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sabato 25 febbraio 2012

Il medico e i mangiatori d'aria

Jacques Dubois (Sylvius)
  D'altro canto, ci sono anche medici e scienziati che prendono sì ispirazione dal mondo che li circonda, ma per formulare delle proposte vagamente surreali. Uno dei casi più interessanti è quello di un altro professore di medicina francese, appartenente alla generazione precedente a quella di Joubert, Jacques Dubois (Sylvius, 1478-1555).  Questi è fra i grandi protagonisti della new wave umanistica in ambito medico e dalla sua cattedra parigina tuonò improperi d'ogni tipo contro il suo ex allievo Vesalio, reo - con le sue modernissime tavole anatomiche - di mettere in discussione l'antico insegnamento galenico (Sylvius era talmente persuaso del fatto che Galeno non avesse mai potuto sbagliare da giungere alla conclusione, dinanzi ad alcune inoppugnabili osservazioni di Vesalio, che la specie umana aveva necessariamente dovuto corrompersi nei dodici secoli trascorsi dall'epoca in cui il medico di Pergamo aveva scritto le sue opere!). Sono questi degli esempi interessanti di come vecchio e nuovo si intreccino nel '500 in modi originalissimi, di come - cioè - un fenomeno che rappresentava senz'altro un segno di discontinuità rispetto al passato (la cura filologica per le fonti e il desiderio di ripristinare l'esatta parola degli antichi) potesse cozzare con un fenomeno altrettanto nuovo quale la pratica vesaliana di ricorrere alle dissezioni non più semplicemente per illustrare quello che c'era scritto nei libri, ma per raccogliere informazioni con cui formare nuovi libri, che tali informazioni avrebbero poi dovuto conservare e trasmettere, anche attraverso un uso inedito delle illustrazioni.

  Sylvius fu però anche autore di alcuni testi di argomento dietetico e terapeutico, che sono particolarmente interessanti dal punto di vista storico perché appaiono indirizzati alla cura di pazienti provenienti dalle classi sociali più disagiate (il tema della crescente povertà urbana era una questione che appariva sempre più pressante nei primi decenni del secolo: il grande umanista spagnolo Juan Luis Vives scrisse per esempio nel 1526 un De Subventione Pauperum con cui cercava di affrontare la questione in termini non solamente caritatevoli e assistenziali ma propriamente politici). In essi l'autore suggeriva alcune semplici prescrizioni che potevano aiutare i nullatenenti a sopravvivere al meglio nonostante le ristrettezze cui erano condannati. Sono di questo tenore, per esempio, il De parco ac duro victu libellus elegans ("Elegante libretto sul regime di vita povero e duro", del 1542) e il De victus ratione facili ac salubri pauperum scholasticorum libellus ("Libretto sul regime di vita facile e salubre degli studenti poveri", anch'esso del 1542, espressamente indirizzato ai giovani allievi, con consigli ad hoc come quello di dedicarsi alla lettura con un'adeguata luminosità per non rovinarsi la vista), anche se non si capisce esattamente come potessero i poveri documentarsi su dei libri scritti pur sempre nel latino dei dotti.

Immagine di un Astomo,
da Kaspar Schott, Physica
curiosa
(1662)
  Ad ogni modo, il vero e proprio colpo di genio di cui vorrei parlare si trova nel Consilium perutile adversus Famem et Victuum Penuriam ("Consiglio utilissimo contro la fame e la penuria di cibo", di datazione incerta, ma risalente alla fine degli anni '40). L'idea di Sylvius è che, non essendo la fame e la sete nient'altro che l'impulso naturale con cui il corpo cerca di reintegrare la propria sostanza, riequilibrando così, con l'assunzione di cibo e bevande, la quantità di materia che continuamente e invisibilmente si disperde nell'ambiente a causa del calore nativo che brucia dentro di noi, se noi moderassimo questo calore o limitassimo in qualche modo tale dispersione, avremmo eliminato o comunque ridimensionato l'esigenza di nutrirci. Da cui il conseguente consiglio: «Impediremo la dispersione, se chiuderemo tutti i pori e i meati del corpo, eccezion fatta per quelli che sono stati destinati dalla natura all'espulsione degli escrementi superflui del corpo, quali sono i meati attraverso cui sono espulse le feci, le urine e il muco e attraverso cui anche si produce la respirazione...» (giuro che dice proprio così, a p. 197 della sua Opera medica, che è disponibile su Google Books). Non meno grottesco, nelle pagine successive, il modo con cui Sylvius cerca di mostrare che è possibile sopravvivere nutrendosi solo di aria...
Ma ora mostriamo in quale modo l'uomo e moltissimi altri animali possono vivere, se non sempre, almeno per un po' di tempo solo di aria o di sostanze aeriformi (...) Anzitutto orsi, ghiri, testuggini, serpenti, anguille, vipere e molti altri animali vivono nascosti nelle loro grotte senza cibo e bevanda, del solo respiro, senza il quale non possiamo vivere neppure per un istante; molti che sono afflitti da apoplessia o letargia trascorrono diversi giorni senza bere e mangiare; molti che sono rinchiusi in carcere o che sono caduti in burroni o stanno nascosti nei boschi vissero per qualche tempo accontentandosi di respirare aria. Scrive Plinio (Nat. Hist. VII, 2) che alcuni popoli privi di bocca [i cosiddetti Astomi, che la leggenda riteneva abitassero in India, ndr] vivessero solo del respiro e dell'odore fragrante dei pomi selvatici che giungeva alle loro narici. Facciamo ogni giorno esperienza di quante persone risorgono e quasi tornano a vivere al solo odore del pane, della carne bollita o meglio ancora arrostita, dell'acqua di rosa, della caryopilite, della noce moscata e altre simili cose: per opera di odori di questo tipo persino la sincope mortale è immediatamente guarita... (p. 198),
   E continua, poco dopo:
Si sono visti al nostro tempo non pochi uomini, soprattutto in Germania, per natura malinconici e flegmatici che vissero diversi mesi senza mai bere né mangiare: sebbene Ippocrate affermi nel libro De carnibus che non assumere cibo per sette giorni sia letale per l'uomo, Plinio invece sostiene che non sempre il settimo giorno è fatale, poiché molti sopravvissero anche dopo oltre undici giorni... (p. 198).
 La logica soggiacente sembra più o meno essere questa: se il corpo disperde nell'ambiente circostante sottilissime parti di materia, per reintegrarle potrebbe essere sufficiente, almeno per un limitato periodo di tempo, inalare una pari quantità di sostanze aeriformi, senza bisogno di ricorrere al cibo solido. É chiaro che il retroterra tragico che fa da sfondo a queste disarmanti considerazioni è quello di un mondo segnato da prolungate carestie, rese ancor più pesanti dai movimenti degli eserciti nell'eterna guerra tra le potenze europee. Meno chiaro è invece dove Sylvius abbia visto questi fantomatici tedeschi capaci di sopravvivere per giorni senza acqua né cibo. E soprattutto senza birra.

