Stanze

mercoledì 18 luglio 2018

Racconti notturni

Tra marzo e aprile, mentre come paese sprofondavamo in questo scempio quotidiano, senza premeditarlo mi sono ritrovato a leggere una classica testimonianza di quando si è cominciato decisamente a prendere sul serio il lato oscuro della forza e la sua capacità di influenzare la nostra tranquilla routine di esseri mediamente pensanti. Oltretutto, c'è questo bel paradosso che mi ha sempre incuriosito, per cui - quando parliamo di “gotico” - a noi vengono subito in mente fantasmi, castelli diroccati, porte cigolanti, cimiteri di campagna e in genere tetre e brumose atmosfere nordiche (e a buon diritto, perché effettivamente il gotico si colora spesso di tali tinte), ma se poi andiamo a leggerci per davvero i testi fondativi del genere, si scopre che l'elemento conturbante tipico di questi scritti ha invece un’aura mediterranea e direi pure cattolica. Testi come Il castello di Otranto, L'italiano, Il monaco te lo dicono apertamente sin dal titolo che è lì che si va a parare, nei conventi della nostra Europa meridiana a bassa velocità storica, immaginata a cavallo fra ‘700 e ‘800 come un relitto medievale rimasto vergognosamente a galla nel secolo dei Lumi (ritratto un po' ingeneroso: d’accordo, ai tempi, i Viceré sguazzavano felicemente nel brodo della loro mostruosità, ma c'erano anche i Pietro Verri e i Cesare Beccaria che spiegavano al mondo l'insensatezza della tortura. Oggi invece...). 

Anche E.T.A. Hoffmann, che del gotico è uno dei massimi virtuosi, sembra condividere un’idea simile. In questi otto racconti pubblicati tra il 1816 e il 1817 non mancano certo gli ululati marini e gli spettri della fredda Curlandia (come ne Il maggiorasco, che da questo punto di vista è esemplare: «quivi non si ode mai il lieto cinguettio degli uccelli ridestati a nuova gioia ma soltanto il lugubre gracidare dei corvi e l’acuto stridio delle procellarie»), tuttavia, quando viene evocato, il diavolo veste alla spagnolesca e ha un’insolenza tutta napoletana (Ignazio Denner), così come i due personaggi che portano alla follia il povero Natanaele ne L'Orco insabbia sono un tale professor Spallanzani (un chimico omonimo del ben più noto Lazzaro, ma soprattutto collega dell'altrettanto celebre dottor Frankenstein) e l'artigiano piemontese Giuseppe Coppola, fabbricante di binocoli e barometri. Con una precisazione, però. Quando a un certo punto di “gotico” espressamente si parla, infatti, lo si fa per elogiare la forma slanciata della cattedrale medievale, che «aspira al cielo» e, proprio per questo, rappresenterebbe il «vero cristianesimo, il quale con la sua spiritualità contrasta proprio con lo spirito sensuale del mondo antico, sempre legato alla cerchia terrena» - in aperto contrasto con quanto affermato da un prosaico gesuita a difesa dell’estetica trionfante delle chiese della Compagnia così vicine alle «vivace serenità degli antichi» rispetto al contemptus mundi dei secoli bui: «la nostra patria è senza dubbio lassù. Ma finché viviamo qui, il nostro regno è anche di questo mondo» (La chiesa dei Gesuiti di G.). Non confondiamo, insomma, il tanto vituperato Medioevo, così ansioso di infinito, con l’ordine cattolico moderno – sembra dirci: è quest’ultimo che ritarda l’apocalisse. 

Però non è detto che l’apocalisse sia dominabile. L'opposizione a tratti ossessiva e morbosa tra l’idealità trascendente e una realtà materiale che la lascia appena appena presagire è uno dei temi dominanti di queste pagine, piene di porte socchiuse su un regno di forze arcane e potentissime capaci, sì, di innalzarci a stati superiori di bellezza, ma anche di travolgerci fino all’autodistruzione. «Mi parve allora veramente che la natura avesse costruito intorno a noi un gigantesco clavicordo a mille registri. Noi ci affanniamo, ci diamo da fare fra quelle corde, scambiandone i suoni, gli accordi, per suoni ed accordi prodotti da noi, a nostro piacere. E spesso veniamo feriti a morte senza neppure sospettare di essere stati colpiti da una corda stonata, toccata a sproposito...». Chi tira le fila di molti di questi racconti, non senza un pizzico di autoironia, è un “viaggiatore entusiasta” «dotato del dono della veggenza», con cui sa appunto «accostare elementi addirittura antipodici e (...) scovare certe correlazioni a cui nessuno aveva pensato». Il problema è che se guardiamo oltre la superficie rassicurante dello specchio, quella – per intenderci – che fissiamo quando ci accontentiamo di regolare il nodo alla cravatta per presentarci bene in società, possiamo anche intravedere un angolo di paradiso; più spesso, però, si finisce per risprofondare in quel substrato magmatico e oscuro da cui la coscienza si trae fuori a fatica e sempre in modo precario. Meccanicismo e mesmerismo, come più tardi evoluzionismo e romanticismo, si intrecciano in un rincorrersi di temi che, contemporaneamente, i filosofi cercavano di inquadrare nei loro sistemi. La luce più pura fa tutt’uno con l’ombra: ecco, forse, perché Parsifal si ritroverà addosso la camicia bruna e oggi, che viviamo nel tempo della farsa, le utopie più avanzate della trasparenza digitale stanno così a proprio agio con le mitologie ctonie della terra, del sangue e della razza.

