - un esempio perfetto di docufiction, in cui il materiale storiograficamente accertato è integrato, per le zone d’ombra, con invenzioni poetiche che, fin dove è possibile, provano a dare un senso agli eventi (l’autore è anche sceneggiatore, e si vede). Io, per esempio, ho scoperto qualcosa in più sull’Argentina peronista e sulla benevola accoglienza da essa riservata ai fuggiaschi nazisti: «Peron diventa il grande straccivendolo. Fruga nelle pattumiere d’Europa, intraprende una gigantesca operazione di riciclaggio: governerà la storia con la spazzatura della storia». Buenos Aires appare all’inizio degli anni ‘50 come la capitale occulta di un Quarto Reich di relitti che si ritrovano insieme per ascoltare Wagner e Strauss o per scambiarsi medagliette di Dürer come segno di affiliazione, agognando il ritorno in Germania non appena le acque si saranno calmate e sarà caduto il governo di “rabbi Adenauer”, servo dell’America e del complotto sionista globale, a cui questi irriducibili vittimisti continuano a credere. D’altronde, «se il pianeta non si fosse coalizzato contro la Germania il nazismo sarebbe ancora al potere». Animati da una «visione predatoria e angosciata del mondo», in cui «tutto è lotta: solo i migliori sopravvivono», non riescono neppure a concepire l’idea di essere loro, gli sconfitti senza riscatto a cui la storia questa volta presenta il conto. Niente da fare: la mentalità totalitaria finisce sempre per evocare una pugnalata alle spalle. 

Ma l’ora della rivalsa non arriva. «Alla nostalgia nazista i tedeschi preferiscono le vacanze in Italia. Lo stesso opportunismo che li ha indotti a servire il Reich li spinge ad abbracciare la democrazia». Di più, dopo la cattura di Eichmann, anche lui gradito ospite in Argentina, l’orrore che per un po’ era stato rimosso torna prepotentemente sulla scena – e non lo si potrà più minimizzare o derubricare a danno collaterale (e in questo senso il libro è anche un capitolo di una più ampia storia della progressiva presa di coscienza di cos’era stata la soluzione finale). É lo stesso Eichmann a togliere ogni alibi. Curioso destino, quello dei due camerati che lo intervistano perché sinceramente convinti di poterci ricavare un libro con cui respingere una volta per tutte l’immonda messinscena dei lager messa in piedi dagli ebrei, e ai quali Eichmann, con la fierezza di chi crede di aver compiuto una missione storica (posa ben diversa da quella dimessa adottata al processo), «conferma le proporzioni dello sterminio, descrive nei particolari le uccisioni di massa, le camere a gas, i forni crematori, i lavori forzati, le marce della morte, le carestie». I due «agnellini (…) credevano che il nazismo fosse puro», ma restano scossi da quella cifra - sei milioni: siamo stati davvero bravi no? - e si tirano indietro. 

É a questo punto che, anche per Mengele, la vita diventa più amara. Man mano che la memorialistica sulla Shoah si fa più dettagliata e si fa più decisa la caccia ai responsabili, intorno a lui si addensa una raccapricciante leggenda nera, cui si aggiunge anche quella, costruita in gran parte dai giornalisti, «di un supercattivo inafferrabile come Goldfinger, un’incarnazione pop del male, invincibile, ricchissimo e astuto, che semina i suoi inseguitori ed esce indenne dalle situazioni più pericolose, senza un graffio». Poco importa che la sua vita scorra invece piuttosto pigramente, nonostante l'ansia suscitata dal pensiero di una possibile cattura, in una fazenda brasiliana, dov'è coccolato da una rete di collaborazionisti: a metà anni ‘60 «il dottor Mengele diventa un marchio che solo a nominarlo gela il sangue e gonfia le tirature di libri e riviste: l’archetipo del nazista freddo e sadico, un mostro». Prigioniero soprattutto del proprio egocentrismo, Mengele comincia a vomitare tutto il suo rancore su quelli che, non meno colpevoli di lui, l’hanno scampata. «Ad Auschwitz i grandi gruppi tedeschi si sono riempiti le tasche sfruttando fino allo stremo delle forze la manodopera schiava a loro disposizione. Auschwitz, un’azienda redditizia» per società come la IG Farben o la Topf di Wiesbaden di cui parla Primo Levi ne I sommersi e i salvati. «Lavorando in stretta collaborazione ad Auschwitz, industrie, banche e organismi governativi ne hanno ricavato profitti enormi; lui, che non si è arricchito di uno pfenning, deve essere l’unico a pagare»? Alle volte qualcuno solleva la questione per muovere a compassione verso questi reietti, ma si tratta di un argomento capzioso, che semmai dovrebbe suscitare dubbi sui presunti incensurati. 

