Stanze

sabato 23 luglio 2016

Ci rivediamo lassù

All'inizio di questa calamità avevo pregato Iddio di far sentire ai malnati in città e nello Stato che l'opera è compiuta. Ma, a espiare quell'azione che era in principio, Egli non ha preso il loro sangue, il sangue degli ingannatori, degli uomini da nulla, dei traditori di Dio. Ha lasciato invece che questi sacrificassero il sangue degli altri e sopravvivessero indenni all'assassinio del mondo. É proprio vero, se le vie del Signore non fossero imperscrutabili, sarebbero incomprensibili! Ma perché ci ha resi ciechi davanti alla guerra! Eccoli attraversare la vita barcollando, storpi e paralitici, tremuli accattoni, bimbi incanutiti, madri impazzite che avevano sognato le offensive, figli eroici cui sfarfalla negli occhi il terrore della morte, e tutti coloro che non conoscono più il giorno né il sonno e ormai non sono altro che i rottami di una creazione frantumata. E laggiù coloro che hanno ardito quest'intrusione ridono del giudice al di sopra delle stelle, il cui trono è troppo alto perché il suo braccio li raggiunga. Non è tutto compiuto? Non resta una sola cicatrice nella loro anima, che mai è stata ferita da ciò che hanno fatto, saputo, tollerato. La pallottola è entrata all'umanità da un orecchio ed è uscita dall'altro.
K. Kraus, Gli ultimi giorni dell'umanità, Atto V, scena 42

Ovvero: l'ennesima riprova che coi premi Goncourt si va abbastanza sul sicuro.

Immaginate che la guerra finisca domani, o tutt'al più dopodomani. Che nell'aria circoli già un fremito per le notizie che cominciano a diffondersi, sia pure col contagocce. Che la stanchezza accumulata in quattro anni di carnaio stia finalmente per sfogarsi nel collettivo sospiro di sollievo di coloro che sono riusciti - non si sa come - ad arrivare vivi fino in fondo. Immaginatevi l'ansia feroce di sopravvivenza di chi sa che, però, nonostante queste speranze, si sta ancora ballando e basta un niente, una distrazione, per finire annoverati nelle cronache tra i morti più stupidi, quelli dell'ultimo giorno, di quando non conta più niente. E poi immaginatevi un ufficiale deluso per non essere riuscito a piazzare nessun colpo degno di nota nel suo tempo di comando e preoccupato per quell'imminente ritorno alla normalità che, per uno come lui, significa automaticamente perdita del potere inebriante di vita e di morte sui propri simili e l'umiliazione di dover sgomitare da capo per conquistarsi un analogo ruolo in tempo di pace. Immaginatevi che con uno stratagemma crudele l'ufficiale in questione ordini ai suoi sottoposti un ultimo, estenuante, assalto, allo scopo di occupare un minuscolo sasso sulla carta militare, così da poter buttare i suoi quattro morti sul tavolo della pace e guadagnarsi - lui pure - una medaglia. Ecco, nel momento in cui immaginate tutto questo siete già immersi nelle prime pagine di questo libro che comincia proprio quando un capitolo della storia è in procinto di chiudersi. La guerra in questione è la Grande Guerra. Il fronte è quello franco-tedesco, lato francese. Il momento è il novembre del 1918.