martedì 21 febbraio 2012

Il medico e i mangiatori di ardesia

  Spesso filosofi e scienziati traggono ispirazione anche dalle vicende più drammatiche che contrassegnano il loro tempo. Laurent Joubert (1529-1583) fu professore nella celebre facoltà di medicina dell'Università di Montpellier ed ebbe anche importanti incarichi a corte. La sua fama è legata soprattutto a un'opera scritta in francese, gli Erreurs populaires au fait de la medicine et regime de santé (Bordeaux, 1578), nella quale - da medico dotto e togato qual era - puntava l'indice contro gli abusi praticati quotidianamente da guaritori sprovveduti e ciarlatani, i quali - con i loro rimedi approssimativi - finivano per gettare in discredito la medicina tutta, compresa quella rispettabile e scientificamente solida che Joubert si vantava di esercitare (non stiamo qui a sottilizzare sul fatto che le differenze fra i due generi di medicina non erano sempre così nette come ai medici di scuola piaceva pensare).

Laurent Joubert
  Il settimo capitolo del libro è rivolto - così dice il titolo - Contro quelli che giudicano la capacità dei medici dal successo, che è spesso dovuto al caso più che al sapere. In altre parole, Joubert intende qui mettere in guardia il suo pubblico da una frettolosa associazione tra esito felice di una cura ed effettiva competenza del medico, dal momento che, come la sopravvivenza del paziente può dipendere solo fortuitamente dalla scelta meditata di una terapia (perché vi si sono intrecciati altri fattori o semplicemente perché il medico ha tirato a indovinare), così l'eventuale sua morte non è necessariamente da addebitarsi all'incuria del medico (perché in certi casi si può incappare in essa anche se si sono messe in atto tutte le strategie terapeutiche più indicate, magari perché la situazione era oggettivamente disperata).

  Per chiarire questo concetto Joubert elabora un articolato paragone tra il medico e il capitano che assedia o difende una piazzaforte, il cui merito non può essere misurato dalla riuscita del suo intento, posto che abbia fatto «tutto ciò che l'arte richiede». Dinanzi al corpo malato, il medico si trova infatti come il generale di fronte a una fortezza di cui conosce solo la superficie esterna, non la sua reale consistenza, né l'esatta disposizione di viveri e munizioni da parte dei difensori: tutto ciò di cui dispone per elaborare la sua strategia sono «congetture, somiglianze, esempi e osservazioni», con il loro carico di precarietà e incertezza. Oppure è paragonabile a chi è incaricato di difendere un presidio dall'assalto dei nemici: se questi riesce a difenderlo

fino allo stremo delle forze, dopo che sono stati mangiati tutti i cavalli, gli asini, i cani, i topi e i gatti presenti nel luogo assediato e poi anche pelli, pergamene e altri cibi penosi (come dice sia accaduto a quelli di Sancerre, che nell'anno 1573 si spinsero a mangiare - non so come - perfino l'ardesia), persa la maggior parte dei suoi uomini, le mura tutte perforate e non avendo più di che sostenersi, costui - costretto infine ad arrendersi - non meriterà meno lodi (se non anzi di più) di colui che avrà salvato senza particolare fatica la sua posizione, ben provvista e dotata di tutto l'occorrente (Erreurs, pp. 81-2).
 