Anche Guez mi pare condivida l’idea che Mengele non sia stato quel satanico genio del male che la pubblicistica spesso dipinge, ma più semplicemente – e la cosa è in realtà più inquietante – «un uomo senza scrupoli, dall’anima blindata, che ha risposto alle sollecitazioni di un’ideologia velenosa e mortifera in una società sconvolta dall’irrompere della modernità. Quell’ideologia non stenta a sedurre il giovane medico ambizioso, a sfruttare colpevolmente le sue mediocri propensioni, la vanità, la gelosia, il denaro, fino a spingerlo a commettere crimini abietti e a giustificarli». Convinto di meritarsi tanto dalla vita, quel giovane dottore che in altri tempi sarebbe diventato magari solo un borioso ricercatore universitario, trova invece un contesto entro cui dare soddisfazione alle proprie ambizioni nel progetto eugenetico nazista – «guarire il popolo, purificare la razza, costruire un ordine sociale conforme alla natura, ampliare lo spazio vitale, perfezionare la specie umana» - e tanto peggio per gli altri. Esattamente come avviene, per ora su scala ridotta, con i tanti ceffi senz’arte né parte che stanno approfittando dello sdoganamento dell’odio per ritagliarsi il proprio quarto d’ora di celebrità con le loro intemerate meschine e infantili: quell’umanità fragile ma rabbiosa, che vorrebbe curare tutti tranne che se stessa, e che gli apprendisti stregoni del populismo continuano a solleticare pensando di riuscire sempre e comunque a gestirla. Oggi sappiamo che Mengele è morto, anche grazie alla prova del DNA, ma – e almeno su questo il libro mente – a quanto pare non è mai scomparso davvero.

(finito il 4 giugno 2019)

Ho parlato di


Olivier Guez
La scomparsa di Josef Mengele
(Neri Pozza, 2018)

trad. di M. Botto

204 pp. | 16,50 €

(ed. or.: La Disparition de Josef Mengele, 2017)

venerdì 8 novembre 2019

Mussolini ha fatto anche cose buone

Immagino sia capitato più o meno a tutti di affrontare una conversazione su temi latamente politici in cui a un certo punto un amico brillante se ne esce fuori con una frase di apprezzamento per quando c’era Lui, sostenuta con aria da uomo di mondo sulla base di argomenti che in realtà hanno più o meno la stessa consistenza delle formule del catechismo e proprio per questo sono pronunciate con una sicurezza dogmatica che non concepisce neppure l’ipotesi di una replica. La tentazione in questi casi è di fare spallucce. Che sarà mai: ognuno in famiglia ha un cugino un po’ strambo e spererai mica di cambiarlo? Tanto lo dicono tutti – di recente anche Bruno Vespa, dall’alto della sua autorità nazionalpopolare - che il fascismo non potrà mai più ritornare, quindi è inutile preoccuparsene troppo, anche se una reduce di Auschwitz è costretta a girare con la scorta, anche se signore di mezza età impediscono a bambini neri di sedersi sull’autobus, anche se tifosi di calcio giudicano l’appartenenza nazionale sulla base del colore della pelle. Già, che sarà mai? Ogni tanto ho però anche il sospetto che il silenzio possa nascondere, sotto una coltre di sufficienza, una mancanza di contenuti da contrapporre all’interlocutore. Contenuti veri – intendo - solidi, documentati, che vadano cioè al di là della sacrosanta ma pur sempre generica mozione degli affetti a cui troppo spesso ci si abbarbica, anche quando non sarebbe molto difficile andare a controllare come sono andate davvero le cose (credo sia una delle tante deplorevoli conseguenze di un dibattito pubblico ridotto a una recita a soggetto, in cui i duellanti oppongono retorica a retorica come Arlecchino e Pulcinella si scambiano le loro bastonate e ci si preoccupa di stabilire chi ha vinto prima di capire cosa ha detto). Ben venga allora un «manuale di autodifesa» come questo, da avere sempre sotto mano per chiedere conto delle proditorie e spesso vaneggianti affermazioni che si sentono ripetere sul Ventennio. 