Motore dell'azione, qui come in quasi tutto quello che segue, è uno dei personaggi più spregevoli e luciferini che siano mai stati immaginati, un concentrato di tutti gli antieroi della grande letteratura francese, un po' Javert, un po' Bel-Ami e un po' tutti i carrieristi contro cui si scaglia la vendetta del Conte di Montecristo. Erede di una famiglia d'alto lignaggio ma decaduta - «antidreyfusardi dal Medioevo», si dice di loro a un certo punto, con un meraviglioso anacronismo in cui ci sta tutto: la spocchia aristocratica delle origini e le meschinità revansciste degli sradicati - quest'uomo ha l'evangelica intelligenza del figlio delle tenebre che sa costruirsi una personalissima exit strategy dalla guerra, diventando così l'icona di tutti coloro che nei mattatoi della storia hanno innalzato le proprie fortune. Per una circostanza casuale che sa abilmente pilotare, si fa genero di uno dei più ricchi e potenti finanzieri di Francia, ma, non pago di quella che percepisce comunque come una subalternità, intende sfruttare questa parentela solo come trampolino di lancio per un'ulteriore arrampicata sociale. Così, dopo aver speculato sulla pelle viva dei suoi sottoposti in guerra, specula sui loro resti in tempo di pace. Quando si apre la grande questione nazionale della redistribuzione delle salme dei soldati e della costruzione di adeguati cimiteri di guerra, eccolo infatti intervenire con un progetto che per ampiezza di vedute ricorda quelli di chi ha costruito le case di sabbia all'Aquila e tratteneva a stento le risate la notte del terremoto al pensiero della nuova torta da spartirsi. Intorno a lui, un codazzo di pittoreschi lacché pronti a prostrarsi al suo innato senso di superiorità. Non scendo troppo nei dettagli, per non rovinare la sorpresa di un romanzo che è bello anche per la tensione che sa creare e che non vorrei rovinare, ma tra una mazzetta qua e un ricatto là, il tale (che ha anche un nome: Henri d'Aulnay-Pradelle), arriva a un certo punto a incamerare una quantità enorme di quattrini, travolgendo tutti i possibili ostacoli con spietato cinismo, doppiamente vincitore di una guerra che - si lascia intendere più volte in corso d'opera -, prima ancora che un conflitto ideologico o territoriale fra paesi diversi, è stato uno scontro interno, una guerra civile mascherata, di natura generazionale (con vecchi generali che mandano a morte i loro stessi figli o nipoti) e sociale (con filibustieri capaci, appunto, di consolidare fortune e capitali mentre le masse venivano sacrificate nel macello della trincea).

Il contrappunto a questa irresistibile scalata sociale è offerto da due personaggi che costituiscono per molti aspetti lo specchio rovesciato della vicenda di Pradelle e la cui storia si intreccia con quella dell'ufficiale dalla prima all'ultima pagina del romanzo. Albert e Edouard hanno due percorsi molto diversi alle spalle prima di entrare l'uno nella vita dell'altro: il primo è un contabile vagamente fantozziano, perennemente rallentato rispetto allo scorrere della vita e persino tenero nel suo candore, schiacciato da una madre popolana che quasi avrebbe sperato che quel figlio un po' inetto morisse in guerra perché almeno se ne sarebbe potuta finalmente vantare come di un eroe; l'altro è il rampollo di una ricchissima famiglia altoborghese, che vola sempre un po' al di sopra dell'esistenza media di una persona comune, anche quando scopre, da giovanissimo, dapprima un estroso talento artistico, quindi la propria omosessualità, in continua sfida con quell'autorità paterna che non gli fa mancare nulla, salvo l'affetto, e che per il buon nome della famiglia ne copre sempre le goliardate con cui imperla la sua carriera scolastica. Incarnazione, se vogliamo, del principio di realtà e del principio di immaginazione, i due si conoscono per caso l'ultimo giorno di guerra, si ritrovano uniti da un destino beffardo e finiscono per condividere l'esperienza amara del reinserimento nella vita civile, con tutte le difficoltà di chi è stato segnato indelebilmente nel morale e nel fisico dall'esperienza del fronte.

Ed è qui che si tocca con mano - come si dice in questi casi: più che in tanti libri di storia - il dramma dei reduci. Massa di manovra per spericolate e spesso insensate azioni militari, i poveracci che concretamente hanno combattuto e vinto la più grande guerra della storia si ritrovano in pratica a doversi reinventare una vita con in mano un foglietto di "arrivederci e grazie" firmato dallo Stato. Sin dalla smobilitazione, descritta come se si trattasse quasi di una deportazione, tanto che molti arrivano a rimpiangere persino la prima linea, si capisce che i veri guai cominciano ora. Quando al posto degli archi di trionfo devi affrontare l'ostilità sorda di chi la guerra non l'ha fatta in prima persona e, esauritasi rapidamente l'emozione della vittoria, comincia a guardare con sospetto questi veterani con tutte le loro pretese e i loro racconti sicuramente esagerati (da cui sorge quella terribile idea che si riproporrà anche dopo la Shoah, secondo cui in fondo in fondo chi è sopravvissuto non la racconta proprio giusta e ha qualcosa da nascondere). E si capisce la frustrazione verso una sedicente patria, che dopo averti usato, ti ha abbandonato. Gli unici soldati visti con favore sono i morti. Bella grazia. Loro non parlano, non avanzano rivendicazioni: si tratta solo di realizzare adeguati sacrari per sfruttare anche i loro cadaveri trasformandoli in mete di pellegrinaggio civile. Proprio quei cimiteri che Pradelle si sta dannando per costruire.