  Un'immagine del genere, così minuziosamente dettagliata, acquista tutta la sua piena espressività se è ricondotta nel contesto pesantissimo delle guerre di religione che dilaniarono la Francia per oltre un trentennio nella seconda metà del XVI secolo, quanto situazioni come quella appena descritta erano tragicamente all'ordine del giorno e non erano pochi quelli che potevano richiamarle alla mente per averle viste coi propri occhi. Fra tanti episodi di ferocia, uno di quelli che più colpì e impietosì l'opinione pubblica fu proprio l'episodio cui qui allude Joubert, vale a dire l'assedio di Sancerre. Questa cittadina ugonotta sulla Loira a nord-est di Bourges, nella regione del Centre, fu circondata per cinque lunghi mesi dalle truppe cattoliche a partire dal marzo 1573, prima di capitolare, il 24 agosto, esattamente un anno dopo il massacro della notte di San Bartolomeo (in seguito al quale molti calvinisti si erano appunto asserragliati nella fortezza). Della vicenda è rimasta sinistra memoria nella letteratura francese (basti pensare che ne parleranno ancora Voltaire e l'Encyclopédie due secoli dopo) perché, rimasti privi di rifornimenti dall'esterno a causa del prolungato assedio, i cittadini di Sancerre furono costretti a cibarsi di tutto ciò che avevano a disposizione - come ricorda lo stesso Joubert, e spingendosi anche oltre ciò che lui rievoca, se è vero che non mancarono neppure fenomeni di cannibalismo.

Il castello di Sancerre in un'incisione di inizio '600
(c) sancerre.cg18.fr
  Il racconto dettagliato di quel capitolo terribile delle guerre civili francesi si può trovare nell'Histoire memorable de la ville de Sancerre, pubblicata nel 1574 da Jean de Léry, contenente, come recita il sottotitolo (che all'epoca svolgeva non di rado le funzioni della quarta di copertina nei libri odierni), les Entreprinses, Siege, Approches, Bateries, Assaux et autres efforts des assiegeans: les resistances, faits magnanimes, la famine extreme et delivrance notable des assiegez. É proprio in queste pagine concitate che troviamo la notizia ripresa da Joubert. Passando in rassegna gli accorgimenti escogitati dai Sancerrini per affrontare la fame, Léry (che visse tutta la vicenda all'interno delle mura ed è dunque fonte attendibile, anche se coinvolta) racconta che al terzo mese d'assedio la situazione era talmente disperata per la carenza di grano che alcuni suoi concittadini si risolsero a prendere delle tegole d'ardesia dai loro tetti e a pestarle nei mortai, setacciandone poi la polvere ricavata così da farne una sorta di pane, dopo averla mescolata con acqua, sale e aceto (Hist. mem. p. 143). E non è tutto. Poche pagine dopo si riporta infatti il racconto dell'arresto di una coppia di sposi e di una vecchia che viveva con loro, rei di «aver mangiato la testa, il cervello, il fegato e le viscere di una loro figlia di circa tre anni, morta di fame e di stenti» (p. 146).  Ma lasciamo la parola a Léry, testimone oculare dell'evento: 

Questo fatto non passò senza grande stupore e terrore di tutti coloro che ne sentirono parlare. Ed essendomi io stesso incamminato verso il luogo in cui abitavano, e avendo visto l'osso e il resto della testa di questa povera bambina, pulito e rosicchiato, e le orecchie mangiate; avendo visto anche la lingua cotta, spessa un dito, che quelli erano in procinto di mangiare quando furono sorpresi; e le cosce, le gambe e i piedi in un calderone con aceto, spezie e sale, pronti per essere cotte e messe sul fuoco; e le spalle, le braccia e le mani tenute insieme con il petto spaccato e aperto, apparecchiate anch'esse per essere mangiate, io ne fui così atterrito e sconvolto che tutte le mie viscere ne furono scosse. Infatti, per quanto abbia vissuto dieci mesi tra i selvaggi Americani in Brasile e li abbia visti sovente mangiare carne umana (in quanto mangiano i prigionieri che catturano in guerra), provai comunque un enorme terrore nel vedere questo pietoso spettacolo, che non si era ancora mai visto (a quanto credo) in una città assediata nella nostra Francia (p. 146-7).

  Il racconto prosegue con la descrizione dell'iter giudiziario che portò alla condanna a morte dei due sposi, sul cui passato emersero pian piano torbide rivelazioni. Ne riparliamo magari appena finisco di costruire il plastico di Sancerre.
 

mercoledì 15 febbraio 2012

La bomba atomica del '500

  Avrete di sicuro presente quei tipici articoli con cui giornali o riviste specializzate, al volgere di un secolo, di un decennio o anche solo di un anno, propongono una rassegna delle maggiori scoperte del periodo preso in esame, per lo più attraverso lo schema che sembra ormai irrinunciabile della classifica: dal viaggio sulla Luna alla mappatura del genoma, passando per la bomba atomica e la velocità dei neutrini, a seconda della scansione temporale adottata. Questa prassi giornalistica un po' logora ha tuttavia un lontano, nobile, antecedente in una serie di incisioni pubblicate in Olanda all'inizio del '600 ispirate a una serie di disegni realizzati dal pittore fiammingo Jan van der Straet (latinizzato in Stradanus, 1523-1605) raffiguranti i ritrovati più significativi degli ultimi tempi. Il titolo della raccolta, Nova reperta (ossia "Nuove scoperte"), si inserisce perfettamente nel clima di entusiasmo che da più di un secolo accompagnava i continui progressi della conoscenza, diffondendo l'idea che si fosse davvero entrati in una fase "nuova" della storia umana.