Qui non c’è sintesi che tenga: bisogna proprio andarselo a leggere e studiarselo bene, questo libro, perché, senza rinunciare alla scorrevolezza dell’esposizione, ci fornisce dati e materiali per smascherare tutti i principali luoghi comuni sul fascismo, smontando pezzo a pezzo una propaganda rivelatasi – quella sì – efficacissima nel produrre credenze che si sono sedimentate così bene nell’immaginario degli italiani da durare molto più a lungo del regime stesso, come un ordigno inesploso ma ancora carico dopo il 25 aprile. Quel che più sorprende è che per sconfessare opinioni che hanno la stessa fondatezza storica dello jus primae noctis Francesco Filippi non sia dovuto andare a rovistare negli archivi segreti del Vaticano, né abbia dovuto decrittare la lineare A, ma ha semplicemente messo in fila elementi che sono accessibili a tutti, facilitandoci le cose, certo, e sia benemerito per questo, ma mostrando anche (e forse questo è il suo insegnamento più fruttuoso) che un simile lavoro non richiede necessariamente di doverci sobbarcare la lettura completa dell’intera bibliografia esistente sull’argomento o di doverci immergere in sofisticate dispute storiografiche, perché in questo caso le bugie hanno davvero le gambe corte. Motivo in più per perderci un po’ di tempo sopra (costa pure poco). 

Ciò detto, qualche considerazione generale la si può comunque provare a tracciare. Per dire, è vero che Mussolini – come si sente ripetere – avrebbe dato le pensioni a tutti gli italiani e avrebbe bonificato le paludi? Ecco, se si scorrono le carte (libri di storia, ma soprattutto verbali, serie statistiche e gazzette ufficiali) si scopre che progetti in tal senso erano già stati avviati dalla tanto vituperata Italia liberale e che furono poi portati davvero a compimento dall’altrettanto vituperata Prima Repubblica. Mussolini, lì nel mezzo, ha solo raccolto quanto già predisposto dai governi precedenti, il più delle volte unificando iniziative diverse all’interno di istituti posti sotto il controllo dello Stato, cioè del partito fascista, in modo da drenare – è il caso di dirlo - quantitativi sempre più ingenti di risorse pubbliche allo scopo di costruire un immenso apparato clientelare con cui appagare i desiderata piccoloborghesi del proprio zoccolo duro di sostenitori, usando cioè beni di tutti per foraggiare la sua personale macchina di consenso (non è forse la stessa cosa utilizzare i fondi del ministero dell’Interno per pagare gli stipendi alla “bestia” che ti cura l’immagine sui social?). Quando qualche risultato, in questo modo, è stato raggiunto, lo si è fatto perciò producendo un’autentica voragine nelle casse statali, resa ancor più incontrollata da scelte economiche dissennate effettuate solo a scopo di prestigio (come la famigerata “quota 90” per riallineare la lira alla sterlina), dalle crescenti spese militari (orientate oltretutto all’acquisto di mezzi rivelatisi obsoleti quando è scoppiata la guerra) e infine dall’insostenibile strategia autarchica – il tutto condito dal piagnisteo contro le potenze demoplutocratiche straniere additate come le uniche responsabili dei mali dell’Italia e di quel crescente dissesto economico da cui è stata poi la repubblica, con tutti i suoi limiti, a tirarci fuori (storia già vista: un governo promette più pilu per tutti in deficit, un altro risana, fa tirare la cinghia e si becca gli insulti). Le “cose anche buone” fatte da Mussolini sono dunque cose che con ogni probabilità sarebbero state fatte comunque, e anche meglio, da altri. 