Ma se i cimiteri devono essere edificati lungo la linea del fronte, i piccoli paesi di provincia come possono ricordare i propri caduti? Con dei monumenti alla memoria, che diventano l'occasione per una complementare forma di business. Così la pensa anche Edouard, il quale, dopo aver toccato il fondo della prostrazione, ritrova un filo di slancio vitale architettando, con la riluttante complicità di Albert, una truffa quasi avanguardistica allo scopo di tirarli fuori dall'abisso in cui sono finiti. Con foga febbrile realizza un porfolio di progetti per monumenti intenzionalmente brutti, ovvero rispettosi dei canoni dell'estetica militare e della retorica civile, compiaciuto per tutte le trovate kitsch che riesce a inventarsi; quindi compra spazi pubblicitari offrendo il proprio servizio a prezzi vantaggiosi ai comuni che, entro una certa data, invieranno il coupon e una caparra. Naturalmente, con l'intento di scappare col malloppo un attimo prima di essere beccati. Considerando che gran parte dei capitali sarebbero giunti dalle sottoscrizioni dei familiari delle vittime, sul piano morale si tratta di una speculazione non troppo diversa da quella allestita da Pradelle. Agli occhi di Edouard appare invece come un enorme sberleffo verso la guerra, un atto iconoclasta che ben si inserisce nella mentalità di un personaggio controcorrente e contraddittorio, desideroso di segnare ai supplementari un gol che almeno pareggi i conti con quell'immenso fallilmento personale che è stato la guerra (da lui vissuta sempre, idealisticamente, come trasfigurazione del conflitto con il padre).

L'incontro tra questi due movimenti narrativi produce una serie di avventure, a tratti picaresche, che tengono avvinti alla pagina in virtù, tra le altre cose, di una scrittura che non a caso si è esercitata per anni nella produzione di thriller. Dico solo che la chiave di volta di tutta la faccenda è un personaggio sgradevole, che fa di tutto per non apparire simpatico e che infatti non lo risulterà mai, ma offre il destro per una morale della favola che, se non apre magari squarci insensati di speranza, lascia comunque intendere che sia possibile, senza essere eroi, fare qualcosa per evitare che i bastardi se ne stiano sempre al sole. 

Ps. Da quel che si legge in postfazione, in questo libro c'è comunque del vero. Pradelle è un personaggio realmente esistito, per quanto qui credo molto romanzato. La questione dei monumenti e dei cimiteri di guerra è oggetto di dibattiti storiografici in Francia. Segno che negli interstizi della storia si annidano sempre un sacco di sorprese.

(finito l'11 giugno 2016)

Il libro che viene dopo. Dicevo del Goncourt. uno dei massimi premi di Francia. Lemaitre l'ha vinto con questo libro nel 2013. Scorrendo la lista dei premiati, ho constatato a posteriori che due dei libri più belli che abbia letto in questi anni sono presenti nell'elenco, vale a dire La carta e il territorio (2010) e Via delle botteghe oscure (1972). Con questo fanno tre. Si dirà che tre rondini non fanno più primavera di due, ma è comunque una buona pista. Le Benevole (Goncourt 2006) è lì che mi guarda da tanto tempo dallo scaffale con la sua bella costoletta carminio. A sentire in giro sembrano interessanti sia Il sermone sulla caduta di Roma (2012) sia L'arte francese della guerra (2011).