(finito il 24 aprile 2018)

Ho parlato di


E. T. A. Hoffmann
Racconti notturni
(Einaudi, 1994)

Trad. di C. Pinelli e A. Spaini

256 pp. | 9,50 €

(ed. or.: Nachtstücke, 1816-1817).

martedì 3 luglio 2018

Due Sicilie

Quando poi sono partito davvero per la gita avevo un’altra lettura pronta. Con Praga, apparentemente, nessun collegamento. Eppure proprio da qualche ignota corrispondenza praghese era stato innescato l’algoritmo della libreria online che me ne aveva fatto scoprire l’esistenza (“utenti con gusti simili hanno visto anche...”, quelle robe lì). Non potevo saperlo, ma finendo nelle mie mani proprio in quel modo, il libro in un certo senso era già cominciato prima ancora di aprirlo.

Le coordinate cronologiche del racconto sono subito chiarite. Ci troviamo nel 1925, tempo di calma apparente: «tutti i cuori erano rimasti inquieti, e chi parlava di pace non si riferiva mai al presente in cui stava vivendo, bensì all’anteguerra. E se mai fosse tornata la guerra, non si sarebbe trattato di una nuova guerra, ma ancora di quella d’un tempo». “Due Sicilie” è il nome, già anacronistico in partenza, di un reggimento asburgico che, dopo aver disseminato di propri caduti i campi di battaglia di mezza Europa, si era definitivamente impantanato nel fango delle trincee. Disciolto dopo Versailles, «i suoi appartenenti si erano sparsi nei diversi paesi in cui si era frammentato l’Impero, e nessuno più sapeva dove fossero». Eccezion fatta per un colonnello, cinque ufficiali e un caporale, i quali, per il semplice fatto di risiedere tutti quanti a Vienna, continuano a mantenere un flebile legame di cameratismo, quanto basta per riavvicinarli quando uno di loro viene misteriosamente assassinato durante un ricevimento. Le premesse sono quelle di un thriller: dopo il primo, infatti, anche gli altri commilitoni cominciano a essere eliminati (uno di loro, addirittura, si perde letteralmente nel nulla, come evaporato), mentre i superstiti cercano di studiare delle adeguate contromisure. Ma non è facile. É come se la Mietitrice in persona fosse venuta a riprendersi questi reduci che, chissà come, erano sopravvissuti all’inutile strage e in un certo senso anche a se stessi. «Forse, quando siamo ritornati dalla guerra, abbiamo persino creduto di averla gabbata, la morte. Ma lei non si fa gabbare. Non che noi ci fossimo votati a lei. Non ve n’era necessità. Ma a un tratto era diventato inutile vivere. È sbagliato credere di dover sempre essere vivi. Si può benissimo essere morti. (...). Vi sono, è vero, uomini che per vivere devono restare vivi, ma ve ne sono molti altri che per essere devono prima morire». 

E vi sono poi quelli che non sanno neanche più se sono vivi o se sono morti. Il proscenio è popolato di personaggi a cui la guerra ha fatto cambiare più volte identità (chi tornava dalla Russia avrebbe potuto tranquillamente essere tornato dalla luna, si nota), al punto da non capire più chi è davvero chi, chi sta impersonando qualcun altro e chi, dopo innumerevoli giri, si è ritrovato a fingere di essere se stesso. «In fondo si può dubitare di tutto, anzi ti dirò: può darsi perfino che ci si metta a dubitare di se stessi e si finisca per non sapere più chi si è e a che punto della propria vita ci si trovi. A volte si crede davvero di essere un altro e di aver fatto cose di cui poi, come un sonnambulo, non ci si ricorda più». É la morte del cogito. Il buco nero della guerra porta a galla una verità profonda, e cioè che «l’identità di un uomo, o almeno di chi ha saputo diventare qualcuno, è una faccenda piuttosto delicata. Gli uomini finiscono per essere completamente diversi da come erano alla nascita, vivendo continuano a cambiare, divengono uomini sempre nuovi e recitano la parte di altri, mentre altri forse recitano la loro... (...) Gli uomini si trasformano senza sosta, e forse l’unica giustificazione del loro esistere è che essi, perlomeno, si trasformano». «Anche la morte non è che una metamorfosi», l’ultima piroetta di chi per tutta la vita cerca un anello che tenga a cui aggrapparsi, una trasparenza oltre la cortina fumosa del reale, perché l’insensatezza del destino «ci costringe alla ricerca di un senso; perché l’assenza di spirito ci induce a contrapporvi lo spirito; insomma perché tutto ciò che accade, anche la cosa più insensata, ci spinge a mutarci. E il mutamento è tutto». O forse no? «Ogni istante avevi la sensazione che potesse passare di lì, in barroccio, qualcuno che portava il destino o che era lui stesso il destino; ma non passava nessun barroccio, e non arrivava proprio nessuno. Sì, anche questo può essere destino: il non accadere. Che è, forse, l’unico destino perfetto». 

