Stanze

venerdì 21 settembre 2018

Dora Bruder

Ci sono scrittori che variano continuamente il loro menu e sono in grado di spaziare con ammirevole disinvoltura dalle piramidi alle astronavi, per dire, senza apparenti controindicazioni. Ce ne sono invece altri che sembrano come ossessionati da un’idea-madre, o anche da un’epoca, un luogo, un tema che torna e ritorna insistentemente nelle loro opere, dando quasi l’impressione che esse non siano altro che tentativi irrisolti e provvisori di riscrivere, meglio che si può, lo stesso libro. Una volta Camus osservò che «in fondo a se stesso, ogni artista custodisce un’unica sorgente che nel corso della vita alimenta quel ch’egli è e quello che dice». Ciò che per lui era stato il quartiere povero di Algeri, dov’era cresciuto con pochi soldi ma irrorato di sole, per Patrick Modiano è senza dubbio il biennio dell’occupazione tedesca in Francia: un vero e proprio buco nero della storia in cui finirono risucchiate le vite di migliaia di persone che non ne riemersero più, come se non fossero mai esistite. 

Una di queste è, appunto, la Dora Bruder del titolo e della foto riprodotta in copertina. Il suo nome compare in un trafiletto pubblicato su “Paris Soir” il 31 dicembre 1941, dove se ne denuncia la sparizione, con quegli scarni dettagli che si forniscono sempre in questi casi: l’età – quindici anni –, un ritratto sommario, i vestiti indossati al momento della scomparsa. Quando Modiano si imbatte per caso, oltre quarant’anni dopo, in queste poche righe, la sua fantasia di scrittore entra subito in azione, non foss’altro per il fatto che la famiglia di Dora abitava in una zona di Parigi che da bambino anche lui aveva regolarmente frequentato e conosceva bene (boulevard Orano, 18° Arrondissement, un po’ più su del Sacre-Coeur). Perché mai sarà scappata? – si domanda. E, soprattutto, dove sarà andata, e come avrà fatto questa adolescente a superare da sola l’insopportabile, gelido, inverno del 1942? Ci sarebbero i presupposti per ricavarne un racconto. Modiano, però, sceglie di non inventare nulla e intraprende un’altra strada. Con pazienza – gli ci vogliono anni – comincia a raccogliere indizi setacciando i documenti ancora reperibili negli archivi cittadini, molti dei quali prodotti diretti o indiretti della luciferina burocrazia nazista. Scopre così che i genitori di Dora erano due ebrei di origine austro-ungarica emigrati in Francia negli anni ’20; che all’arrivo delle truppe hitleriane, la coppia non aveva fatto registrare Dora come israelita, affidandola invece alla custodia di un convento di suore, e che proprio da lì era fuggita; che nella primavera successiva sarebbe poi scappata nuovamente (questa volta da casa: segno che nel frattempo era tornata); che sarebbe poi stata arrestata e infine destinata ad Auschwitz con il convoglio partito il 18 settembre 1942, esattamente 76 anni fa. 

Tutto questo negli stessi luoghi in cui Modiano, ignaro, andava da piccolo a far la spesa con la madre, in edifici e strutture che nel dopoguerra sarebbero poi state tranquillamente riconvertite ad uso civile. La caserma delle Tourelles, per esempio, usata dai tedeschi come campo di internamento: Modiano torna a visitarla, mentre segue la sua pista. «Dietro il muro si stendeva una no man’s land, una zona di vuoto e d’oblio. (...) Eppure, sotto quella spessa coltre di amnesia, si sentiva qualcosa, di quando in quando, un’eco lontana, soffocata, anche se nessuno sarebbe stato in grado di dire cosa, con precisione. era come trovarsi all’orlo di un campo magnetico, senza pendolo per captare le onde. Nel dubbio e nella cattiva coscienza, avevano affisso il cartello “Zona militare. Divieto di filmare o fotografare”». Lungo la strada per Drancy, altro infame luogo di prigionia, hanno invece «costruito un’autostrada, raso al suolo delle villette, sconvolto il paesaggio», per rendere quell’area periferica «il più grigia e neutra possibile». In certi quartieri si è proceduto a una vera e propria ricostruzione che ha fatto sparire le vecchie strade in cui avvennero le perquisizioni e le retate, «e i numeri delle case e i nomi delle vie non corrispondono più a niente». «Ho la sensazione di essere il solo a reggere il filo che collega la Parigi di quell’epoca a quella di oggi, il solo che si ricordi di tutti questi particolari. A volte, il filo si assottiglia e rischia di rompersi, altre sere la città di ieri mi appare con riflessi furtivi dietro quella di oggi». Si stenta a credere che la gente dovesse nascondersi proprio negli stessi luoghi dove poi tu saresti andato senza paura a giocare ai giardinetti, vero? 

Il materiale così raccolto non viene però riassemblato per fornire quella che sarebbe pur sempre una versione romanzata della vicenda di Dora e della sua famiglia. Al contrario, le informazioni recuperate servono piuttosto a far risaltare ancor di più quelle che mancano. «Scrivendo questo libro, lancio appelli, come segnali di luce che, sfortunatamente, dubito possano rischiarare il buio. Ma spero sempre». Del resto, mi pare proprio questa la più autentica cifra stilistica di Modiano, riscontrabile anche in altri suoi testi (di cui questo libro può essere considerato una sorta di chiave d’accesso, sospeso tra il saggio e la narrazione – ogni tanto, anche per questo, un po’ didascalico): «il vuoto che si prova davanti a ciò che è andato distrutto, raso al suolo» deve rimanere tale, come il segno permanente di un’assenza, come l’impronta che attesta il passaggio di qualcuno di cui però non si sa più nulla. Dora e i suoi genitori, del resto, «sono persone che lasciano poche tracce», ma queste tracce sono tutto quello che resta delle loro complicatissime vite – come per i migranti imbarcati sui gommoni affondati nel Mediterraneo, come per gli schiavi stipati sulle navi negriere, come per tutta quell’umanità ridotta a nuda vita e divorata da uno dei tanti olocausti della storia. Unire arbitrariamente i puntini, provare a fornire un’ipotetica cornice di senso, tradirebbe quello che è il significato autentico e straziante di un’esistenza interrotta e letteralmente perduta. Che però, proprio da questo scacco guadagna una, parzialissima, forma di riscatto: «ignorerò per sempre come passava le giornate, dove si nascondeva, in compagnia di chi si trovava durante l’inverno della sua prima fuga e nelle poche settimane di quella primavera in cui scappò di nuovo. É il suo segreto. Povero e prezioso segreto che i carnefici, le ordinanze, le autorità cosiddette d’occupazione, il Deposito, le caserme, i campi, la Storia, il tempo – tutto ciò che insozza e distrugge – non sono riusciti a rubarle». 

Ps. Però qualcosa che si può ricordare c’è: l’esempio di quelle donne francesi che ebbero il coraggio di indossare la stella gialla per solidarietà con le ebree, ma in modo insolente, per irritare le SS – chi attaccandola alla coda del cane, chi ricamandoci sopra nomi denigratori. Questi i loro mestieri: «dattilografa. Cartolaia. Giornalaia. Domestica. Impiegata alle Poste. Studentesse». Giusto per chiarire la differenza che passa tra popolare e populista.

(finito il 10 luglio 2018)

Ho parlato di


Patrick Modiano
Dora Bruder
(Guanda, 2011)

trad. di F. Bruno

136 pp. | 14,50 €

(ed. or., Dora Bruder, 1997)