Stanze

mercoledì 27 settembre 2017

Storie globali

Stando alle Indicazioni Nazionali fornite dal MIUR, noi professori di storia dovremmo mettere a fuoco, nel secondo biennio liceale, «il processo di formazione dell’Europa e del suo aprirsi a una dimensione globale tra medioevo ed età moderna» - che è in fondo solo un modo di aromatizzare la consueta minestra eurocentrica con quel pizzico di globalizzazione che fa tanto XXI secolo. Oggi che i cinesi si comprano Inter e Milan, infatti, non si può più recitare la filastrocca hegeliana secondo cui «la storia mondiale procede da oriente a occidente, poiché l’Europa è senz’altro la fine della storia, l’Asia è il suo inizio», però – sotto sotto – l’impianto della manualistica e di conseguenza dell’insegnamento resta ancora un po’ irrigidito in quegli schemi. E così, alla prima lezione, apri il libro sull’immancabile mappa dell’Europa intorno all’anno 1000 e ti sforzi di descrivere quello che in essa non trova posto, spiegando che per capirla davvero occorrerebbe allargarla quantomeno al resto dell’Asia, che Baghdad all’epoca era tipo dieci volte più grande di Parigi, che - con tutto l’affetto per re Carlo che torna dalla guerra – fu la battaglia di Talas, in Kazakistan, e non la scaramuccia di Poitiers a costituire un autentico snodo decisivo per delimitare le aree di influenza tra il centro propulsore del mondo di allora, la Cina dei Tang, e l’Islam, agente di contatto fra i vertici opposti di un sistema di cui l’Europa non era che l’estrema periferia occidentale. Tu pensavi che le crociate fossero state il modo con cui i cavalieri medievali intendevano esportare la democrazia e invece scopri che «entro certi limiti (...) possono essere considerate una variante delle aggressioni portate da invasori provenienti da una semiperiferia in ascesa contro un’area centrale, più ricca e sviluppata, quindi appetibile, ma militarmente vulnerabile». Insomma, i barbari brutti sporchi e cattivi eravamo noi. E tutta l’intraprendenza successiva sarebbe scaturita dalla fame che aguzza l’ingenio, non da una qualsivoglia superiorità culturale: se ne avessero avuto davvero bisogno, i cinesi di Zheng He con la loro immensa flotta di navi di giunco sarebbero potuti approdare a Lisbona ben prima che i portoghesi raggiungessero Calicut.

Se fosse solo questo, si tratterebbe però comunque solo di una pur apprezzabile assimilazione dei risultati della decolonizzazione, con le sue varie implicazioni geofilosofiche. Il punto di vista della “world history” (all’italiana: storia globale) – di cui questo libro è una sorta di lucido discorso sul metodo incorporato in un saggio esplicativo – propone un passo ulteriore. Nell’idea di “apertura a una dimensione globale” è implicitamente contenuta, infatti, la nozione di una precedente “chiusura”. Nulla di più sbagliato. Le storie degli uomini non possono essere circoscritte in capitoli distinti, ciascuno dei quali corrispondenti a un “mondo chiuso” e autosufficiente (un po’ come nei sussidiari delle mie elementari, in cui ci sono i Sumeri, poi questi spariscono e di colpo arrivano gli Assiri e poi i Babilonesi e poi gli Ittiti e poi i Persiani e via discorrendo). L’approccio qui suggerito invita a «ripensare alla storia dei processi di interconnessione e di integrazione fra aree del mondo e civiltà, nella consapevolezza che la dimensione globale dei movimenti e degli scambi attraverso le linee di confine accompagna da sempre il cammino dell’uomo (...). Le civiltà non crescono solo per sviluppi interni ma anche attraverso le interazioni e gli scontri con altre civiltà». Insomma, è tutto un insieme di sommovimenti e contraccolpi, di farfalle che agitano le ali a ovest provocando uragani a est. Certo, per noi diventa più facile riconoscere questi processi quando l’occupazione portoghese di Malacca mette in crisi l’economia di Venezia o quando l’argento peruviano finisce direttamente in Asia lungo la via Acapulco-Manila trasportato da galeoni spagnoli. Ma ciò che si verifica a partire dal ‘500 è più che altro l’intensificarsi della connessione (e la sua progressiva estensione a tutto il mondo), non la nascita della connessione in quanto tale: reti globali erano state gettate da secoli lungo le rotte dell’Eurasia, tanto che c’è chi ha coniato l’espressione “Old World Web” per indicare il reticolo di relazioni che univa nientemeno che le grandi civiltà mediorientali del II millennio a.C. In fondo, si può risalire indietro fino alla prima rivoluzione urbana e alla specializzazione introdotta dalla lavorazione dei metalli. Siamo interconnessi da (almeno) cinquemila anni. Questa consapevolezza richiederà prima o poi di ripensare sul serio anche il modo di raccontarci la nostra storia. Per il momento ci serva da antidoto alle rivendicazioni idiote di chi vorrebbe erigere un muro anche intorno al proprio gabinetto.