Una pagina

Il tenente d'Aulnay-Pradelle, uomo deciso, selvaggio e primitivo, correva sul campo di battaglia verso le linee nemiche determinato come un toro. Era impressionante quel suo modo di non temere nulla. In realtà, non era questione di coraggio, o comunque meno di quanto si sarebbe potuto credere. Senza essere particolarmente eroico, aveva acquisito ben presto la convinzione che non sarebbe morto lì. Ne era certo: quella guerra non era destinata a ucciderlo, ma a offrirgli nuove opportunità. 
In quell'attacco improvviso di Quota 113, la sua feroce determinazione risiedeva, sì, nell'odio che nutriva per i tedeschi, sconfinato, quasi metafisico, ma anche nel fatto che, con l'approssimarsi della fine, gli rimaneva poco tempo per approfittare della chance che un conflitto come quello, esemplare, poteva offrire a un nuovo come lui. Albert e gli altri soldati lo avevano intuito: quel tale aveva tutto del signorotto di campagna, versione decaduta. Nelle tre generazioni precedenti, gli Aulnay-Pradelle erano stati letteralmente ripuliti da una serie di tracolli in borsa e di fallimenti. Dell'antica gloria dei suoi antenati, lui aveva conservato solo la Sallevière, la dimora di famiglia ormai in rovina, il prestigio del suo nome, una o due conoscenze influenti molto lontane, alcune relazioni incerte e un'avidità nel ritrovare un posto nel mondo che rasentava il furore. Viveva la precarietà della sua situazione come un'ingiustizia e riguadagnare il suo rango nella scala dell'aristocrazia era un'ambizione fondamentale, una vera ossessione alla quale era pronto a sacrificare tutto. Suo padre si era sparato al cuore in un hotel di provincia dopo aver dilapidato quello che restava. La leggenda raccontava, senza fondamento, che sua madre, morta un anno dopo, non avesse retto al dolore. Senza fratelli né sorelle, il tenente si trovava a essere l'ultimo Aulnay-Pradelle e quella situazione di "fine della razza" gli procurava un'acuta sensazione di urgenza. Dopo di lui, il nulla. L'interminabile declino di suo padre lo aveva convinto ben presto che la rifondazione della famiglia poggiava sulle sue sole spalle ed era sicuro di disporre della volontà e del talento necessari per riuscirci. 
A ciò si aggiunga che era piuttosto bello. Bisognava amare le bellezze senza immaginazione, certo, ma comunque le donne lo desideravano, gli uomini lo invidiavano, segni che non ingannano. Chiunque avrebbe detto che a un fisico simile e a un nome simile mancava solo la ricchezza. Ed era esattamente la sua opinione e il suo unico progetto.


Ho parlato di

Pierre Lemaitre
Ci rivediamo lassù

(Mondadori 2014)

Trad. di S. Ricciardi

456 pp. | 17,50 €

(ed. or.: Au revoir là-haut, 2013)

lunedì 4 luglio 2016

Il carteggio Aspern


Ma quando ritorno in me
sulla mia via, a leggere o studiare
ascoltando i grandi del passato
mi basta una sonata di Corelli
perchè mi meravigli del creato.
F. Battiato, Inneres Auge

Ovvero: la conferma che ciò che rende veramente grande uno scrittore è la fantasia con cui ricama i dettagli.