  Mundus Novus era, per dirne uno, il titolo dell'opuscolo con cui Amerigo Vespucci certificò, una decina d'anni dopo il primo viaggio di Colombo, che le terre da lui toccate non potevano essere le Indie, ma - appunto - un «mondo nuovo», di cui «nessuna cognizione hanno avuto i nostri antichi» (anzi, un mondo che, stando alle teorie dei filosofi non avrebbe dovuto proprio esserci). Sull'onda di quello che fu un portentoso successo letterario, è incalcolabile la quantità di scritti che per oltre un secolo avrebbero ostentato in bella vista sul frontespizio il termine novus. Non fanno eccezione i Nova reperta di cui sopra, i quali, neanche a dirlo (perché anche se può sembrare, non facciamo proprio le cose a caso), mettono al primo posto fra le recenti novità proprio la scoperta dell'America, nel senso, appena ricordato, di scoperta di un mondo vergine, il cui merito veniva perciò giustamente attribuito a Vespucci anziché a Colombo (del resto, la proposta di chiamare quella nuova terra "America" era stata avanzata per la prima volta dal geografo Martin Waldsemuller già nel 1507).

America, Teodoro Gallo su disegno di
Jan van der Straet (ca. 1600)

  Il verso epigrammatico che accompagna l'incisione dice "Amerigo scoprì l'America: la chiamò una volta e da allora in poi lei fu per sempre sveglia". L'America è infatti raffigurata come una donna nuda, circondata da fiere in un contesto pacificamente edenico, appena svegliata dall'arrivo dell'esploratore fiorentino, stupita e (forse) un po' in apprensione per quell'inaspettato incontro, che l'aveva ridestata dal placido sonno dell'età dell'oro (scriveva Vespucci degli indigeni che erano «gente mite... e mansueta. Tutti di entrambi i sessi vanno in giro nudi senza coprire alcuna parte del corpo, e così come escono dal ventre della madre vanno fino alla morte (...) Non hanno panni di lana né di lino né di seta, poiché non ne hanno bisogno; né possiedono dei beni propri, ma tutte le cose sono comuni; vivono senza re, senza un'autorità suprema e ciascuno è padrone di se stesso. Prendono tante mogli quante vogliono (...) Non hanno nessuna chiesa, non hanno alcuna legge, né sono idolatri (...) Vivono secondo natura (...) Vivono centocinquanta anni, si ammalano raramente, e se incorrono in qualche malattia si curano da sé con certe radici di erbe»; per il testo di Vespucci cfr. Nuovi Mondi. Relazioni, diari e racconti di viaggio dal XIV al XVII secolo, Rizzoli, Milano 2010, pp. 229-246). Molto è stato scritto sul carattere simbolico di questa immagine, che raffigura un certo modo di concepire il nuovo mondo come luogo ameno e incorrotto - ma non è su questo che volevo fissarmi.

Mi interessava invece registrare le altre scoperte immortalate dalle incisioni dei Nova reperta, rinviando al sito dell'Università di Liegi chi fosse interessato e esaminarle una per una. Se alcune sono facilmente prevedibili, altre sospetto che susciteranno maggiore curiosità. Su ciascuna di esse si potrebbe scrivere un libro intero, ma per ora mi limito all'elenco:

1) La scoperta dell'America (America)
2) La bussola (Lapis polaris, magnes)
3) La polvere da sparo (Pulvis pyrius)
4) La stampa (Impressio librorum)
5) L'orologio (Horologia ferrea)
6) La distillazione (Distillatio)
7) La coltivazione del baco da seta (Ser, sive sericus vermis)
8) I finimenti dei cavalli (Staphae, sive stapedes)
9) I mulini ad acqua (Mola acquaria)
10) I mulini a vento (Mola alata«
11) Lo zucchero di canna (Saccharum)
12) Le lenti (Conspicilla)
13) Il calcolo della longitudine (Orbis longitudines repertae e magnetis a polo declinatione)
14) La politura delle armature (Politura armorum)
15) L'astrolabio (Astrolabium)
16) L'incisione su rame (Sculptura in aes)

  Sulle prime il consenso era pressoché unanime. Francesco Bacone, autore a sua volta di un Novum Organum (potremmo dire una "nuova logica", essendo Organum, "strumento", il nome con cui erano note le opere logiche di Aristotele), scriveva per esempio al § 129 del suo libro: «bisogna considerare anche la forza, la virtù e gli effetti delle invenzioni, che si manifestano con maggior evidenza che altrove in quelle tre invenzioni, che erano ignote agli antichi, e le cui origini, sebbene recenti, sono per noi oscure e ingloriose: l'arte della stampa, la polvere da sparo, la bussola. Queste tre invenzioni hanno cambiato la faccia del mondo e le condizioni di vita sulla terra: la prima nella cultura, la seconda nell'arte militare, la terza nella navigazione. Da esse derivarono infiniti mutamenti, tanto che nessun impero, nessuna sètta, nessuna stella sembra aver esercitato sulle cose umane un maggiore influsso ed una maggiore efficacia di queste tre invenzioni meccaniche» (Opere filosofiche, Utet, Torino 2009, pp. 635-6). Attraverso di lui il tema sarebbe diventato un luogo comune per tutto il '600.

sabato 11 febbraio 2012

Mondovi'... formidabili quegli anni (Parte 2)