(finito il 18 luglio 2017)

Ho parlato di


Vittorio Beonio Brocchieri
Storie globali
Persone, merci, idee in movimento
(EncycloMedia, 2011)

208 pp. | 14,50 €

giovedì 14 settembre 2017

Occhi nello spazio

Con la fantascienza alle volte accade di ritrovarsi nella stessa situazione di chi si propone di condividere un sogno che gli era apparso straordinariamente vivido e spaventoso nottetempo, ma che si rivela poi ai suoi stessi orecchi palesemente incongruo e sciatto non appena prova a raccontarlo ad altri; anche qui succede infatti di farsi totalmente coinvolgere da una storia finché si è sprofondati nella lettura (meglio se vacanziera), con tanto di wow, gulp e ka-boom in sottofondo, per poi scoprirsi in leggero imbarazzo al momento di spiegarne i dettagli a chi te ne chiede conto, perché suonano un po’ deliranti. Ora, premesso che io sono il classico allocco che abbocca ai dinosauri in copertina, qui tutto ruota intorno all’idea che su un qualche pianeta del cosmo, per ragioni al momento ignote (ma che immagino prima o poi verranno fuori, trattandosi di un’immancabile trilogia, peraltro risalente al pre-Jurassic Park), i tirannosauri si siano evoluti in una specie intelligente, nota come Quintaglio, capace di dare vita ad una società complessa, con le sue istituzioni, i suoi riti e un sofisticato sistema di norme comportamentali finalizzate a disinnescare l’aggressività latente inscritta nel loro codice genetico (ed è – questa ipotesi di una possibile comunità di predatori naturali, ossia di cacciatori riuniti in una civiltà almeno parzialmente urbana e sedentaria, ma senza agricoltura – una delle congetture più stuzzicanti ed elaborate del libro, con tanto di conseguenti corollari biopolitici e interessanti considerazioni sul collante garantito da una certa forma di religione “etica” introdotta a un certo punto per soppiantare i precedenti, atavici, culti legati proprio alla caccia e alla sua cruenta ideologia).

In questo scenario fa la sua comparsa da una provincia periferica il giovane Afsan, un apprendista astronomo, che altri non è se non l’equivalente squamato del nostro Galileo (ma anche un po’ di Colombo e di Magellano, per ragioni che si scopriranno in corso d’opera). Con acume e testardaggine, con la pervicacia di chi non ha istinti rivoluzionari ma semplicemente sa di avere ragione – e soprattutto con l’aiuto indispensabile di un tubo dotato di lenti con cui scrutare il cielo ­– Afsan smonta a poco a poco i principali dogmi su cui si regge la sua società, con un affascinante rovesciamento di prospettive cosmologiche rispetto alla nostra versione dei fatti (diciamo che il suo problema non sono le scabrosità della Luna né le sfere concentriche, ma l’intuizione alternativa di Sawyer è comunque egualmente intrigante). E poiché, a differenza del suo emulo mammifero, si rifiuta di abiurare, il nostro pagherà per questo uno dei prezzi più alti che si possano esigere da uno scienziato, vita esclusa. Ciò non gli impedirà tuttavia di ritrovarsi, ben oltre le sue intenzioni, al centro di una sorta di cospirazione, nel ruolo complicato di messia, anche in virtù della sua profezia sul destino segnato del pianeta, cui perviene, ovviamente, non attraverso visioni, bensì con sensate esperienze e necessarie dimostrazioni. Visionario è semmai il progetto finale di lanciare sé e i suoi compagni alla conquista del cielo grazie all’uso di macchine volanti, ispirate nientemeno che all’anatomia degli pterodattili, così da sfuggire al loro destino di morte (e qui siamo invece a metà strada tra Leonardo da Vinci e Jor-El di Krypton). Insomma, come temevo, suona tutto un po’ naif. Ma garantisco che è divertente. 

Ps: seguiranno episodi sul Darwinosauro e il Freudosauro.

(finito il 22 luglio 2017)

Ho parlato di


Robert J. Sawyer
Occhi nello spazio
(Mondadori, 2017)

(Urania 1644)

trad. di M. Jatosti

266 pp. | 6,50 €

(ed. or. Far-Seer, New York 1992)