Premessa maggiore. A tutti capita di lasciare dei libri a metà, anche più di una volta nella vita, per periodi di tempo limitati (quando, per esempio, restano lì a implorare attenzione sul bordo del comodino) oppure per pause talmente prolungate da non resistere a un riassestamento casalingo e richiedere, quando che sia, una rilettura integrale, non appena si ritrova l'ispirazione per estrarli nuovamente dallo scaffale della biblioteca (a me è successo spesso - con Moby Dick, per citarne uno, poi ripreso e amato dopo una mal riuscita fuitina adolescenziale, oppure coi Demoni, mai portati alla fine). Per lo più l'abbandono è imputabile al lettore e alle sue inappellabili ragioni. Succede più raramente, ma talvolta succede, che il distacco sia invece da addebitarsi in una certa misura al libro stesso. Che può sparire, rovinarsi in modo irreparabile oppure, più banalmente ancora, non finire. É quel che è accaduto alla prima versione del Carteggio Aspern che sia entrata in casa mia, nell'edizione da edicola dei Grandi della Narrativa di Repubblica, un cinque anni fa. Probabilmente esemplare di una partita fallata, quel volumetto si interrompeva in effetti in modo un po' troppo brusco per un testo fin lì calibratissimo e molto sorvegliato. Non si trattava di una cesura evidente - per dire: una frase interrotta a metà; anzi, poiché dal punto di vista dell'impaginazione tutto appariva perfetto, per quel che ne sapevo poteva trattarsi davvero della chiusa della storia. Coi mezzi oggi a disposizione non mi ci volle però molto per avere la conferma che lì mancava invece un intero capitolo, l'ultimo (in altri tempi, anche solo vent'anni fa, una verifica così rapida sarebbe stata più difficoltosa e questo mi ha fatto per un attimo fantasticare sul significato che potrebbero assumere certi libri se, all'insaputa del lettore, fossero sistematicamente privati del finale voluto dall'autore). Decisi allora che, alla prima occasione, quel libro me lo sarei dovuto procurare, anche in un'altra edizione, non tanto e non solo per sapere come andava a finire la storia (se fosse stato solo per quello, infatti, avrei potuto ricorrere facilmente ad altri espedienti), ma perché quel racconto e quell'autore meritavano a mio avviso di occupare dignitosamente uno spazio nella mia libreria. 

Così, dopo qualche tempo, acquistai un'altra versione del romanzo, integrata con altri due racconti di Henry James. Non per questo, però, ne ripresi subito la lettura. Perché ciò accadesse si rese necessaria una premessa minore. La scelta di cominciare un libro è un evento che devo preparare. Ora, fra le mie varie fissazioni vagamente archivistiche c'è un innato amore per le cronologie (che fa il paio con quello topografico per le mappe), una cui ramificazione investe la sfera degli anniversari e delle ricorrenze, monitorati sempre con una certa attenzione. Si dà il caso che il 28 febbraio del 2016 siano trascorsi cento anni esatti dalla morte di Henry James e per onorare questa cifra tonda, sin dai primi di gennaio, ritenni che fosse giunto il momento di riprendere quella storia rimasta in sospeso e conoscere finalmente la sua conclusione. Senonché, per un corollario della premessa maggiore, il sopraggiungere del concorso per diventare insegnante ha innescato la mia ontologica incapacità di concentrarmi su altro che non siano testi attinenti allo studio, provocando un nuovo rallentamento nella lettura, che si è realmente risolta, dopo diversi mesi, a fine maggio. Ma ne è valsa la pena. Ritornare a leggere è un segno che si è ritornati a vivere.

Il plot è semplice: un critico letterario inglese sbarca a Venezia perché è venuto a sapere che qui vive ancora, nel silenzio di una vita appartata e quasi povera, con la sola compagnia di una nipote non troppo brillante, la donna celebrata molti anni prima, sotto il nome esotico di Juliana, dal poeta Jeffrey Aspern, eroe fittizio che assomma in sé, idealizzandoli, i tratti dei grandi autori romantici inglesi (in particolare Byron e Shelley). Sfidando la riservatezza di questa donna inacidita e disillusa, il protagonista allestirà una complicata trama per cercare di ottenere, senza darlo a intendere, le lettere inedite che Aspern a suo tempo le aveva inviato e che lei pare ancora conservare, refrattaria però a qualsiasi forma di divulgazione. Per inciso, sembra che la vicenda abbia un solido aggancio in un episodio realmente accaduto a un discepolo di Shelley, di cui James venne a conoscenza e che annotò in una pagina del suo diario.