La doccia fredda per Mondovì giunse l’8 agosto 1562, quando a Blois venne stipulato un nuovo accordo per regolare definitivamente le questioni che la pace di Cateau-Cambrésis aveva lasciato in sospeso tra la Francia e lo Stato Sabaudo. Le trattative non furono semplici da sbrogliare, anche perchè si inserirono in un quadro complessivo tutt’altro che sereno. In appena tre anni, infatti, la corona francese aveva cambiato per ben tre volte titolare: a Enrico II (di cui Emanuele Filiberto aveva sposato la sorella proprio nel giorno della morte, il 10 luglio 1559) erano succeduti prima il figlio Francesco II (morto nel dicembre 1560), quindi il secondogenito Carlo IX, che era solo un ragazzino e governava sotto la tutela della madre, Caterina de’ Medici. Il massacro di Wassy del marzo 1562, inoltre, aveva dato il via a quel lungo periodo di torbidi e di violenti conflitti interconfessionali che avrebbero dilaniato la Francia per oltre un trentennio. In tale contesto Emanuele Filiberto dovette a malincuore rinunciare alle pretese su Pinerolo, ed anzi si vide persino costretto a consegnare ai transalpini Perosa e Savigliano; in cambio ottenne però la restituzione di quattro delle cinque piazzeforti ancora sotto il controllo francese: Chieri, Chivasso, Villanova d’Asti e finalmente l’agognata Torino, che il Savoia considerava strategica per il controllo del Piemonte. Il ritiro delle truppe francesi avvenne il 12 dicembre successivo e il 7 febbraio 1563 Emanuele Filiberto poteva finalmente fare il suo ingresso solenne nella sua nuova capitale.

Torino, Monumento a Emanuele Filiberto
L’insediamento della corte ducale a Torino fu senza dubbio uno degli eventi chiave di quegli anni, ma porto con sè – per quanto ci riguarda – tutta una serie di complicazioni. A liberazione avvenuta, il Comune di Torino non tardò infatti a rivendicare gli antichi diritti e a invocare la riapertura dell’Università dopo la lunga inattività di cui abbiamo parlato. Gli argomenti avanzati erano solidi, poiché i torinesi potevano contare sulla concessione rilasciata a suo tempo da Ludovico di Savoia-Acaia, nonché sul diploma imperiale e la bolla papale che certificavano la fondazione dello Studio all’inizio del XV secolo. Tali diritti – questo il punto – non erano mai stati revocati da nessuno: l’occupazione francese aveva semplicemente imposto un’interruzione forzata alla didattica, che quindi poteva e doveva riprendere regolarmente il suo corso nel momento in cui erano venute meno le cause della sospensione. E poichè fra i privilegi garantiti all’Università di Torino vi era quello, anch’esso mai revocato, di poter essere l’unica istituzione del genere entro i confini del ducato sabaudo, la sua ricostituzione doveva coincidere con l’immediata chiusura dell’altra sede che in quel momento stava svolgendo analoga funzione in Piemonte, evidentemente in modo illegittimo, vale a dire, appunto, Mondovì. Temendo che il loro progetto naufragasse ancor prima di poter veramente decollare, i monregalesi, allarmatisi, intrapresero tutte le iniziative che ritennero utili per azionare le adeguate contromisure, inviando delegazioni al duca per esortarlo a non assecondare l’interpretazione fornita dal Comune di Torino. Anche Mondovì, del resto, poteva vantare il suo diploma ducale, firmato per di più dallo stesso Emanuele Filiberto poco più di due anni prima, e non da un suo lontano antenato, nel quale peraltro non si presentava affatto l’Università monregalese come una succursale temporanea di quella torinese, ma come uno Studio interamente nuovo e autonomo, dotato perciò degli stessi diritti che a suo tempo erano stati conferiti a quello più antico. Se per far valere le proprie ragioni Torino si riallacciava a delle prerogative ancora medievali, l’argomento giuridico su cui Mondovì faceva leva era invece estremamente moderno, a prima vista perfettamente adatto a un’epoca in cui si andavano formando in tutta Europa i nuovi Stati assoluti. Emanuele Filiberto – sosteneva questa campana – conosceva perfettamente quali erano i documenti in mano ai torinesi, e quale il loro contenuto; se perciò aveva ritenuto di fondare una nuova Università a Mondovì era perchè, semplicemente, riteneva giuridicamente corretto farlo, ed essendo il duca la fonte unica del diritto all’interno del proprio stato, ciò che stabiliva aveva valore di legge e nessuno poteva appellarsi ad altre norme, per quanto antiche, per contrastare le sue decisioni. Ad essere illegittima non sarebbe stata dunque la creazione dell’Università monregalese, ma la pretesa di Torino di contraddire la volontà del principe.

El Greco, Ritratto di Pio V (particolare)
In realtà, quello in cui si era cacciato il duca era un autentico vicolo cieco giuridico, in cui entrambi i contendenti avevano buone carte da giocare. Il problema è che due Università in uno Stato così piccolo non avrebbero potuto resistere, nè la corte avrebbe potuto mantenerle entrambe: una soluzione, dunque, andava in qualche modo trovata al più presto. La pressione su Emanuele Filiberto – lo si può immaginare – fu da subito enorme e il duca dovette nominare un’apposita commissione governativa per esaminare il caso. Nel frattempo, comunque, onde evitare che l’attività universitaria, da lui così fortemente voluta, andasse incontro a un’altra sospensione, egli concesse una deroga a Mondovì perchè continuasse le lezioni in attesa del verdetto e continuò a incaricare normalmente professori per quella sede. Tra suppliche, interpellanze e ricorsi, se ne andarono così via altri tre anni, senza che si riuscisse a trovare un’intesa soddisfacente. Nel 1566, l’elezione al soglio di Pietro del cardinale Ghislieri col nome di Pio V sembrò segnare un punto a favore di Mondovì, che si vide prontamente confermare dal suo ex vescovo i privilegi già riconosciuti quattro anni prima dal suo predecessore Pio IV. Ma più della benedizione papale, agli occhi di Emanuele Filiberto, poterono i soldi. L’11 maggio 1566 i torinesi calarono infatti l’asso vincente: inoltrando al duca l’ennesime domanda per riaprire la scuola, essi la fecero accompagnare con un cospicuo donativo di quattromila scudi da investire nell’Università, racimolato attraverso una cordata composta da alcuni ricchi privati cittadini. Fu proprio l’ingente disponibilità finanziaria messa sul tavolo da Torino a decidere una contesa che invece, sul piano strettamente giuridico, era in perfetto stallo.