E allora, a parità di risultati, perché abbracciare una dittatura e la privazione delle libertà personali? Qualcuno potrebbe dire che era il prezzo da pagare perché senza le maniere forti non ci saremmo mai lasciati alle spalle il precedente sistema corrotto e malavitoso. Almeno Mussolini – si dice – era “honesto”. Ma siamo proprio sicuri che fosse così? Ormai pare assodato, per esempio, che il delitto Matteotti sia dipeso non tanto dalle accuse sulle irregolarità nelle elezioni del ‘24 quanto dall’efficace opposizione politica che il deputato socialista stava svolgendo in commissione Bilancio alla Camera, «smascherando le truffe contabili del governo, inchiodandolo alle sue deficienze e ai suoi imbrogli del tutto simili a quelli della tanto odiata stagione liberale, che voleva cancellare». Detto altrimenti, Matteotti cercava di mostrare che «quello di Mussolini era un partito di truffatori uguale – forse peggiore – di quelli che lo avevano preceduto. Se della violenza e anche del menefreghismo nei confronti delle libertà individuali il fascismo in un certo senso poteva addirittura vantarsi, l’accusa di disonestà sarebbe stata probabilmente troppo difficile da digerire per un’opinione pubblica che voleva il cambiamento» (Filippi è sottile, non usa le parole a caso). «Per il mito della purezza fascista si arrivò al paradosso di pensare preferibile un delitto le cui motivazioni stavano nell’azione violenta di alcuni fascisti scalmanati, piuttosto che nella volontà, di stampo mafioso, di voler mettere a tacere una voce critica che avrebbe mostrato al mondo il vero carattere del fascismo: più associazione a delinquere che partito politico». E se questo ancora non bastasse, si pensi alle disastrose e ingiustificate campagne militari avallate da Mussolini, dall’attacco alla Grecia alla campagna di Russia: «se mai è stato tentato un genocidio sistematico del popolo italiano, questo genocidio è stato avviato, più o meno consciamente, dalla tirannide fascista», che si è imbarcata senza mezzi e preparazione in missioni insensate all’unico scopo di garantire imperitura gloria al suo capo usando gli italiani come carne da macello. 

Per un curioso paradosso, l’idea che invece il fascismo, almeno fino a un certo punto e sotto certi aspetti, sarebbe stato un totalitarismo “buono” è un mito prodotto dagli stessi antifascisti che pagarono sulla propria pelle tale presunta “bontà” e che alla fine lo sconfissero. Per tenere unito il paese dopo la guerra e uscire insieme dalla dittatura si preferì costruire l’immagine del tedesco “cattivo” su cui addossare tutte le responsabilità di quello che era capitato, salvaguardando così una certa differenza italiana (a costo di scelte discutibili, come negare l’estradizione di Graziani all’Etiopia perché fosse processato per crimini di guerra). Fu un modo per cercare di apparire presentabili nel consorzio delle nazioni vincitrici, ma anche per rispondere a un’esigenza profondamente radicata in una generazione stremata che aveva «la necessità di voltare pagina e ricostruire da zero non solo una nazione, ma anche il senso di appartenenza a una comunità». Lo stesso Partito Comunista preferì reintegrare e includere, anziché ostracizzare (a livello di intellettuali, caso che conosco un pochino meglio, ci furono in effetti spettacolari cambi di casacca da una stagione all’altra). La conseguenza più problematica di una strategia che aveva anche le sue ragioni è che forse non è mai stata avviata una seria discussione pubblica su come si era affermato il regime, cosicché il senso comune ha finito per elaborare la favola di un popolo di “brava gente” tenuto suo malgrado sotto il tacco di un’orwelliana e implacabile macchina di repressione diretta da luciferini geni del male – macchina che in realtà non funzionò mai così bene e che comunque non avrebbe potuto imporsì né funzionare senza il consenso o l’inerzia di gran parte degli italiani. I quali, senza magari sostenere apertamente, minimizzarono, trascurarono o soprassederono. Sicché oggi scopriamo con un certo sgomento di non avere prodotto gli anticorpi necessari per evitare di contrarre una nuova febbre autoritaria, che consegnerebbe pieni poteri a una cricca di incapaci il cui unico talento è ancora una volta quello di sventolare bandiere e valori di cui in realtà non gliene importa nulla, ma in nome dei quali sarebbero capaci di avallare le decisioni più meschine. É vero che il popolo italiano atterra e suscita con la rapidità di un bimbo capriccioso, ma l’altra volta, per passare dall’adunata oceanica del 10 giugno 1940 alle feste di piazza del 25 luglio 1943 ci vollero la guerra e le macerie – e non era ancora finita. Ammetto di essere un po’ preoccupato.

(finito il 29 maggio 2019)

Ho parlato di



Francesco Filippi
Mussolini ha fatto anche cose buone.
Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo
(Bollati Boringhieri, 2019)

132 p. | 12 €