Stanze

sabato 3 marzo 2018

Bussola

Dall’ira di Achille in poi, che è come dire da quando esiste la letteratura occidentale, Asia ed Europa si sono sempre guardate in cagnesco, come due sorelle di carattere opposto costrette a condividere la stessa stanza e per questo perennemente in litigio. Il diligente compilatore di luoghi comuni inizierebbe più o meno così il suo bel corsivo mediamente colto sugli atavici rapporti conflittuali tra Oriente e Occidente, fiducioso di ottenere il plauso di quanti si sentono gratificati dagli ammicamenti rassicuranti ad un comune repertorio liceale. Chissà che stupore se aprissero le pagine di questo libro, che racconta invece una storia tutta diversa – o meglio, sempre la stessa storia, sì, ma ai margini del mainstream, là dove fili dispersi, inaspettatamente, si annodano, rivelando, ad esempio, che «ciò che consideriamo puramente orientale è in realtà molto spesso la ripresa di un elemento occidentale che a sua volta modifica un elemento orientale precedente». Ipotesi impegnativa, su cui si potrebbe costruire una bella tesi di dottorato. E probabilmente Enard una tesi del genere ce l’aveva pure in mente (argomento: «la rivoluzione nella musica del XIX e XX secolo doveva tutto all’Oriente»), ma anziché presentarla in gessato accademico al baronato sorboniano perché ne correggesse con sufficienza le note a pié di pagina («gli articoli sono frutti isolati e sperduti che quasi nessuno addenta»), l’ha rifusa in un diverso crogiuolo, da cui è emersa un’opera ibrida, a metà tra il romanzo e il saggio, dotta e avvincente a un tempo, piena di paesaggi, di musiche, di libri, come un labirinto borgesiano, ma ancor più piena di incontri e di innamoramenti, alcuni dei quali davvero inattesi (per dire, sembra che saudade, che per noi è l’icona dell’umore portoghese, derivi dall’arabo sawda - l’equivalente del greco “melancolia” – così come il turco sevdah, da cui traggono a loro volta il nome le canzoni popolari bosniache note come sevdalinke, una sorta di fado in versione balcanica: ecco, di intrecci così ne trovate a bizzeffe qui dentro). Ai puristi forse potrà non piacere, ma quel che qui si cerca di mostrare – credo anche in questo modo – è, appunto, che «il genio vuole l’imbastardimento». E se per maneggiare la crescente complessità del reale serve unire le forze della narrazione e dell’argomentazione, ben venga.

Oriente e Occidente, dunque, si corteggiano di continuo senza averne sempre piena consapevolezza, e come loro fanno i due protagonisti del racconto, che si rincorrono ripetutamente, si perdono per poi ritrovarsi, per lo più sempre in luoghi esotici e carichi di storia, negli anni della loro maggiore vitalità intellettuale. Franz è un musicologo, Sarah un’antropologa; austriaco lui, francese lei, ma entrambi di ascendenze multietniche e dunque in qualche modo meticci. Lui è un po’ goffo, impacciato, malinconico: quando lo conosciamo, all’inizio del libro, inquietato da un'incipiente malattia, è immerso nel suo appartamento viennese pieno di libri e scartafacci vari («non butto via niente, eppure perdo tutto»); lei, invece, è messa perennemente in movimento da una curiosità vorace che non le fa mai tenere ferma né la mente né le gambe, ma viaggia leggera, perché «i suoi libri e le sue immagini li ha tutti nella testa»: così, senza quasi bagaglio, si spingerà fin nella giungla di Sarawak (là dove le tigri di Mompracem diedero filo da torcere al rajah bianco Brooke), «persa completamente nell’Oriente come tutti i personaggi che ha tanto studiato». Non per nulla, a un certo punto, lei regala a lui «una delle rare bussole che indicano l’Oriente, la bussola dell’Illuminazione, l’artefatto suhrawardiano. Una bacchetta da rabdomante mistico». Si tratta solo di un artificio truccato, d’accordo, ma, a rigore, “orientarsi” vuol dire proprio quello – anche se l’ago punta verso nord.

Questa fuga levantina non è però fine a se stessa. Serve – en passant – a ricordare momenti in cui ci si poteva addormentare di notte negli scavi di Palmira, prima dei tagliagole, quando Aleppo era ancora una città viva (e a ribadire che quel che accade là ci riguarda tutti, che non sono fatti “loro”, che non è legittimo spedire i «nostri drappelli di fanatici a vendicarsi dell’Europa sulla popolazione civile innocente della Siria e dell’Iraq»). Ma soprattutto ci permette di intravedere l’idea che Sarah insegue nel suo pellegrinaggio in oriente e di cui ci vengono offerti solo molteplici frammenti, come appunti di un volume non ancora scritto. Si parte da Kafka, dalla sua «identità confine» e dalla «necessità dell’accettazione dell’alterità come parte integrante del sé, come contraddizione feconda», per scivolare lungo il Danubio, questa «possibilità di un passaggio» tra cattolicesimo, ortodossia e islam, e scendere fino a Istanbul, «la città più a est dell’Europa o quella più a ovest dell’Asia» - e così via, tra minareti, bazar, rovine e rivoluzioni, poesie persiane, vini georgiani e tanto, tanto, oppio, sempre constatando che Oriente e Occidente «non appaiono mai separatamente, e sono sempre fusi, presenti uno nell’altro», compartecipi entrambi della «costruzione comune della modernità», anziché “costruzione” uno dell’altro (con tanti saluti a Said): Pessoa, «il poeta più occidentale e più atlantico d’Europa era in realtà un avatar del dio Khayyam». «Bisognava trovare, diceva, al di là dello sciocco pentimento degli uni o della nostalgia coloniale degli altri, una nuova visione che includesse l’altro da sé». «Dentro di sé c’è sempre l’altro», infatti, e «tutta l’Europa è in Oriente. Tutto è cosmopolita, interconnesso». Una constatazione che si trasforma in auspicio quando si osserva che abbiamo «bisogno di mescolanze, di diaspore» perché, se no, la «costruzione cosmopolita del mondo» avverrà unicamente attraverso la violenza e i grandi marchi, e non più «nello scambio dell’amore e del pensiero», come, nonostante tutto, si è riuscito (anche) a fare un tempo. Insomma, è un libro bellissimo, raffinato e cautamente luminoso, come un’alba timida in questi tempi tetri.

(finito il 31 ottobre 2017)

Ho parlato di


Mathias Enard
Bussola
(Edizioni e/o, 2016)

trad. di Y. Mélaouah

424 pp. | 19 €

(ed. or.: Boussole, 2015)