Tutto ruota intorno alla sconfinata ammirazione che il nostro critico nutre nei confronti del suo idolo Aspern e al contrasto che emerge tra l'immagine della giovane Juliana e la realtà della sua controparte anziana, relitto di un'età lontana e (per un esteta) delittuosamente attaccata al denaro al punto da contrattare sull'affitto come la più meschina delle megere. «Non c'è più poesia nel mondo», si legge a un certo punto - e questo anche perché novità come la fotografia «hanno annichilito la sorpresa» (e si noti la finezza di questa intuizione, buttata lì quasi come se nulla fosse). Il protagonista stesso è un uomo che si aggira nel passato, interessato - da critico qual è - a far risuonare la voce «di scrittori migliori di me: i grandi scrittori soprattutto... i grandi filosofi e i grandi poeti del passato; di quelli che se ne sono andati, sono morti». E inevitabilmente torna ancora a galla il Battiato malinconico che cerca di recuperare «l'incantesimo / di perdute esistenze / che non saranno mai le speranze / di presenze intorno a noi».


Eppure, su questo sfondo che non si sottrae all'impressione di una rappresentazione benignamente ironica, ogni tanto si ha come il bagliore di un'epifania. Il circuito sembra chiudersi e il passato appare a portata di mano, anche se sempre un po' più in là rispetto alla presa, come perennemente sfuggente. Quando il protagonista si trova faccia a faccia con Juliana - dice - è come se avvenisse «il miracolo della resurrezione. La sua presenza sembrava in qualche modo contenere ed esprimere quella di lui, e nell'istante in cui la vidi, gli fui vicino come non ero mai stato prima e non sarei mai più stato dopo». "Lui" è ovviamente Aspern. Il brivido si fa quasi ossessione: ora è desiderio di sfiorare la mano che aveva toccato quella di Aspern, ora stupore al pensiero che quella particolare voce era la stessa che aveva sentito Aspern, ora tremito nell'incrociare uno sguardo che era stato a sua volta fissato da Aspern, in una catena di rimandi che fa da ponte fra le generazioni e consente quasi di intravedere l'origine. Le due donne, zia e nipote, «saldavano una continuità tra la mia vita e l'illustre esistenza che le aveva toccate agli albori». Risuona qui l'entusiasmo del discepolo che ascolta dalla viva voce dell'apostolo il racconto vibrante della sua vocazione sul lago di Galilea (Ireneo di Lione ricorda con analogo afflato la piazza dove il vescovo Policarpo era solito parlare di quello che aveva udito da coloro che avevano visto il Signore). Se non fosse che Juliana è terribilmente reticente, persino ostile; simbolicamente, «sugli occhi portava una orribile visiera verde che le serviva quasi da maschera», in modo da rendere impossibile un contatto visivo diretto con lei. Così l'incanto si spezza, il passato torna a essere inghiottito in una nebulosa imperscrutabile, le tracce si perdono definitivamente. Dopo una lunga e dispendiosa forma di corteggiamento, la possibilità di riallacciare quel legame, attraverso la riesumazione del carteggio ambito, finisce per essere subordinata a una scelta che il protagonista non se la sentirà di fare (lui, che pure, per altri aspetti, sembrava invece disposto a tutto pur di metter mano su quei fogli!).


Ripeto, qui c'è dell'ironia. Ma il filo della memoria che si trasmette precario, di voce in voce, nello scorrere degli anni, è realmente ciò a cui tutti siamo appesi. Negli occhi dei nostri genitori noi possiamo vedere come il riflesso degli occhi dei loro genitori o dei loro nonni, del cui transito terreno ci resta spesso pochissimo fra le mani, fuorché le mani stesse e le segrete dinamiche di quel codice che ci rende in parte quel che siamo e in cui conserviamo le conquiste di tutti gli altri nostri incalcolabili antenati. Io la vagheggio spesso, questa possibilità di interrompere la corsa del tempo e ripercorrerla a ritroso, contrastando per un momento la bufera che ci scaraventa a velocità folle verso il punto di fuga della storia, così da trattenere, di quel passato, di quel cumulo di vicende da cui veniamo, un'espressione, un tono di voce, un cenno della testa che, scomparso l'ultimo testimone diretto, sarà altrimenti perduto per sempre. C'è qui il rammarico per non aver mai raccolto organicamente i racconti di guerra e pace dei miei nonni, ma anche la paura di immaginare eternamente sepolte in un supporto tecnologico obsoleto l'equivalente moderno degli antichi carteggi. Più in generale, è un senso di vertigine per essere come sospesi su un atollo di pochi ricordi nel grande oceano della dimenticanza, che pure è necessaria per vivere. Per questo, sento come un fremito alla notizia, letta proprio in questi giorni, del ritrovamento, in una grotta della Linguadoca, di piccole steli disposte secondo schemi circolari presumibilmente da uomini di Neanderthal vissuti circa 175 mila anni fa. Questo cumulo di rocce è, oggi, il mio carteggio Aspern.