Ironia della sorte, di fronte a questa evoluzione Emanuele Filiberto esercitò proprio quella forma arbitraria di potere che i monregalesi gli avevano riconosciuto e che gli permetteva di tranciare d’imperio un burocratico nodo gordiano, ma in un senso assai diverso da quello auspicato a Mondovì. Nonostante le ulteriori perizie raccolte e nonostante l’estremo tentativo di ottenere ancora un rinvio, adducendo a motivo l’imminente inizio delle lezioni, l’Università di Mondovì dovette piegarsi alla volontà del duca, che il 22 ottobre 1566 assegnò definitivamente a Torino l’esclusiva sui diritti universitari e il giorno dopo intimò ai professori incaricati a Mondovì di trasferirsi seduta stante a Torino per cominciarvi i loro corsi il successivo 3 novembre.  Per Emanuele Filiberto si trattò di un vero affare. Il Comune di Torino si sobbarcò per intero la spesa del trasporto dei bagagli dei docenti e si preoccupò di riattrezzare, sempre a proprie spese, le strutture destinate all’insegnamento; pur di riavere l’Università, esso si impegnò inoltre a versare ogni anno mille scudi per coprire i costi di gestione e cedette al duca persino l’usufrutto dodicennale sulle gabelle cittadine su vino e carni. A Mondovì sarebbe invece rimasta la tipografia di Torrentino, ora in mano ai suoi eredi, probabilmente perchè il ceto imprenditoriale torinese, che più si era speso per la riapertura dello Studio, non vedeva di buon occhio il trasferimento di un’impresa commerciale già avviata e voleva godere in proprio dei vantaggi economici garantiti dalla presenza dell’Università. Le motivazioni che spinsero Emanuele Filiberto a una scelta di quel tipo non furono però solo strettamente finanziarie. Lo spostamento dell’Università a Torino rientrava infatti in un più articolato progetto volto a rafforzare la centralità di Torino come capitale dello stato, negli stessi anni in cui il duca si cimentava anche con la costruzione della cittadella fortificata e con il trasferimento della Sindone da Chambéry (un atto che ricapitolava, anche simbolicamente, il trasferimento di competenze, poteri e interessi dei Savoia dall’area francese a quella italiana).

Ferrante Vitelli, Progetto realizzato per la cittadella
di Mondovì
, (c) Archivio di Stato di Torino
Con il 1566, di per sè, Mondovì non vide completamente annullati tutti i propri diritti: restò infatti in vigore la possibilità di promulgare titoli, ma il divieto di tenere lezioni pubbliche rendeva quella monregalese una pura “università di carta”, come sono state talvolta chiamate le sedi che si limitavano a conferire le lauree senza che vi si svolgesse una qualche forma di didattica. Negli abitanti della città rimase però soprattutto un senso di profonda frustrazione, che riesplose in diverse occasioni, anche in forma violenta, come quando Emanuele Filiberto decise di aumentare il prezzo del sale. Fu proprio per tenere meglio sotto controllo questa città orgogliosa e ribelle che il duca decise di innalzare anche qui una cittadella fortificata, nel 1573, con la motivazione ufficiale che trattavasi di una misura preventiva onde difendersi meglio da eventuali attacchi degli ugonotti francesi. Oggi quella cittadella, segno di antico dominio, è uno dei tanti contenitori vuoti di una città che continua ad avere quasi gli stessi abitanti di allora, ma distribuiti su una superficie sempre più ampia, quasi ad indicare anche sul piano topografico un progressivo allentarsi dei legami sociali, che auspico sinceramente possano invece tornare a rafforzarsi, con un colpo di reni che ci trascini fuori da un destino di apparente declino e ci rimetta in movimento, magari proprio a cominciare dal maggio prossimo.

martedì 7 febbraio 2012

Mondovi'... formidabili quegli anni (Parte 1)


Tanto per far capire che aria tira qui a Thélème, contravverrò subito alle mie stesse dichiarazioni d’intenti (per cui vedi qui a fianco la stanza l'autore ai lettori), in base alle quali sarebbe lecito attendersi pagine popolate esclusivamente da nani e ballerine rinascimentali, e inaugurerò il blog con due post serissimi, venati anzi di una patina malinconica, dietro cui si potrebbe persino scorgere l’ombra di una nemesi storica. Mi sembra bello infatti cominciare con un omaggio alla mia città, peraltro in pieno anno elettorale, e quindi in un momento in cui si è più propensi a ragionare di passato, presente e futuro. Quella che intendo raccontare è infatti la storia di come Mondovì ebbe per lo spazio di un mattino la sua Università e di come le venne sottratta dopo pochi anni (meno ancora di quelli trascorsi, in tempi più recenti, prima che il Politecnico di Torino chiudesse di fatto la sua sede decentrata, aperta nel 1990).