Insomma, se la cornice è poliziesca, con tanto di detective, si tratta però di un poliziesco metafisico, in cui si aprono mille parentesi, ma soprattutto in cui gli indizi raccolti per cercare di capire cosa unisca i protagonisti della vicenda e chi sia il colpevole, anche se alla fine sembrano condurre a una spiegazione razionale dei fatti, non arrivano però neanche lontanamente a scalfire il vero mistero – il che è forse molto più inquietante che constatare i soliti depistaggi: delle verità spicciole ce le abbiamo anche, alla fin fine, ma non servono a niente, perché la verità che conta è oltre la nostra portata, nella regione in cui gli opposti coincidono (è il vicolo cieco in cui si trova chi non riesce a liberarsi dallo schema dell’Identico, anche se non ci crede più: non si sa riconoscere il peculiare linguaggio del reale e si annuncia la fine del mondo, sia pure con grande classe). Non per nulla si avverte come una costante, irrisolta, dissonanza tra una concezione immobilistica del tempo («qui i tempi si compenetrano in maniera non facile a descriversi, il presente non soppianta il passato; tutto, passato e presente e forse anche il futuro, è un sussistere insieme; (...) qui il tempo, o non esiste affatto, o esiste con tale prepotenza che risulta indifferente cos’è già stato e cosa ha da venire: è comunque presente») e una coscienza della sua irrimediabile caducità («ecco: il tempo ha dei limiti all’interno di sé, come giunture tra le singole cose! E noi nel tempo, per quanto illimitato ci possa sembrare, arriviamo di continuo ai limiti delle infinite cose di cui esso si compone – infiniti limiti! E sempre si dice addio a tutto. (...) Noi apparteniamo sempre alla morte»). E dopo averti suggerito che «la vita incomincia a farsi interessante nei momenti in cui diventa irreale» e che «i racconti di maggior perfezione sono quelli che, per grande che sia la loro pretesa verosimiglianza, toccano il grado più alto di inverosimiglianza», ecco il sospetto che «la vita reale, però, non si manifesta nella varietà. La varietà non è che rumore. La vita reale si manifesta solo nel vuoto. È nell’assenza di eventi che – come in uno spazio vuoto, come la tentazione nella solitudine dell’eremita – irrompe la vita intera, e il suo frastuono è di tale intensità che le orecchie credono di percepire solo il silenzio, tanto immane e soverchiante come il fragore del sole che sorge è il fremito dell’essere».

Il senso incombente dell’abisso su cui siamo perennemente sospesi, coi nostri trucchi e merletti, è ben espresso da un sogno apocalittico (di quelli che ogni tanto capita anche a me di fare), che è una pagina di una potenza estrema e bellissima. Vi si immagina che il sole, divenuto instabile, cominci ad accrescere la sua massa, fino a diventare una supernova. Per sfuggire al calore, la gente prova ad accalcarsi sui monti, mentre i ghiacciai si sciolgono, inondando le valli. Ma la catastrofe è inevitabile. Chi racconta si trova sul lato oscuro della terra, quando il sole collassa: «ci accorgemmo dell’esplosione del corpo celeste per il potente fragore con cui il fuoco invase rugghiando l’altra metà della superficie terrestre, spandendosi poi su tutta la metà notturna: poteva essere il suono delle trombe del Giudizio». Poco dopo, «potemmo sollevare il capo e vedere così che l’orlo dell’orizzonte era avvolto per intero in un bagliore divampante, un po’ come in un’eclissi totale il disco nero del sole dalle lingue di fiamma della corona. Era il riflesso della metà della terra che stava bruciando. E di là da questo alone ardente vedemmo – dei pianeti trascorrenti per il cielo – quelli interni accendersi anch’essi. (...) I pianeti più piccoli bruciavano come fiaccole, le loro rocce, i loro metalli dovevano essere in fiamme. (...) Passammo la notte in adorazione della maestà di Dio». Finché, inesorabilmente, giunge l’ultima alba: «nel momento in cui l’orlo superiore del sole salì sopra l’orizzonte, un tremendo fulmine, più aguzzo delle punte di diecimila frecce immerse nella brace, ferì i nostri occhi, che non riuscirono più a vedere il sole. In quell’istante supremo l’onnipotenza del suo mistero si sottrasse a qualunque occhio umano. Le nostre orecchie scoppiarono per il fragore delle trombe e nello stesso tempo, nondimeno, tutto – la terra, l’aria, la nostra pelle e i nostri capelli – scomparve in un fuoco immane». Resta una tenuissima, agnostica, speranza: l’ultima parola del libro è «forse».

(finito il 18 marzo 2018)

Ho parlato di


Alexander Lernet-Holenia
Due Sicilie
(Adelphi, 2017)

Trad. di C. De Marchi

243 pp. | 19 €

(ed. or. Beide Sizilien, 1942)