Post scriptum/1. James scrive divinamente. «Che accade alle impressioni nei lunghi intervalli della coscienza? Dove vanno a nascondersi? In quali stipi, in quali anfratti inesplorati del nostro essere si annidano? Assomigliano alle righe di una lettera vergata con l’inchiostro simpatico: tenete la lettera al fuoco per un po’ e il grato tepore farà trapelare le parole invisibili. É il tepore di questo sole dorato di Firenze a ricomporre il testo della storia d’amore della mia giovinezza, oggi spiegata davanti a me come una nitida pagina bianca e nuova». Mi arrendo. Quando mi imbatto in periodi di questo tenore, la cui densità è come alleggerita dall'eleganza, sono capace di fermarmici sopra per dieci minuti. É anche per questo che sono così lento a leggere. E James è esattamente quel genere di scrittore che mi fa andare ancora più piano. Una autentica slow reading.


Post scriptum/2. Come evidenzia la breve citazione precedente, a leggere gli americani che parlano dell'Italia si capisce perchè poi decidono di dare l'Oscar a film come La grande bellezza. L'Italia, qui, è tutta luce e calore, la primavera della vita, un'immensa scenografia (per quanto, in Daisy Miller, James ci offra anche il contraltare del newyorchese abbruttito, che non trova nulla di realmente interessante in Europa rispetto al proprio paese, dove ha sede la ditta di papà).

(finito il 22 maggio 2016)

Il libro che viene dopo. James meriterebbe un approfondimento. Per gusti personali e per chiara fama, tanto varrebbe cominciare da Giro di vite.


Una pagina (102-103)

Chissà perché fu proprio in quella occasione che più che mai mi colpì la strana aria di socievole contiguità e di vita domestica che rappresenta buona parte del fascino di Venezia. Senza strade e veicoli, senza il frastuono delle ruote e la brutalità dei cavalli, con le sue stradine tortuose dove la gente si raccoglie insieme, dove le voci risuonano come nei corridoi di una casa, dove il passo umano si muove quasi a scansare gli spigoli dei mobili e le scarpe non si consumano mai, il luogo ha il carattere di un immenso appartamento collettivo, con Piazza San Marco che fa da salotto buono, e gli altri palazzi e le chiese che fungono da grandi divani per riposare, da tavole per intrattenersi, da superfici decorative. E in qualche modo lo splendido domicilio comune, familiare, domestico, sonoro, assomiglia anche a un teatro con gli attori che scalpicciano sui ponti e, in disordinato corteo, saltellano lungo le fondamenta. Mentre si è seduti in gondola, i marciapiedi che in certi punti costeggiano i canali assumono per lo sguardo l’importanza di un palcoscenico, con la stessa angolatura, e le figure veneziane, nei loro andirivieni contro lo scenario delle sbilenche casette da commedia, danno l’impressione di essere i membri di una infinita compagnia drammatica.


Ho parlato di




Henry James

Il carteggio Aspern 
e altri racconti italiani
(Garzanti 2009)

Trad. di G. Lonza

220 p. | 9 €

(ed. or.: The Aspern Papers, 1888; Daisy Miller, 1878; Diary of a Man of Fifty, 1879)



Nota. Gli altri due racconti contenuti in questa raccolta sono Daisy Miller e Il diario di un uomo di cinquant'anni. Se Il carteggio Aspern è ambientato a Venezia, questi altri due sono inscenati per lo più a Roma e Firenze.