Mondovì, Cattedrale e Torre del Belvedere

Anche se è meno nota alla memoria collettiva rispetto ad altre più celebri date, il 3 aprile 1559 segna in ogni caso un autentico punto di svolta nella storia italiana. Quel giorno infatti fu ratificato nella cittadina francese di Cateau-Cambrésis, ai confini con le Fiandre, l’accordo di pace che pose fine alle estenuanti guerre tra Asburgo e Valois, stabilendo di fatto il dominio spagnolo sulla Penisola per tutto il secolo successivo. Fra le varie risoluzioni contenute nel trattato, ve n’era anche una che imponeva alla Francia di abbandonare i territori appartenenti a casa Savoia, dopo oltre un ventennio di occupazione, e di restituirli al loro legittimo titolare, Emanuele Filiberto, ritrovatosi duca senza ducato alla morte del padre Carlo III, con il quale era fuggito dal Piemonte al momento dell’invasione delle armate transalpine. Avviato precocemente alla carriera militare, il giovane principe aveva poi scalato le gerarchie dell’esercito imperiale fino a guidarlo alla vittoria nella decisiva battaglia di San Quintino (10 agosto 1557) e scalpitava ora per veder finalmente riconosciuti i propri diritti ereditari. In vista del suo effettivo insediamento, tuttavia, come garanzia di futura neutralità dello Stato sabaudo nello scacchiere italiano, la Francia ottenne comunque al tavolo della pace di poter mantenere il controllo di alcune piazzeforti strategiche in territorio piemontese, tra cui Chieri, Pinerolo e – soprattutto – Torino.

Prima di procedere oltre, occorre ricordare che Torino all’epoca non era ancora la capitale del Ducato (lo sarebbe diventata a breve, come vedremo, subentrando a Chambéry), ma dal 1404 ospitava un suo Studio universitario. Diciamolo subito: periferica rispetto al circuito delle altre prestigiose sedi italiane, l’Università torinese soffrì sin dall’inizio la concorrenza di centri assai più qualificati, talora anche vicinissimi, come Pavia, e non riuscì mai a guadagnare una dimensione che non fosse puramente regionale. Per quanto possa suonare paradossale, fu però proprio questa marginalità a propiziare quello che è ancor oggi uno dei maggiori lustri della sua storia, l'aver cioè licenziato in teologia nientemeno che il grande Erasmo da Rotterdam, in occasione del suo viaggio in Italia del 1506. Contrariamente a quanto siamo abituati a pensare oggi, nell’ordinamento tradizionale delle Università medievali e rinascimentali, il conferimento di un titolo era un atto per certi aspetti distinto dall’attività didattica, e non era raro che studenti formatisi in un certo luogo si recassero poi altrove a laurearsi, talora per valorizzare i propri studi presso un’Università più importante, talora invece per sfuggire alle onerose prebende che i centri maggiori richiedevano al momento dell’addottoramento. Il desiderio del non ancora famoso Erasmo di presentarsi, nonostante i suoi studi formalmente irregolari, con il titolo di theologus ai circoli umanistici italiani presso cui intendeva accreditarsi deve aver trovato una sponda propizia nell’istituzione torinese, che secondo un’ipotesi non peregrina sembra esercitasse all’epoca, proprio per la sua posizione geografica, un certo richiamo sugli studenti d’Oltralpe interessati a conseguire un titolo in Italia relativamente a buon mercato (benchè, a rigore, lo Stato sabaudo fosse all’epoca sostanzialmente uno stato francese, l’Università di Torino era infatti in tutto per tutto conformata secondo il modello organizzativo “bolognese”, diverso da quello “parigino”, proprio delle Università del Nord Europa). Questo episodio non contribuì tuttavia a mutare le sorti dell’Università di Torino, neanche quando Erasmo, di lì a poco (l’Elogio della follia è del 1511), sarebbe diventato il faro di tutta la cultura europea. Anzi, ben presto essa dovette piegarsi alla logica delle armi e fu costretta a chiudere i battenti e sospendere ogni attività didattica per tutti i lunghi anni dell’occupazione francese. Che per Torino, come abbiamo detto, non terminarono, però, con il reinsediamento dei Savoia nel proprio ducato.


Emanuele Filiberto,
"Testa di Ferro"
É esattamente a questo punto che nella nostra storia entra in scena Mondovì. Per quanto il nomignolo di “Testa di Ferro” affibbiatogli durante le campagne militari non lascerebbe presagire nulla di buono in tal senso, Emanuele Filiberto si dimostrò invece immediatamente molto interessato alle questioni di politica scolastica. Già pochi giorni dopo gli accordi di Cateau-Cambrésis, il duca aveva diramato dalla lontana Bruxelles, dove ancora si trovava, un’ordinanza che concedeva alla città di Nizza il privilegio di poter fondare un proprio collegio di giurisperiti e di rilasciare per suo tramite titoli accademici in legge. Si trattò di un provvedimento d’emergenza, che di fatto non portò a nulla di concreto, ma che segnala la precisa volontà da parte di Emanuele Filiberto di ricostituire quanto prima una classe dirigente adeguatamente preparata, in grado di amministrare il nuovo Stato che si accingeva a governare e, per certi aspetti, a rifondare. Per mettere in piedi un’università era però necessaria un’energica volontà politica e la disponibilità a effettuare investimenti anche ingenti. In quel frangente Mondovì fiutò l’occasione di sfruttare a proprio vantaggio l’impossibilità per lo Studio torinese di riprendere le proprie regolari attività, e si candidò a prenderne il posto. Una simile pretesa, considerati i rapporti di forza del XXI secolo, può apparire velleitaria. Eppure nel ‘500  Mondovì non era certo la più piccola dei capoluoghi di Giuda: sede vescovile dal 1388, essa contava già all’incirca ventimila abitanti contro i 14 mila attestati a Torino da un censimento del 1571. Forse grazie anche alla mediazione del potente cardinale Michele Ghislieri, Grande Inquisitore del Sant’Uffizio, nominato vescovo di Mondovì il 27 marzo 1560, Emanuele Filiberto manifestò perciò una certa disponibilità ad accogliere questa proposta. Non appena fu messo al corrente di tale apertura, nell’ottobre 1560 il Consiglio Comunale diede mandato a quattro emissari (due giuristi e due nobili) di recarsi a Vercelli, sede provvisoria del governo ducale, per definire i termini della concessione. L’ambasciata ebbe successo e l’8 dicembre 1560 Emanuele Filiberto sottoscrisse il diploma con cui concedeva a Mondovì i tradizionali privilegi spettanti alle sedi universitarie, impegnandosi inoltre a chiamarvi professori di grido e a provvedere in prima persona al loro sostentamento, con denari appositamente tratti dall’erario statale.

Tommaso Vallauri, autore di una Storia dell’Università piemontese (1845-47), dà una descrizione quasi commovente della solerzia manifestata in questa circostanza dai monregalesi, che seppero davvero far fronte comune per il bene della città:
«la sollecitudine dimostrata in questa occasione dal comune di Mondovì, e la rara liberalità, con cui si profferse di sopperire in parte alle spese richieste pel mantenimento dei lettori, palesa chiaramente l’indole di quei cittadini, i quali, come sono per lo più di svegliato ingegno e disposti al coltivamento di qualunque liberale disciplina, così hanno della natura una singolare alacrità, che li rende assai faticanti e adatti al maneggio di gravissimi affari, e fa loro abbracciare volenterosamente tutto ciò che si rappresenta all’animo siccome utile e onesto» (pp. 153-4).
In tal senso, l’episodio forse più significativo fu la decisione assunta il 14 febbraio del 1561 di attingere una quota di mille scudi dalle casse comunali da destinare al pagamento degli insegnanti, per sopperire alle lacune del finanziamento ducale. Ma Mondovì aveva dato per tempo prova inequivocabile di nutrire grande fiducia in questo progetto. Ancor prima che la concessione fosse ufficializzata, il Comune aveva già provveduto infatti a reclutare personale e a organizzare un embrionale ciclo di lezioni in diritto e medicina, benchè le nomine dei cattedratici, di competenza del duca, fossero poi snocciolate pian piano durante tutto il corso del 1561, segno che – nonostante le ottime intenzioni – per quel primo anno la didattica procedette inevitabilmente a singhiozzo, come del resto è normale aspettarsi da un’attività appena inaugurata. Come sede delle lezioni furono scelti il palazzo vescovile e l’attiguo ospedale maggiore; l’aula vescovile, in particolare, fu destinata alla proclamazione delle lauree. Mondovì fu anche molto generosa nel rifornire di professori autoctoni la sua università, anche se questo può per certi aspetti essere considerato un suo punto debole, perchè sembra denotare un certo provincialismo; ciò non toglie, tuttavia, che, allo stesso tempo, per creare interesse intorno alla neonata istituzione furono anche assoldati per iniziativa del duca alcuni personaggi interessanti della cultura italiana ed europea della metà del ‘500 (ma sui professori che passarono da Mondovì mi piacerebbe tornare in un altro post).

Frontespizio della Storia d'Italia
di Guicciardini, pubblicata
da Torrentino nel 1561
Sicuramente nell’impresa ci credeva molto, in questo primo momento, lo stesso Emanuele Filiberto. Oltre a imporre per decreto che tutti i giovani piemontesi interessati a proseguire i loro studi si iscrivessero a questa Università, egli fece chiamare appositamente da Firenze lo stampatore fiammingo Lorenzo Torrentino, perchè aprisse una tipografia a Mondovì così da garantire il supporto editoriale necessario per le attività scolastiche: a tale scopo fu costituita nel giugno del 1562 un’apposita società, in cui lo Stato entrava per un terzo del capitale. Questa decisione è particolarmente indicativa. Le credenziali di Torrentino, infatti, non erano in quel momento particolarmente affidabili, dal momento che la sua precedente esperienza come stampatore di stato per conto del granduca di Toscana Cosimo de’ Medici si era conclusa in modo fallimentare. Tuttavia restava uno dei maggiori tipografi attivi in Italia, e poteva vantare al proprio attivo edizioni di Guicciardini, Paolo Giovio e Vasari. L'intenzione di Emanuele Filiberto era evidentemente quella di rafforzare quanto più possibile il centro di studi che aveva creato, ma poiché si trattava pur sempre di una piccola realtà, bisognava anche essere disposti a concedere una seconda chance a figure di caratura internazionale il cui successo si era magari momentaneamente offuscato. Tutto sembrava dunque cospirare per il meglio. Avviato il primo regolare anno accademico nell’autunno 1561, Mondovì (dove esattamente negli stessi anni veniva anche inaugurato anche un Collegio Gesuitico) sembrava insomma nelle condizioni di potersi ritagliare uno spazio significativo nel novero delle istituzioni scolastiche superiori italiane, quale ateneo di riferimento del rinnovato Stato piemontese (l’equivalente, insomma, di ciò che Padova era per Venezia o Pisa per Firenze). Ma la storia aveva in serbo per lei un brutto tiro.